La Gallinola della Campania
In solitaria. All’alba verso la provincia di Caserta, verso i Monti del Matese, passando per Campitello Matese, ancora Molise. Località di turismo invernale, ripetuta tappa del Giro d’Italia, l’ultima del 2015 al traguardo il basco Beñat Intxausti, con maglia rosa dell’anno ad Alberto Contador.

La Gallinola, con i suoi 1.923 metri, è la vetta più alta della Campania. Recentemente è in corso di riattribuzione il suo primato regionale, ma fa lo stesso. Il nome, divertente e banale pretesto per giochi di parole, richiama la conformazione frastagliata della sua vetta che ricorda la cresta di gallo. Cresta semplice a ventaglio, quella più diffusa, carattere recessivo di interazione genica, esempio trasgressivo del dettato mendeliano, che aggiunge alla forma a pisello e a rosa quella della noce.
L’indomita indole a privarmi dei benefici delle tecnologie mi procura non poco disagio. Il Piano della Corte, punto di partenza per la Gallinola, è per me apparentemente irraggiungibile. Non un’indicazione stradale, non un cartello che ne denomini la collocazione. Il burbero villico, solcato in viso dalla fatica silvo-pastorale, scende dapprima indispettito dal suo pick-up e poi si fa in quattro per orientarmi. Nessuno dei fermati di Roccamandolfi, però, risolve il “nostro” dubbio iperbolico.
Franco Panella, presidente del CAI di Piedimonte Matese, mi salva dal sicuro fallimento. Le sue precise indicazioni dipanano la matassa e sciolgono la riserva. Il riferimento ad una non estesa area pianeggiante con vacche Marchigiane, Pezzate Rosse e Limousine, tutte “rigorosamente” da carne, al pascolo surroga il segno con goccia rossa di Google- Map.

Da qui, timidi segni bianco rossi e spruzzi di bomboletta arancione disegnano un percorso che ad una iniziale leggera asperità porta nuovamente su un pianoro. Qui albergano altre bovine ruminanti e maternamente attente ai propri redi. Rado il pascolo e inghiottita l’acqua, l’appezzamento sta per esaurire la propria funzione ristoratrice. Sulla sinistra l’ascesa in cresta, con recinzione in pali in legno fatiscenti e filo di ferro spinato a terra. Il lago Matese si apre allo sguardo verso ovest. Di origine carsica, raccoglie le acque della Gallinola e del Miletto, cima, quest’ultima, primatista dei Monti del Matese.
Il bacino lacustre è in palmare sofferenza ed esprime più di ogni altro “dotto” sproloquio convegnistico gli effetti del cambiamento climatico. In sintesi è la sua siccità, è il suo aspetto paludoso delle rive, è il suo colore cangiante delle acque che parlano.

Dopo un nuovo piccolo terrazzo raggiunto attraverso un solco di terra marrone erto, il sentiero e la sua evidenza si fanno ancora più opalescenti. Mi sposto sulla sinistra, optando per il salire di quota portandomi sulla cresta. La struttura carsica di questa montagna a questo punto ha il sopravvento e ne manifesta tutto il suo fascino, misto alla sua desolazione. Intorno ai milleottocento metri si scorge la croce della vetta. Segnali bicolori ormai evanescenti, per creste e terreno sconnesso raggiungo la Gallinola. Due croci, forse è qui l’arcano della sua collocazione regionale, una in legno ed una in tubi innocenti e l’iscrizione in rosso su pietra della sua altitudine ne segnalano la laconica esistenza.
L’asperità che con il Miletto esprime la coppia di diamante del Parco Regionale del Matese meriterebbe indubbiamente altro onore, altra riconoscenza ed altro riconoscimento. Una Istituzione, sì chiamata alla tutela e alla salvaguardia del bene ambientale, quale è il Parco del Matese e che ha un bilancio di oltre due milioni di euro, potrebbe destinare una quota finanziariamente di certo insignificante alla valorizzazione, anche turistica, delle sue eccellenze ambientali. Una maggiore cura e manutenzione dei sentieri, una segnaletica dignitosa e riconoscibile, indicazioni sulle percorrenze e sugli itinerari, tutti oltremodo ecocompatibili e rispettosi dell’ambiente selvaggio in cui sarebbero collocati, consegnerebbero anche all’escursionista solitario sicurezza nel procedere e dovizia informativa nel conoscere il territorio protetto.
Il panorama che si gode in vetta fra le due croci ripaga abbondantemente questo puzzle dell’indifferenza. I Monti della Meta, la Maiella e il Gran Sasso all’orizzonte. Sempre in cresta un invitante e spettacolare tragitto in quota, in direzione del Miletto. La leggera foschia toglie agli occhi Tirreno, Adriatico e Vesuvio.
Fra le due croci, unica presenza umana, una t-shirt tecnica posta ad asciugarsi sui massi che le sostengono. È un giorno di piena estate, di singolare sciopero dell’escursionismo matesino. E non riesco a percepire, ultimato il frugale panino e caciocavallo, gli effetti che la solitudine potrebbe produrre sul mio umore. È solo un ulteriore ingrediente della desolazione. E anche la scelta di scendere, preoccupandomi solo della riduzione di quota, senza più cercare le tracce di sentiero, la intenderebbe testimoniare.

Mi sposto eccessivamente sulla sinistra, supero sbalzi e gradoni che non portano a nulla. Mi tocca tornare sui miei passi in diversi tratti, confidando sul benefico effetto dei betabloccanti. Aiutano a contenere il battito cardiaco. Entro in un bosco, prima di faggi e poi di cerri e roverelle, non attraversato all’andata. All’iniziale sconcerto e temporaneo disorientamento si sostituiscono ben presto calma e serenità allo scorgere di una carrareccia di uso forestale e zootecnico. Dopo poche centinaia di metri sul suo agevole tracciato, si apre alla vista la piana sottostante ed appare serendipica la sagoma della mia Jeep.

Il tempo di calzare i sandali e riporre le scarpe da montagna nel bagagliaio che si scatena un temporale misto a grandine. E mi sento fortunato.
Il caffè deca nel bar di un hotel a Campitello Matese è appena sufficiente a mitigare l’indignazione procuratami dallo scempio edilizio alle mie spalle: un residence mastodonte ed incombente.

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