Luciana Castellina ha scritto un condivisibile articolo autocritico sullo Statuto dei lavoratori approvato nel 1970 per merito dei socialisti (Giacomo Brodolini fu il primo firmatario della legge) sul quale Pci, Psiup e i cinque deputati del Manifesto si astennero (il manifesto 20 maggio 2020). Quell’episodio, che Castellina periodizza, fa parte delle polemiche che a sinistra segnarono i rapporti tra Pci e Psi dopo il varo dei primi governi di centrosinistra nel 1963 di cui furono artefici Amintore Fanfani, Aldo Moro e Pietro Nenni. Palmiro Togliatti, fino alla sua morte nel 1964, scelse la linea del conflitto verso Nenni e chi aveva diviso la sinistra accettando le lusinghe del governo. Quella resta una stagione da ristudiare per valutarne valori e limiti. Tuttavia il vulnus storico e politico dell’inconciliabilità tra socialisti e comunisti continua irrisolto fino ai nostri giorni.
Bettino Craxi fu eletto segretario del Psi il 16 luglio 1976 e presidente del Consiglio il 4 agosto 1983, carica che ricoprì fino al 9 aprile 1987. I suoi rapporti con Enrico Berlinguer furono tormentati e il più delle volte di esplicita polemica (sull’eventuale trattativa con i brigatisti rossi che rapirono Aldo Moro, sull’abolizione della scala mobile, sull’installazione degli euromissili, sull’unità e i destini della sinistra italiana). Competizione e ostilità prevalsero rispetto agli anni in cui il Psi era guidato da Francesco De Martino e puntava all’unita almeno negli enti locali. Quando all’inizio degli anni ottanta, in modo timido e poi sempre più convinto, il Pci di Berlinguer diede il via ai primi confronti con l’Spd di Willy Brandt, con i partiti socialisti e socialdemocratici di Olof Palme, François Mitterrand e Bruno Kreisky, riaffiorò il problema irrisolto del rapporto con Craxi, Quest’ultimo cercò di ostacolare in tutti i modi quei dialoghi forte del fatto che il Psi faceva parte della famiglia dell’Internazionale socialista.

Il Pci di Berlinguer, dopo il fallimento dell’eurocomunismo degli anni settanta con francesi e spagnoli (l’idea di un comunismo europeo autonomo da Mosca), aveva avviato un nuovo percorso politico pur ponendo dei paletti:
Noi, con altri partiti dell’Occidente europeo, lavoriamo da tempo per adeguare le interpretazioni della dottrina marxista e la nostra azione politica alle realtà storiche e politiche dei singoli paesi e di tutto l’Occidente, liberandoci da ogni dogmatismo, offrendo un contributo originale al pensiero marxista, aprendo un nuovo dibattito con i partiti socialisti. Ma l’autonomia di azione politica e di ricerca teorica, la nostra indipendenza organizzativa e la fine di ogni partito-guida non significano né che noi vogliamo diventare socialdemocratici, né che cessiamo di essere internazionalisti (anche se il Pci non appartiene ad alcuna Internazionale)” (intervista di Berlinguer a Carlo Casalegno, “La Stampa”, 3 febbraio 1976).
Per Berlinguer, il limite dei socialdemocratici era che non volevano cambiare il sistema ma riformarlo.
Il Pci era molto stimato nei paesi del nord Europa. Sia per il forte radicamento di partito di massa e nazionale, sia per la sua originale elaborazione politica da Antonio Gramsci in poi. A colpire i gruppi dirigenti del socialismo europeo era inoltre il fatto che il pendolo dei rapporti di forza tra comunisti e socialisti – unico caso nel vecchio continente – oscillasse di gran lunga a favore dei primi fin dai tempi dell’avvio dell’Italia repubblicana e del Fronte popolare del 1948. Faceva pure scalpore tra i socialisti europei la notizia che della sigla “socialdemocratica” si fosse appropriato il partito scissionista di Giuseppe Saragat che nella sua traiettoria si sarebbe caratterizzato per posizioni ultramoderate e acriticamente filoamericane, oltre che decisamente contrarie a ogni rapporto con i comunisti.

Bisognerà attendere la famosa dichiarazione di Berlinguer del 15 dicembre 1981 (Tribuna politica, Raiuno) sull’esaurimento della “spinta propulsiva” della Rivoluzione d’ottobre, che segue la repressione del sindacato Solidarnosc in Polonia, per avere un giudizio politico più netto sullo scenario internazionale:
Quello che mi pare si possa dire in generale è che ciò che è avvenuto in Polonia ci induce a considerare che effettivamente la capacità propulsiva di rinnovamento della società, o almeno di alcune delle società che si sono create nell’Est europeo, è venuta esaurendosi. Parlo di una spinta propulsiva che si è manifestata per lunghi periodi, che ha la sua data d’inizio nella Rivoluzione d’ottobre, il più grande evento rivoluzionario della nostra epoca, e che poi ha dato luogo a una serie di eventi e di lotte per l’emancipazione nonché a una serie di conquiste. Oggi siamo giunti a un punto in cui quella fase si chiude… È necessario che avanzi un nuovo socialismo dell’Ovest, nell’Europa occidentale, il quale sia inscindibilmente legato e fondato sui principi di libertà e di democrazia. Si tratta, in sostanza, della politica, della strategia, dell’ispirazione fondamentale del nostro partito, che ricevono da questi fatti una nuova conferma.
In quella stessa occasione, Berlinguer riaffermò una bussola politica che andrà in frantumi nel 1989:
Noi consideriamo l’esperienza storica del movimento socialista, nel suo complesso, nelle sue due fasi fondamentali: quella socialdemocratica e quella dei paesi dove il socialismo è stato avviato sotto la direzione dei partiti comunisti nell’Est europeo. Ognuna di queste esperienze ha dato i suoi frutti nell’avanzata del movimento operaio, ma entrambe vanno superate criticamente con nuove formule, con nuove soluzioni, con quella, cioè, che noi chiamiamo la “terza via” appunto rispetto alle vie tradizionali della socialdemocrazia e rispetto ai modelli dell’Est europeo. Si tratta di una ricerca nella quale vediamo impegnati non solo alcuni partiti comunisti, ma anche alcune delle socialdemocrazie, o almeno, alcuni settori della socialdemocrazia, dove questo stesso tema viene discusso e approfondito.


La socialdemocrazia andrà anch’essa in crisi con il crollo del Muro di Berlino, però meno della politica dei partiti comunisti europei. La “terza via” auspicata da Berlinguer prenderà le mosse solo nella versione moderata di Tony Blair e nella commistione tra pensiero liberale e pensiero socialista che non criticherà la nuova dimensione dello sviluppo capitalistico nell’era della globalizzazione e della finanza.
Il veto di Craxi a un’adesione dell’ex Pci all’Internazionale socialista cadde su forte pressione dei partiti socialisti europei e si trasformò in assenso solo dopo che Achille Occhetto decretò l’agonia del Pci con un discorso alla Bolognina (12 novembre 1989) e la nascita del Pds nel 1991. La caduta dell’ostracismo da parte di Craxi celava la speranza di un assorbimento del nuovo partito nel progetto di “unità socialista”, che il Pds non poteva accettare sia per non annullare la sua storia, sia per gli accordi di governo che Craxi continuava a stringere con la Dc di Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani (il “Caf”). Una parte del gruppo dirigente pidiessino (quello che aveva contrastato gli ultimi anni della politica di Berlinguer e che si suole denominare con l’aggettivo “miglioristi”) valutava però quell’approdo come tutto sommato auspicabile. Intanto, anche Pietro Ingrao aveva avviato una ricerca sul socialismo europeo nel Centro per la riforma dello Stato con gli Annali di politica europea pubblicati dal 1988 al 1993. Grazie al contributo di alcuni studiosi come Mario Telò, Antonio Missiroli, Bruno Amoroso, Sergio Lugaresi, Maria Luisa Boccia, Pietro Barcellona, Mimmo Carrieri, Fabio Giovannini il Centro per la riforma dello Stato diventò un laboratorio dove si studiava la storia e l’attualità dei partiti della sinistra socialista europea.

Proprio della possibile adesione del Pds all’Internazionale socialista, Craxi discusse il 21 marzo 1991 in un incontro con Giorgio Napolitano e Piero Fassino. A proposito dei veti craxiani per un ingresso del Pds nell’Internazionale socialista, Occhetto annotò:
Non c’è dubbio che Craxi osteggiò il nostro ingresso. Temeva che nascesse un partito collegato all’Internazionale in grado di realizzare la politica socialista e di alternativa abbandonata dal Psi che lui aveva portato sul terreno dell’azione corsara, del ricatto a sinistra e al centro… Io mi opposi a quel disegno e, grazie anche alla diplomazia, segreta e non, di Piero Fassino su tutto lo scacchiere internazionale, guadagnammo la maggioranza dei consensi nell’Internazionale. Fino a isolare l’opposizione di Craxi “Il sentimento e la ragione”, Rizzoli, 1994).
Fu il XIX congresso del Pci che si svolse a Bologna nel marzo 1990 a dare il mandato ufficiale di discutere con gli organismi dell’Internazionale socialista “per realizzare al più presto le condizioni di una nostra adesione”. L’obiettivo dell’ingresso nell’Internazionale socialista era già stato annunciato da Occhetto in una intervista a Eugenio Scalfari: “L’Internazionale socialista è anch’essa a un mutamento epocale. Non si tratta di un club di distinti signori alla cui porta si vada a bussare con il cappello in mano. Nel corso del tempo, sotto la pressione delle circostanze, è stata rifondata due o tre volte; e non tutti i suoi membri hanno identiche aspirazioni e identici comportamenti. Noi ci sentiamo molti affini alla linea di Brandt, dei socialisti francesi, di Kinnock e a quella che fu la linea di Olof Palme. Fino a qualche tempo fa era molto eurocentrica, l’Internazionale” (la Repubblica, 17 dicembre 1989).
Occhetto puntò in quel periodo a un rinnovamento complessivo della sinistra europea:
Non si tratta di delineare un percorso di fuoriuscita da una tradizione, quella comunista, per abbracciarne un’altra, quella socialdemocratica. In questione sono entrambe le tradizioni, e tutte le forze che a esse si ricollegano sono chiamate a un rinnovamento di se stesse perché nasca una nuova eurosinistra, protagonista della costruzione della casa comune europea (“Un indimenticabile ’89”, Feltrinelli, 1990).
In effetti, i partiti socialisti non restarono estranei agli scossoni del 1989: politiche differenti guidate da personaggi tra loro diversi come Lionel Jospin, Tony Blair, Felipe González, Mario Soares, Gerard Schröder e infine José Luis Rodríguez Zapatero indicavano l’irrisolto travaglio dei socialisti europei.

La furia di Tangentopoli, la scomparsa dei partiti di massa (Dc, Pci, Psi), l’irrompere del populismo di Silvio Berlusconi, l’apertura di una crisi istituzionale senza precedenti (la transizione infinita verso una “seconda Repubblica”), le modalità con cui è avvenuta la “svolta” impressa da Occhetto (il tormentato e lungo dibattito interno, il prezzo della scissione di Rifondazione comunista, la vaghezza di riferimenti culturali all’insegna del nuovismo e di una “carovana” che si metteva in marcia senza radici se non nel presente, la competizione con il Psi di Craxi), non diedero solidità alla prospettiva dell’approdo del Pds nell’Internazionale socialista e nel Partito del socialismo europeo. Spettò a Fassino, segretario dal 2001, portare a compimento l’ulteriore trasformazione dei Ds che avevano sostituito il Pds in Partito democratico. Fassino non risolse la questione del rapporto tra il neo Pd e l’area del socialismo europeo.
Il problema lo risolse paradossalmente Matteo Renzi diventato segretario del Pd nel 2013, riuscendo a portare quel partito all’appuntamento con l’Internazionale socialista e il Partito del socialismo europeo: lì dove avevano fallito Occhetto, D’Alema, Veltroni, Fassino. “Il mio Pd sarà nell’Internazionale socialista”, annunciò infatti Renzi a sorpresa in una intervista a La7 poco dopo essere stato eletto segretario del Pd. Fu lui a vincere le resistenze degli ex democristiani, degli ex Margherita e degli ex comunisti. Nella politica del Pd renziano quell’adesione cambiò poco o nulla nella collocazione del partito e nei suoi rapporti.
Con quella scelta, si conclude una parabola italiana. L’Italia, grazie all’esperienza dell’Ulivo, aveva preceduto fenomeni internazionali di rimescolamento delle identità politiche e culturali ma non è mai riuscita a liberarsi dalle anomalie del passato. Il risultato è che nel caso italiano non c’è attualmente un partito socialista, mentre c’è una residuale Rifondazione comunista neppure rappresentata in Parlamento. E non si sono forze dalla tradizione innovativa della consistenza dei Verdi francesi e tedeschi, o di Podemos in Spagna e della Linke in Germania,
Il tema delle radici culturali e dei riferimenti ideali di una forza di sinistra non è questione di poco conto. In Italia resta irrisolta anche nei tentativi innovativi a “destra” (Italia viva) e a “sinistra” (Sinistra italiana, Liberi e uguali, Articolo uno) del campo largo del centrosinistra e della sinistra. Ecco così che l’antica querelle tra socialisti e comunisti torna di tanto in tanto a far discutere.

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