Il Pollino, quasi
Colazione frugale, in antitesi con la dispersione calorica che a breve ci attende. Siamo a Varco, linea di confine fra San Severino Lucano e Viggianello. Il Parco del Pollino in terra lucana. Poco più di novecento metri di altitudine, Luisa gentile locandiera, affranta dalle condizioni climatiche che non ancora le consentono di mettere a dimora l’orto estivo. Ce ne faremo una ragione, pomodori e patate arriveranno con il camioncino parlante.

Da Varco al Colle dell’Impiso, la strada, ad una sola carreggiata, si inerpica prima con moderazione e poi con più forte pendenza. Un giovane e disorientato capriolo si dilegua dal ciglio nella macchia circostante e poi, quando si apre l’orizzonte, su un pianoro verdissimo, vacche podoliche, altre autoctone e giumente con puledri infanti, bramosi del latte materno, pascolano beatamente alle prime luci colorate del mattino. Millecinquecento sessanta metri, campo base, il Colle dell’Impiso, luogo di impiccagione al tempo dei briganti. Saluto fraterno con mariti della provincia di Teramo, con mogli al mare acerbo di Maratea. Oltre cento chilometri, ma apoteosi della libertà. La loro meta odierna è la Serra Dolcedorme, cima apicale del gruppo del Pollino e al vertice della regione Calabria.
Miei fedeli compagni di ventura, Nino e Adriano, il dottore. La compagine non è casuale, ma densa di un vissuto condiviso, frutto di vite intersecate e animata da discussioni accese sui più svariati temi. Corroborata da una sintonia di rara efficacia.


Il cielo è terso, di un azzurro che vira per intensità al blu, aria frizzante, erede di settimane di precipitazioni. Undici gradi, la temperatura. Sembrerebbero le condizioni ideali, per l’obiettivo odierno: la vetta del Pollino. Duemila duecento quarantotto metri, culmine della Basilicata. Così, con questo intento, mi ripropongo di allungare la schiera di cime regionali, avviata la scorsa stagione estiva, con Abruzzo, Campania, Molise e Puglia.
Certo, partire in discesa per avviare un’ascesa non depone poi così bene, soprattutto per noi ormai datati peripatetici. Ma, il sentiero per il Pollino dall’Impiso impone un non breve tratto che fa perdere oltre cento metri di quota, fino a raggiungere i Piani di Vacquaro, a quota mille quattrocento metri. Dove oggi abbonda il torrente Frido.
Ci sorpassa con passo marziale un nutrito e variegato gruppo di escursionisti veneti, soci CAI, arrivati all’Impiso con pullman strombazzante, colonna sonora non proprio azzeccata all’atmosfera silvestre al risveglio.
Seguiamo la mulattiera, umida, ma che non lascia ancora tracce, usciamo ancora momentaneamente dal bosco in un’altra ampia radura dove riempiamo le borracce, indenni dall’acqua gelata della sorgente di Spezzavummula, così chiamata perché capace di ridurre in frantumi le “vummule”, le anfore in terracotta in uso dai pastori.

Ci attende, dopo aver superato un’altra breve rampa il Piano di Gaudolino. Siamo a poco meno di millesettecento metri. E qui il respiro, la visuale, si allargano. Entriamo in un fotogramma di Jurassik Park. Al pascolo bovini ed equini, armonie di campanacci, verde accecante al riflesso del sole ormai caldo.
Sulla destra è stato da pochi anni installato un bivacco in legno e nei suoi pressi ha inizio il sentiero che conduce alla Serra del Prete.
Il nostro sguardo, orientato dal prezioso suggerimento di Francesco Bevilacqua, autore della monumentale opera sul Parco del Pollino (Guida storico-naturalistica ed escursionistica, Rubettino Editore), si rivolge verso l’immediata sinistra, dove due faggi, di cui uno dal tronco cavo, segnano l’inizio della traccia che conduce, attraverso la spalla ovest, alla cima del Pollino. È la via più breve, ma anche la più ripida.



Ben presto, l’incedere si fa, per me soprattutto, difficoltoso, quando intorno ai mille e ottocento metri, il sentiero interseca una pietraia fatta di massi di una certa dimensione e a tratti superabili con l’aiuto delle mani. E improvvisamente, senza i preliminari di rito, muta il tempo. Sono solo le dieci e trenta del mattino. L’azzurro lascia il campo al plumbeo e, quando raggiungiamo le iniziali mastodontiche sagome dei primi pini loricati, la pioggia comincia scendere su di noi a vere e proprie secchiate. Il fragore dei tuoni, vicino e minaccioso, è il segnale che ci respinge e che ci spinge a fare marcia indietro. Nino è leggermente al di sopra di noi, intorno ai duemila metri ed è lui che ci dà l’abbrivio per correre ai ripari, o meglio per rinunciare alla cima. Solo un attimo, per il trio, di godersi queste vere e proprie meraviglie della natura che i pini loricati qui incarnano. Conifera millenaria, simbolo del Pollino, in lotta perenne con il faggio sui cui vince nelle zone rocciose, dove la latifoglia non ha scampo.

E ben presto, gli indumenti impermeabili e le calzature in goretex devono soccombere alla forza incessante del temporale. La cascata di blocchi di pietra, già subita in ascesa, si fa scivolosa, tanto da condurci ai suoi confini dove si tracciano percorsi a piccoli tornanti. I faggi, prima in copertura, ben presto si trasformano in copiosi dispensatori di acqua piovana.
Nino e Adriano raggiungono al Piano di Gaudolino il rifugio incontrato al mattino presto. Rinuncio ad unirmi ai miei, ho lo zaino letteralmente grondante e non più contenitore stagno per il mio cambio di indumenti. Il Piano è una distesa acquitrinosa. Cerco di avvantaggiarmi nello scendere, ma il diffuso ruscellamento rende di difficile recupero la tradizionale linea disegnata a strisce bianche e rosse. Le sagome dei miei, unite ai betabloccanti da cui dipendo da anni, abbassano la frequenza del mio battito. E pur costretti a cambiare più volte direzione, con frequenti guadi di corsi d’acqua improvvisati, siamo di nuovo al Piano di Vacquaro. Il Frido, alimentato vorticosamente da ambo i lati, assume le sembianze di un vero e proprio fiume in piena, che può godere di un vasto bacino di espansione. Da qui, l’ultima oretta per risalire al Colle dell’Impiso. Tratto in ascesa, singolare e sgradita goccia che ci fa traboccare il vaso. Metafora quanto mai azzeccata, per un trio zuppo all’inverosimile.



La cima del Pollino, oggi mancata, è imbiancata dalla grandine. Messi da parte vetta e chicchi, con l’acqua addosso, hanno potuto attecchire in maniera indissolubile sulla nostra pelle le tante emozioni provate per cercare di raggiungere il vertice più alto della Basilicata.
Apollo, divinità latina che gli regala il nome, è per oggi dio della sola bellezza, per il sole, ha prevalso Giove Pluvio.

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