Sant’Angelo, l’eremo del tesoro
La meta odierna è in tetralogia con altre tre raggiunte nei primi giorni di questo caldo gennaio del nuovo anno. Tutte snowless, tutte nel Parco Nazionale della Majella, tutte raggiungibili nell’arco di un paio d’ore o giù di lì, tutte al di sotto dei duemila metri, tutte godibili per gli scenari che con prepotenza ti sbattono in faccia. Con l’Eremo di Sant’Angelo (Lama dei Peligni), il Colle Bandiera (Fara San Martino), la Madonna delle Sorgenti (Pennapiedimonte), il Monte Tari (Civitella Messer Raimondo).

L’Abruzzo, per sua natura e per sua storia, è estremamente ricco di eremi. Ne sono stati censiti sessantotto, fra romitori ipogei, cenobi e chiese rupestri. Diffusi in cinquanta Comuni abruzzesi. Sono luoghi spesso non facilmente accessibili, pieni di quel misticismo gratificante e ricercato. Esprimono quella necessità, oggi diventata cool, di allontanarsi fisicamente dal mondo popolato e caotico e frequentare luoghi remoti e isolati, dedicandosi alla meditazione ed alla preghiera. L’appuntamento con Tonino, fedele e premuroso compagno di ventura, è a Lama, nei pressi del benzinaio.



Torniamo insieme in montagna, dopo mesi dalla campagna d’estate. L’obiettivo odierno è l’Eremo di Sant’Angelo. Raggiungibile da due fronti. Il primo avvia il proprio tragitto a ridosso dell’Area Faunistica del Camoscio, il secondo, a più bassa quota di inoltro, parte nei pressi dell’area cimiteriale di Lama. Si preferisce la seconda opzione. Leggermente più lunga, ma priva di tratti esposti, assistiti da corde e attrezzati con appoggi metallici. Qualche centinaio di metri carrabili e bitorzoluti e, poi, uno spiazzetto a ridosso di un imponente traliccio accoglie la mia Jeep per la sosta. Il rudere di un casale abbandonato da troppi anni ne ombreggia parzialmente la sagoma.
Percorriamo, sempre sulla carrareccia altri cinquecento metri. Un segnavia in legno indica la nostra meta, quota 1.260 metri, ad un’ora e trentacinque minuti. E da qui, il sentiero prima su foglie in decomposizione di cerri in discreta pendenza e poi su curve di livello terrazzate per rimboschimenti di conifere degli anni settanta, si fa sentire su gambe e fiato, rallentati, per me, dal parziale letargo invernale. Una capanna a Tholos, costruita su uno sperone di roccia, al cui interno trovano ordinata collocazione tavolo e panche, con una scorta di legna da ardere, ci dà un attimo di respiro e alimenta la mia curiosità. È un tipico esempio di costruzione pastorale della Majella. Edificata, solitamente, con il recupero del pietrame sottratto al terreno per favorirne la coltivazione e il pascolo. Nel nostro caso, il Tholos avrebbe svolto una funzione di riparo e di stoccaggio delle attrezzature per i lavoratori addetti alla messa a dimora di Pino Nero. Oggi, ospita irriducibili avventori del pic-nic “fuori porta” ed escursionisti al riparo per il brutto tempo. La pineta, entro cui il sentiero lungamente si inerpica, è realizzata su vere e proprie opere d’arte di terrazzamento. L’indole di capaci manipolatori della pietra, patrimonio di questa terra di Majella, emerge con tutta la sua palmare chiarezza.



Usciti dal bosco, il sentiero si fa più sdrucciolevole su sfasciami di pietra. In due tratti, per superare delle piccole rocce esposte, mi aiuto con le mani e soprattutto è Tonino ad offrirsi quale mia protesi vivente.
Da questo punto, la vernice bianco-rossa si esaurisce e, per non perdere quota, saliamo sulla destra seguendo più il solco tracciato dalla fauna locale, che un vero e proprio sentiero. Siamo di fronte a un punto morto. Dobbiamo, quindi, subito desistere, tornare indietro e raggiungere la base della grotta, abbassandoci di qualche metro dalla meta. Da qui, ci spostiamo sulla sinistra e, su indicazione di Tonino che era già salito per perlustrarne l’accesso, e per me in modo faticoso e allarmato, siamo di fronte all’entrata di Sant’Angelo. O meglio quel che resta del romitorio con chiesa rupestre.



Gli eremiti, come qui alla Grotta-Eremo di Sant’Angelo, inizialmente usavano ambienti naturali, come grotte o caverne della montagna, protetti e migliorati con semplici opere di contenimento e di riparo con pietre a secco. Oggi rimane ben poco della sua struttura originaria. Notizie della sua esistenza si trovano in scritti della fine del quattrocento. Ma, davvero singolare è la leggenda che l’accompagna. Protagonista un avaro notaio della fine del seicento, che per sfuggire alla peste, vi si rifugiò portando con sé monete d’oro e preziosi. E proprio il ritrovamento, un secolo addietro, di un suo stivale, gonfio di oro sonante, diede l’avvio alla distruzione dell’eremo per l’avida ricerca di un tesoro, mai trovato.
Scendiamo all’obelisco, che funge da sentinella dell’Eremo e nei suoi pressi è collocata una stele, installata con un progetto finanziato dalla Fondazione Telecom. Il totem descrive i dettagli storici del romitorio e la sua configurazione architettonica. Trovo, avviandomi sulla destra per raccogliere al meglio gli effetti inebrianti del panorama, i resti di una carcassa di camoscio parzialmente dilaniato dai lupi. Forse sono lì nei dintorni ad osservarci e a lamentarsi per aver loro interrotto la predazione.



Il cielo, non del tutto nitido, non aiuta a rendere il panorama godibile in tutta la sua profondità. Ma l’alternarsi di foschia e chiarore offre uno spettacolo autentico e multicolore, dove fa da primo piano il lago Sant’Angelo, dal color verde smeraldo, omonimo della meta odierna. I tanti paesi dell’Aventino e il lontano Adriatico completano come guardiani dell’orizzonte la vista. Ed è da immaginarsi a quale beatitudine, grazie anche a questo panorama, si accompagnassero i monaci che qui albergarono per secoli. Mela, noci e tè, frugali come l’ambiente impone, compongono il mio breve ristoro.



Imbuto prevedibile nei punti di roccia, attraversati con difficoltà all’andata, e, nel procedere in discesa, nei tratti più sdrucciolevoli per il pietrisco. Il percorso di ritorno, forse per il fardello appesantito dalla fatica sulle spalle, è, per me, sempre più lungo. Ma si riesce, in ogni modo, a rispettare i tempi del pranzo, alle ore quattordici.

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