Monte Gennaro: lo skyline di Roma Capitale
I giochi di parole, a me assai cari, non mancherebbero per il nome di questa montagna domenicale. Li evito. Era da tanto che mi frullava in testa. Toccare con mano la cima del Gennaro, che, nello skyline chiude a nord est l’orizzonte di Roma, era, come un vino d’annata, decantato nelle mie corde da tempo . Il messaggio invitante del mio sherpa preferito, Sandro, ha chiuso il cerchio.

Appuntamento a Marcellina, fra Guidonia e San Polo dei Cavalieri. Per Marcellina, l’evocazione provoca e non trova scampo. Il toponimo, declinato al maschile, ispirò mia madre nel chiamarmi Marcello. In quegli anni, a metà degli anni cinquanta, spopolava il film strappalacrime Marcellino pane e vino.
Ore 8.30, temperatura di due gradi sopra lo zero. Poche auto parcheggiate a ridosso del punto di inizio del sentiero 302, che poi diventerà 303 e ancora dopo 305. Wind stop azzurra, cappellino in lana rosso, pantaloni arancioni e mascherina. Improbabili, ma non del tutto impossibili, battute di caccia al cinghiale non potranno e non dovranno sbagliarsi per i miei colori.

Ci salutiamo con l’occhio complice. Come se già avessimo pregustato le leccornie della giornata. Sandro ha una copri-mascherina prodotta da una start-up del Sud. Sciccheria e sostenibilità albergano anche nel Meridione.
Superata rapidamente la fascia climatica del Castanetum, con roverelle, farnie e cerri, raggiungiamo salendo pochi ma impegnativi gradoni in pietra, quella del Fagetum. Tale composizione botanica, rappresentata da esemplari monumentali di faggi, ci accompagnerà per l’intera escursione.
Lasciamo il sentiero principale, per aggirare da sinistra un rilievo sassoso. Qui l’ambiente è ancora più selvaggio, il percorso, non sempre tracciato, è un saliscendi su un tappeto di foglie ormai già marroni, spesso subdolo per le sporgenze sassose che nasconde. Ho snobbato per l’ennesima volta i bastoncini da trekking e me ne pento. E mi corrono nuovamente in aiuto due rami di calibro e consistenza rassicuranti.
Come per memoria passiva, la vista di giganteschi faggi a terra, destinati ad un sonno perenne, mi riporta indietro all’estate e alla conquista di Pizzalto, con Nino, altro sherpa fuori classe.
Il progredire si fa sempre più denso di emozioni. Ma, parafrasando all’incontrario la famosa frase di Luigi Pintor, l’oceano del meglio non ha approdo (lui scrive del peggio), quando sale il sipario del bosco sul “Pratone”, l’estensione dell’altipiano è di un verde smeraldo che lascia il segno nella mia teca emotiva. Finalmente l’arto inferiore trova ristoro sull’erba, il cui pascolamento equino ha rasato, come al passaggio di Figaro, barbiere tutto fare.

La chiesetta del Pratone, ridotta a macabro ed orribile ricovero, offre la linea per la traccia del sentiero che finalmente, tu pensi, ti porti in vetta. Ma non è così. Un guardrail di massi confina quella che chiamo autostrada del Pratone che presto si dissolve. La via non conquista quota, una sorta di raccordo in falso piano che tarda a trasformarsi in rampa di lancio per la cima. Quando questa arriva, però, il tragitto si fa erto, difficoltoso, pietroso, a tratti con fango. L’unico bastone che mi è ancora fedele mi rende tripode e mi fa salire in vetta.

Culmine assai singolare, con una costruzione a parallelepipedo, con immancabile croce al di sopra. La Metropoli offuscata, il mare scuro all’orizzonte, le montagne a me care dell’Abruzzo, ma anche tutte le più alte espressioni dell’Appennino laziale. Sale qualche avventore, assimilabile alla categoria del consumismo montano, che fa dietro front non appena sfiorata la cima. Cronometro alla mano. La mascherina e il distanziamento sono il riparo al mini assembramento che si genera ai 1271 metri del Gennaro.

Lo sherpa, come un violinista che mai si ripete, mi indica una traccia per tornare a valle diversa da quella seguita in ascesa. La pietraia non è il mio forte, ma qui esprime il massimo della sua interferenza al mio già incerto e balbettante abbassarmi di quota. Dopo una veloce marcia indietro, sul sentiero della “scarpellata”, viriamo a sinistra e quando riconquistiamo il Pratone, ci appare in lontananza “una manifestazione non autorizzata”.

L’imbocco del sentiero al margine della chiesetta del Pratone sputa un continuo e variegato flusso di anime domenicali, pascolatrici concorrenti della abbondante mandria equina dispersa sul verde. Anche su questo versante, le difficoltà a procedere speditamente non mancano. L’accumulo delle foglie, il pietrame nascosto, il fango a tratti in resurrezione dalla recente gelata del mattino, il dover schivare la controcorrente non sempre rispettosa delle regole imposte dalla pandemia infastidiscono e rendono il passo gravoso. Reso, tuttavia, a tratti leggero alla vista di pargoletti biondo cenere che mi sorridono in zaini porta bambini.
La perdita di quota sempre minima si riassume in un lungo tragitto di ritorno. Quando raggiungi, quasi improvvisamente, la meta, trovi una interminabile colonna di auto in sosta. Così si spiega la dimensione del corteo sul prato. Il Monte Gennaro ti lascia in bocca quella sensazione di sapore buono che persiste ai continui tentativi di interferenza del gusto. Il miracolo di “San Gennaro”. Non ce l’ho fatta a tacere.


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