L’ora e cinquantotto del Porrara
Il Monte Porrara chiude la tetralogia che accerchia la Maiella. Il tassello meno insolito. È il traguardo a cadenza annuale per tanti camminatori autoctoni. Non fosse altro per il rispetto che si nutre nei suoi confronti dalle comunità della Valle Aventino che lo vedono chiudere con la sua tagliente cresta lo skiline verso sud. E la cui caratteristica “volpe”, accumulo di nubi sulla sua sommità, rappresenta per credenza popolare il segnale di imminenti avversità atmosferiche.

Trio senza sherpa. Mi accompagnano Elisabetta, intelligenza in prestito senza riscatto alle scuole del Garda, ed Emilio, salentino in comodato turistico e parentale tarantolese, fisico asciutto, dieta rigorosamente proteica. Prime ore del mattino, indigeste a Betta, temperatura in piena estate di undici gradi. L’inghiottitoio di Quarto Santa Chiara segna l’avvio del sentiero che per circa mille metri di dislivello conduce alla vetta del Porrara.
Il vento freddo, forte e tagliente, contrasto stagionale, ci immerge nella faggeta, dove il procedere è agevole per minima pendenza e per puntuale segnavia bianco-rossa dipinta sugli alberi. Una coppia di triestini, lui barbuto, rossiccio, con bastone, camicia a quadri e in palmare sovrappeso, lei sportiva in tenuta tecnica, di stirpe dalmata. Due chiacchiere volanti, mentre loro si fermano per riprendere fiato.

Il cielo è terso, quella leggera nebbia che al mattino avvolge la Stazione di Palena è dissolta e alla prima radura fuori dal bosco la piana appare in tutto il suo fascino mattutino e la sua vista, perché già in quota, ripaga il fiato corto che è ormai spezzato. E’ un susseguirsi di tratti boschivi e di radure in erba. E’ ancora troppo freddo per la comparsa delle mosche moleste, vero incubo dell’ascesa al Porrara.

E man mano che si sale, si ampliano gli orizzonti sui due versanti. Quello orientale, con l’Eremo della Madonna dell’Altare, la fenditura della Valle di Taranta, il lago artificiale di Casoli, i Monti Pizzi, il Secine, il Basilio e in fondo in fondo il mare Adriatico. Sul versante opposto, Pizzalto, Rotella, Morrone e Gran Sasso, in prospettiva estrema.

L’anticima illude. E le due erte terminali, con roccette esposte e sentiero non più così marcato e con segmenti sdrucciolevoli, lasciano il segno su gambe e polmoni. Betta ed Emilio, in prima uscita stagionale di montagna, hanno dalla loro parte la giovane età, camminano al mio fianco e il mio procedere lento li aiuta a ritrovare ritmo e respiro. Una leggera depressione, una fossa trincea, è quello che resta della postazione tedesca da cui i nazisti controllavano Valle Aventino e l’Alto Sangro.
La croce sulla vetta, a 2137 metri, in ferro nero, riporta sulla base in pietra l’anno della sua collocazione, il 1986. Anno, che, in giugno, ha visto nascere Gemma, mia secondogenita.

Nei pressi della croce, la meritata postura contemplativa e la curiosa indagine rivolta ai panorami che si aprono all’orizzonte sono platealmente interrotte dall’arrivo chiassoso e ansimante del protagonista della performace teatrale del giorno. Al grido liberatorio di un’ora e cinquantotto, fa la sua apparizione in scena un non più giovane trentenne, il cui addome denuncia consolidata sedentarietà. Ha in mano un dispositivo elettronico da cui legge il risultato del tempo record personale con cui ha raggiunto la meta. Dati che inspiegabilmente e immediatamente scompaiono sul display al cospetto dei suoi compagni di avventura che lo hanno appena preceduto. Ed è tutto un ridere, sorridere ed annuire maliziosamente.

Arriva la coppia triestina, che brinda la meta con un bicchiere di Refosco dal Peduncolo Rosso: la classe non è acqua!
Dalla cima del Porrara evidente è il sentiero in cresta che conduce alla vetta dell’Ogniquota, di qualche metro al di sotto, e poi al Guado di Coccia. E da qui a Tavola Rotonda e poi a Monte Amaro. E tre ricordi affiorano per precedenti passaggi in cresta.
Con Alessio, oggi direttore di Radio Radicale, e Fabio, incessante commentatore politico, con Amarone nello zaino, rigenerante a sorsi generosi da Paolino, vero agriturismo con ricotte e carne di pecora.
Con Sandro, appena dodicenne al suo battesimo di montagna, e con Nino, divenuti poi i miei più fidati sherpa.
Con Giannina e Gemma, pochi anni orsono. Trio famigliare raramente componibile in quota.
Cambio e ristoro che ormai è caldo. Ed è ormai anche giunta l’ora che i famigerati ditteri, fatta eccezione per il primo tratto in discesa erto e roccioso, fanno la invadente comparsa sul nostro cammino. E sono fastidiosi, insistenti, numerosissimi. Il dispendio energetico per scacciarli supera di gran lunga la fatica, a me per natura assidua compagna, della discesa.

Ci salva l’Autan, insetto repellente di cui ci irroriamo in abbondanza. E ci offre la tregua per riprendere con grandangolo immaginario lo scenario che ci si prospetta. Naturalmente diverso da quello goduto in ascesa.
Nel raggiungere l’inghiottitoio con Betta non possiamo non tornare, con gli occhi in lacrime per le risate, sull’ora e cinquantotto e decidere insieme che darà il titolo alla nostra escursione del giorno.

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