
Da un tweet di @RosaPolacco “Tutti i linguaggi e nessuno. #ilsegnodellarosa di @makkox, il più bell’omaggio a Umberto Eco”
Incontrai Umberto Eco a Pisa nel settembre del 2004, il giorno dell’inaugurazione del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione: Elettronica, Informazione, Telecomunicazione dell’Università di Pisa. I colleghi Emilio Vitale e Bruno Neri mi chiesero di introdurlo. Venne a parlarci dell’importanza del filtro nell’informazione.
Era un intelligente discorso sul rapporto tra memoria, storia e comunicazione, fatto in un luogo sacro della tecnologia. La storia non può memorizzare tutto, deve necessariamente selezionare ciò che è significativo per la sua intelligenza e interpretazione. Umberto Eco segnalava l’eccesso di informazione offerto dai mass media che metteva a dura prova la nostra capacità di saper filtrare le notizie, capacità essenziale per dare senso agli eventi del mondo e alle vicende della propria vita.
Oggi il velo di ignoranza, ma anche lo smarrimento di identità, si produce non per mancanza di informazione, ma per un suo eccesso. Per nascondere qualcosa è meglio infilarla nel mare magnum delle notizie fino a sommergerla destituendola della sua importanza. E il problema riguarda anche la formazione. La perdita di memoria, in un mondo in cui non si riescono a selezionare i fatti e gli eventi e dove la storia non fa più parte del bagaglio culturale e psicologico di ciascuno di noi, può diventare un ottimo strumento per introdurre elementi totalitari in seno a una democrazia ormai esangue e impallidita.
Umberto Eco è stato tra i primi ad avvertire questa situazione e la sua recente battuta sul fatto che Facebook ha dato la possibilità di parola a milioni di imbecilli va letta in questa chiave. Umberto Eco inserì quel giorno ciò che ogni università degna di questo nome dovrebbe avere nel suo pacchetto di offerta formativa anche quando si tratta di di studi di ingegneria e di tecnologia: il senso critico. Egli sapeva bene che la tecnologia associata alla stupidità può fare più danni di una guerra.
Quasi tutti ovviamente hanno parlato del suo libro più famoso Il nome della rosa e della sua attività di scrittore, ma i suoi interessi spaziavano dall’estetica medievale alla narratologia, dalla teoria dell’interpretazione alla logica, dall’informatica alla comunicazione multimediale, dalla traduzione allo studio della lingua perfetta, dall’intelligenza artificiale alle scienze cognitive.
Quel giorno a Pisa, nel presentarlo, segnalai in particolare le sue raccolte di saggi e articoli, quali Diario minimo (1963), Il secondo diario minimo (1990), La bustina di minerva (2000). In questi libri Eco pone la sua attenzione ai discorsi giornalistici e politici per smascherare le ideologie, le illusioni, i fantasmi della quotidianità culturale e politica. Per Eco la vocazione politica dello studioso dei linguaggi era quest’opera di smascheramento a partire dagli eventi quotidiani.
Del resto anche nelle sue riflessioni scientifiche e filosofiche un punto di riferimento decisivo è il senso comune:
nel pormi in un atteggiamento interrogativo sul modo in cui percepiamo (ma anche nominiamo) gatti, topi o elefanti, scrive Eco in Kant e l’ornitorinco, mi è parso utile……rimettere in scena un personaggio sovente negletto, che è il senso comune. E per capire come funziona il senso comune non c’è niente di meglio che immaginare ‘storie’ in cui la gente si comporta secondo il senso comune. Si scopre così che la normalità è narrativamente sorprendente.
Storicamente, tra la filosofia e il senso comune il rapporto non è mai stato facile, ma Eco, un po’ come Vico e Gramsci prima di lui, cercava dentro il senso comune, cioè dentro i valori condivisi dalla maggior parte di un popolo, una nazione, un gruppo, quel lato ironico che lo facesse uscire dai pregiudizi entro cui, oggi più di prima, esso resta imprigionato. (da IL TIRRENO)

Prof. Alfonso Maurizio Iacono Dipartimento di Civiltà e Forme del sapere, Università di Pisa
Quando Umberto Eco scriveva per NOIDONNE

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