L’astuzia della storia sembra non distrarsi mai. Mentre i giornalisti italiani si commuovono per il sacrificio di un collega ignorato fino alla sua morte, come Antonio Megalizzi, e votano per i vertici del loro sindacato, la Fnsi, su liste i cui programmi non parlano del mondo che ci circonda, un semplice emendamento alla legge di bilancio cambia copernicanamente l’intera cultura dell’informazione.
Un gruppetto di quattro senatori leghisti ha infatti presentato un emendamento al bilancio di previsione per il prossimo anno, con cui si dispone che
a decorrere dal 1° gennaio del 2019, i soggetti che svolgono sia in ambito pubblico che privato l’attività di comunicatore professionale […] sono iscritti all’Inpgi (Istituto nazionale di previdenza giornalisti). […] sono altresì iscritti all’Inpgi […] coloro che svolgono attività di natura tecnico-informatica, inerente la produzione, il confezionamento, o la fruibilità di contenuti di carattere informativo diffusi sul web o su altro canale multimediale.
Per il giornalismo si tratta di un vero tsunami. Il fatto che stia avvenendo per iniziativa esterna alla categoria, con una decisione politico-amministrativa, rende l’evento ancora più traumatico e imprevedibile. È come se la rivoluzione francese fosse stata dichiarata da una circolare ministeriale, o che Lenin si fosse trovato nel palazzo d’Inverno per una riunione di condominio.
Non a caso la manovra previdenziale che ha come primo effetto un indiscutibile salvataggio di un ente, quale l’Inpgi, tecnicamente già oltre l’orlo del fallimento per l’insufficienza della sua base contributiva, avviene nel contesto di un’azione di governo volta a ridurre ruolo e spazio dell’informazione nel Paese, come le minacce e le determinazioni di numerosi ministri hanno dichiaratamente mostrato.
Cosa sta dunque accadendo? Perché quest’improvviso amore per le pensioni dei giornalisti da parte dei senatori leghisti? Prima di rispondere a queste domande dovremmo valutare il merito della questione.
L’ibridazione del mestiere tradizionale di giornalista con funzioni fino a oggi considerate collaterali e distinte, quali quello di esperto di relazioni pubbliche o comunicatore di enti statali o società private, pone una questione che comunque era sotto gli occhi di tutti: la convergenza di culture, competenze e funzioni fra i giornalisti di testata e gli organizzatori di sistemi di comunicazione diffusa.
Tutte queste figure, dall’inviato speciale di guerra all’urp di un ospedale, lavorano su piattaforme, con algoritmi e vocabolari definiti e calcolati dagli stessi service provider. Si tratta dunque di funzioni che convergono, così come al tempo del piombo in redazione figure inizialmente tipografiche, come il proto, divennero eminentemente giornalistiche nel passaggio dal caldo al freddo, nel primo tornante digitale dei primissimi anni Ottanta.
Ma il vero sconvolgimento avviene con il secondo passaggio previsto dal testo che abbiamo citato: gli informatici. Siamo a un rovesciamento di tre secoli di storia basata sulla separazione di scienza e lettere. La prospettiva di vedere esperti di sistemi informazionali accanto a esperti di sistemi redazionali ci propone quella definizione di informazione elaborata negli anni Trenta da uno dei padri dell’informatica quale è stato Claude Shannon, secondo la quale
informazione è spostare un contenuto nello spazio. A volte persino con un senso.
È lo spostamento, e non il senso, il vero valore aggiunto di un processo di condivisione della notizia che congiunge punto a punto di una rete paritaria. Siamo dunque a un vero salto cognitivo, che trasformerà ogni aspetto dell’informazione ovunque si realizzi: in una testata, in un ufficio, in un’impresa.
Non mancheranno convulsioni e resistenze. Già in queste ore si annunciano gilet gialli di informatici e comunicatori contro la dittatura dell’Inpgi, così come il silenzio della Fnsi fa intendere lo sbigottimento del sistema giornalistico.
Un segnale di attenzione arriva comunque dall’Ordine nazionale dei giornalisti che nell’ambito di un’ampia riflessione sulla propria autoriforma si sta ponendo il tema di acquisire competenze e cittadinanza nel mondo della ricerca e non solo sul consumo di un pensiero computazionale lavorando alla creazione di un luogo dove i giornalisti condividano e intervengano sui processi di elaborazione delle nuove strategie digitali.
Si preparano ricorsi, alcuni anche fondati, sulla base di elementari norme di giuslavorismo per le quali senza istituti contrattuali che normino attività professionali non si possono prefissare sbocchi previdenziali. Il buco nero di tutto questo percorso è infatti il contratto che dovrebbe disciplinare la convergenza fra giornalisti e le figure fino a ora esterne alla categoria. Comunicatori e informatici diventano contribuenti dell’Inpgi se assumono una fisionomia professionale attigua alle funzioni giornalistiche.
Questo ovviamente non potrà significare una semplice estensione dell’attuale struttura contrattuale Fnsi all’Anci o alle banche, dove lavorano appunto informatici o comunicatori, ma deve comportare un pluralismo di sistemi contrattuale, tutti nell’ambito dell’informazione, in cui accanto alle tradizionali attività, esercitate in testate con un direttore responsabile, siano previste altre tipologie di produzione di informazione in ambiti e con modalità diverse da quelle redazionali.
Tanto più se questa svolta implicherà due risultati: uno immediato, con l’ancoraggio dell’Inpgi a una base contributiva più estesa, solida e significativa, uno di più lungo orizzonte, che vede finalmente il comparto dell’informazione dotarsi di quelle competenze e abilità per permettere ai professionisti della notizia e delle piattaforme di esercitare funzioni progettuali e negoziali rispetto ai padroni degli algoritmi.
Qui troviamo la vera base materiale che rende ogni resistenza o contrapposizione a questo processo di convergenza puro luddismo: la necessità di ricomporre nel cuore del tessuto sociale saperi e funzioni nella gestione dei processi computazionali che ormai organizzano l’informazione.
Come spiega Paolo Zellini nel suo saggio La dittatura del calcolo:
gli algoritmi non hanno fatto che estendere le funzioni rituali di controllo e di ripartizione dei numeri in modi che possono essere inaccessibili, autoritari e categorici.
In questo gorgo dobbiamo, come giornalisti, entrare con un assetto professionale e di consapevolezze che la tradizionale esperienza di raccoglitori di notizie non ci permette più di affrontare adeguatamente.
Questa trasformazione non può nemmeno essere vista come una semplice bega di categoria. È destinata a mutare le relazioni istituzionali e le dinamiche di potere dell’intero apparato democratico. Nelle aziende, nella pubblica amministrazione, nelle testate la nascita di nuove figure professionali di nuovi linguaggi dell’informazione e di nuove ambizioni degli utenti sono destinate a travolgere quella che Time ha, giustamente, premiato in questo fine 2018 con la sua copertina dedicata ai giornalisti guardiani.
È stata la targa alla memoria di un mestiere che deve, proprio per confermare il suo protagonismo di contraltare del potere, rinnovare bagaglio professionale e prospettiva operativa, interferendo con quella realtà dei nuovi domini che oggi soffocano ogni reale libero arbitrio.

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