Quella che mi mancava: una Rotella
Con il monte Rotella, si aggiunge tassello alla tetralogia, i cui due primi, Secine e Pizzalto hanno già lasciato traccia su Tra_Monti. Manca il Porrara per chiudere l’epopea di avvicinamento alla Maiella. Sul nome della cima, il gioco di parole è banale. Il titolo ne è testimone.

Il quartetto dell’ultima uscita diventa trio. Il sostituto, Alessio, in panchina per il quarto posto, è sopraffatto dalle grinfie seppur inermi di Radio Radicale. Alla fontanella, ombelico di Lama, preleviamo il nostro sherpa, junior per età dell’omonimo, Tonino Piccone, di montagna sapiente conoscitore. Tonino junior, di primo acchito, non lo faresti così loquace. L’apparecchio uditivo di Adriano, il dottore, ne sa qualcosa.
Stazione di partenza è la funivia Valle Fura di Pescocostanzo, quota 1.400. Obiettivo è cima Rotella, 2.129 metri, quasi otto chilometri di un saliscendi, non impegnativi sul piano della pendenza, se si esclude l’ultimo piccolo tratto che conduce alla vetta.
Tre o quattro vessilli di gruppi alpini ricordano imprese. Una croce su una base di pietra, su cui spicca l’iscrizione della quota e del nome è il consueto emblema della cima. La bellezza dell’incedere in cresta è indescrivibile. Da un lato le Cinque Miglia, e le Brune Alpine del sindaco Leone. Caciocavallo, nobile per latte, il cui giallo della pasta raccoglie tutti gli antociani degli sconfinati prati polifiti dell’altopiano. Il Piano delle Cinque Miglia, la strada Napoleonica, di recente deturpazione, con il taglio dei pini sui due cigli e lo sradicamento delle pietre miliari borboniche, cilindriche e semisferiche alla sommità, che orientavano con la neve alta, spesso portata in strada dalla rifilìne, dialettale espressione indicante il mucchio di neve ammassata dal vento.

Sulla destra l’Altopiano parallelo al “Cinque Miglia” che raggiunge il Bosco di Sant’Antonio. Sullo skyline, in sequenza, Pizzalto, Porrara, Valle di Taranta e Monte Amaro. Che, come in un refrain ripete Nino, sherpa del Secine, appare come un tondeggiante e immenso cumulo di ghiaia scaricato da un mega autocarro, solo per accaparrarsi il trofeo della seconda altitudine dell’Appennino a 2.795 metri.
Il mio passo, lento per immutabile complessione, non regge, nonostante il mio più giovane atto di nascita, al procedere del duetto che mi precede. Ma la somma bontà del loro animo non mi lascia da solo, ma ad una distanza volutamente non umiliante. La borraccia arancione mi disseta. L’acqua è ancora decisamente fresca. Pane e marmellata di mirtilli mi ridanno le calorie disperse al vento della cresta.

Ci raggiunge in vetta una coppia varesina, in camper a Pescocostanzo, ultrasettantenne. Conosce in una settimana l’Abruzzo meglio di chi lo vive da sempre. Eremi, cime, piccoli borghi, fiumi, musei, centri visita, aree faunistiche, prodotti alimentari: a domanda, la coppia risponde. Come se incalzati in una stazione dei Carabinieri.
Il percorso di ritorno mi fa provare per la prima volta la sensazione di vedere con occhi e prospettive diversi gli stessi panorami dell’andata. Ed è una percezione difficile da rappresentare. Perché i profili degli orizzonti sono diversi ed il grado di foschia, dissimile all’andata, ti confonde non poco nella loro collocazione geografica. Il saliscendi, questa volta, si fa più impegnativo. Perché quando scendi, almeno a me succede, vuoi lasciarti alle spalle le quote e raggiungere la meta iniziale. E sulla cresta, in andata deserta, è una processione di gruppi, gruppetti, coppie, bambini e nonni. E poi si capirà il perché. Mi accompagno per un piccolo tratto ad un giovane papà pescarese, con zaino “vivente” sulle spalle colmo di un bimbo di dieci mesi ed una consorte con infante di quattro anni che non se la sente tanto di faticare. Anzi.

Raggiungo i miei compagni di viaggio alla stazione di monte della funivia. E’ un seggiovia 4 posti che ci chiama per il ritorno. Il fatto che sia in esercizio fa capire la manifestazione non autorizzata in cresta. L’agente di pedana non ci aiuta a dovere e il mio zaino capita fra la barra di chiusura della cabina e le mie cosce. Sarò per tutto il percorso con la coscia compressa e con le gambe pendenti e confesso, soprattutto quando l’impianto si è fermato per qualche minuto, che ho faticato non poco ad allontanare la tachicardia dal mio petto. Il viaggio sospeso dura poco meno di un quarto d’ora. La jeep bollente ci riporta, passando per Lama, a Taranta. Claudia, impari per devozione, mi rifocilla a dovere. Per oggi, trilogia. Non graduatorie, niente oro, argento e bronzo. Pari merito. La diversità del Secine, del Pizzalto e del Rotella è la loro grandezza.

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