Tra_Monti
Una rubrica di Marcello Di Martino
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Meglio darsi alla Macchia

Escursione assistita. Ad anello. Sono in corso i lavori di revisione della Funivia Il Cavallone. Ci autorizzano a transitare su un tracciato che non è più sentiero, ma ormai una strada di servizio per mezzi pesanti che hanno portato su, alla stazione di monte, il nuovo motore e la puleggia rettificata per la trazione della fune su cui saranno ricollocati i cesti biposto. 

Chiaramente, e inevitabilmente, persa la sua funzione e struttura originaria, la via che traccia il primo tratto della maestosa Valle di Taranta è ormai divenuta inadeguata al transito pedonale. La percorriamo, nei primi giorni di settembre, terso acceso il cielo, in ombra al fresco del primo mattino, con fatica e, in tratti, addirittura tornando all’indietro per l’estrema pendenza di alcuni segmenti, coperti da uno strato di pietre che rotolano sotto le nostre scarpe .

È con me Fernando. Lui è tutto tranne che lo stereotipo dell’escursionista moderno. Indossa abbigliamento casual ma non tecnico. Calza scarponcini invernali di un famoso marchio outdoor, non di certo classificabili fra le calzature da trekking. Una borsa di pelle, tipo Tolfa, messa a tracolla fa le veci dello zaino. In testa cappello di fattura sudamericana a falde larghe. Un outfit, specchio del suo carattere artistico. Di sognatore, di visionario, disincantato e non conformista. Cammina e parla. Di storie vissute, di futuri progetti, di disillusioni, di amarezze. Senza mai esagerare, nell’enfasi, sui punti bassi che hanno contraddistinto il suo non più recente passato. Ed è piacevole ascoltarlo, senza replicare. Nonostante la mia tenuta tecnica inappuntabile, faccio fatica più di lui a salire e il fiato residuo lo riservo a portare ossigeno alle fibre muscolari. 

Ossigeno utile anche alla funzione cerebrale. Alla memoria che riporta all’adolescenza e agli anni dell’università, quando si risaliva dal centro abitato posto a quota cinquecento metri, rigorosamente a piedi, alle prime luci dell’alba, per celebrare il rito annuale della gita alla Grotta, posta ad oltre mille quattrocento metri. Attraversando la Valle, con sosta alla Grotta Pizzutella, per la colazione, vino rosso e frittata, sigarette e risate. La Pizzutela, intorno ai mille e duecento metri, è una sorta di Tolos per il riparo di montanari. Divertenti e derise sortite in avanti, da parte di quei ragazzi che, al prematuro cospetto di ragazze aggregate alla compagnia, si cimentavano in esibizioni podistiche che ne surrogassero la loro estrema timidezza e ne riducessero la loro palmare goffaggine.

Nell’arco dei cinquant’anni trascorsi, la flora arborea, spontanea e oggetto di rimboschimento, ha avuto il sopravvento sull’opera dell’uomo e della zootecnia minore, qui assai diffusa fino agli anni del boom economico. Ci aspettano su tutto il percorso carpini bianchi e neri, lecci, cerri, ontani, maggiociondoli, roverelle, conifere, e più in alto faggi. Alberi che hanno macchiato di un colore verde intenso la profonda fessura della Valle che, tempo addietro, emergeva brulla, arida, incolta, bianco grigia con sfumature di ocra in alcuni suoi tratti rocciosi.

Prima sosta, dopo un’ora e mezza di faticoso incedere, alla stazione di monte della cestovia, quota mille trecento settantacinque. Particolarmente ostiche le ultime rampe, sempre per la loro inadeguatezza al calpestio di noi viandanti. Taumaturgica, lenitiva della fatica, la visione furtiva dell’Aquila Reale che, sui mille metri, cura a turno con il partner il pullo appena nato e avvia la sua ricognizione mattutina alla ricerca di prede da dare in pasto alla progenie. 

Saluto veloce agli addetti ai lavori di manutenzione e ripartenza per il Fontanile, sempre sulla traccia che spontaneamente produce il vertice basso della Valle.

In poco meno di un’ora siamo alla seconda sosta. Quota superiore ai mille e settecento metri. Il verde degli orapi, qui endemici perché area ricca di stallatico, si confonde con quello delle ortiche. È d’obbligo, a questo punto, la citazione della Puttana del Tedesco, romanzo di Giovanni D’Alessandro, che usa questo prezioso spinacio selvatico quale pretesto di un amore impossibile fra una giovane vedova sulmonese e un ufficiale austriaco, durante l’occupazione germanica del nostro Paese nella Seconda Guerra Mondiale.

Fontana rossa in azione per un rapido ristoro e raccolta di un bel covone di orapi, in parte già spigati in parte però ancora verdi, a riempire il mio capiente zaino azzurro. 

Il Guado dell’Acquaviva offre scenari alla vista ineguagliabili. L’alta Valle di Taranta, che prima dolcemente poi in erta conduce all’Altare dello Stincone e poi a Monte Amaro. Di fronte lo sperone di roccia che dà origine ad oltre duemila metri al Colle d’Acquaviva, degradante verso il Rifugio Tarì. E voltando lo sguardo all’indietro, la punta più alta dei confini comunali con il Monte Macellaro, che supera abbondantemente i duemila e seicento metri.

Dal valico è già ai nostri occhi, puntiforme, il rifugio Macchia di Taranta, per anni volgarmente denominato Casa del Pastore. In venti minuti, siamo al suo ingresso. Abbiamo le chiavi ed entriamo così nella parte attrezzata con fornelli e con letti a castello della zona notte. È collocato a poco più di mille e settecento metri, in località Mandre Ciavine. Mandre sta per mandria, perchè area destinata al pascolo estivo, e Ciavine, secondo alcune interpretazioni, deriverebbe da Juniperus Sabina, qui endemico come in gran parte della Maiella.

Gli orapi del Fontanile, a cui si aggiungono altri ancora “freschi” nei pressi del rifugio, trovano la loro più nobile sistemazione in due piatti di gnocchi, anche quelli in serbo nello zaino, cotti nella loro acqua di lessatura e conditi con guanciale e abbondante verdura. Immancabile il pecorino da raspa. Con il puntiglio, che ho dismesso da qualche anno, ho con me anche due bicchieri di vetro da degustazione e una bottiglia di Montepulciano d’Abruzzo. Si riesce anche a chiudere con un caffè. Il CAI di Lanciano cura amorevolmente il Rifugio e ne ha fatto, come spesso mi piace parodiare, un ricovero a cinque stelle. 

Per chiudere l’anello ci aspetta un lungo versante in discesa, evitando il passo della Frammichella, che, seppur attrezzato dal CAI, risulterebbe al di sopra delle mie attitudini. 

Il bosco di faggi si alterna in basso a querce, carpini e roverelle. Ripari in pietra per pastori ormai scomparsi e costruzioni rudimentali per cavatori di pietra disegnano un passato che non può più tornare. Nelle rare radure, l’affaccio dal ciglio della cresta sulla Valle di Taranta, indigesto per chi soffre di vertigini, è un godimento immenso per noi avventori meno suscettibili al forte senso di vuoto che lì ci investe. 

Il rumore delle automobili, prima in sordina e poi sempre più fragoroso, preannuncia l’approssimarsi della meta. Pausa, pausa ritmo lento. Oltre tre ore per scendere, quasi all’imbrunire. Siamo sulla Statale, le cosiddette “tagliate”, strada panoramica che collega Lama con Palena, nell’Alta Valle Aventino della Provincia di Chieti. La Macchia di Taranta, sconosciuta ai più, è una di quelle gemme nascoste che solo l’Abruzzo riesce a celare con tanta discrezione.

L’escursione, qui raccontata, ha avuto luogo nel settembre del 2019, durante la fine dei lavori di manutenzione straordinaria della Funivia del Cavallone

Meglio darsi alla Macchia ultima modifica: 2023-05-12T18:50:56+02:00 da Marcello Di Martino
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