#parmigiAmo, la violenza in tavola ma non solo

RAFFAELLA CASCIOLI
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Nell’anno dell’Expo 2015 al via una campagna di tutela del prodotto più imitato al mondo: accanto all’americano Parmesan, figurano il cirillico parmigiano iniziato a produrre in Russia per effetto dell’embargo, ma anche il parmesao brasiliano e il parmesan perfect italiano made in Australia

parmesan

Con l’avvio del quantitative easing il 9 marzo e, forse, già solo con l’annuncio dell’ultima misura della Bce di Mario Draghi, la moneta unica ha conosciuto un deprezzamento importante sui mercati valutari al punto che l’acquisto massiccio di titoli di stato da pare della banca centrale, prima ancora di riuscire a far aumentare il livello di inflazione anche importata in Eurolandia, ha centrato l’obiettivo di rilanciare le esportazioni dei principali paesi manifatturieri del Vecchio Continente. E così dopo la Germania anche l’Italia, che basa molto del suo export oltre che sulla meccanica anche sull’Italian Style, ha registrato un incremento delle vendite all’estero.

Tuttavia, quando si parla di vendite di prodotti italiani all’estero (e non solo) non si può dimenticare che la peggiore concorrenza al made in Italy, in particolare all’agroalimentare nostrano, deriva dalle imitazioni e falsificazioni prodotte in tutto il mondo. Si tratta certamente in primo luogo di una violenza nei confronti dei consumatori che acquistano quei prodotti nell’illusione di mangiare italiano, ma anche di una violenza nei confronti delle nostre aziende, dei nostri occupati e delle nostre stesse tradizioni. Infatti, ad esempio, le origini del Parmigiano Reggiano risalgono al Medioevo, intorno ai monasteri benedettini e cistercensi di Parma e Reggio Emilia nel XII, e la forma di Grana assurge agli onori delle cronache nel Decamerone di Boccaccio. Ora quelle tradizioni vengono cancellate con un colpo di spugna in qualche ranch australiano o americano.

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Tra i prodotti più imitati al mondo, e non da oggi, figura infatti il parmigiano reggiano che una recente ricerca della Coldiretti ha dimostrato essere il prodotto più falsificato ma anche il più amato al punto che, per la prima volta, nel 2014 la produzione di falsi Parmigiano Reggiano e Grana Padano nel mondo ha sorpassato quella degli originali provocando addirittura il calo del valore delle esportazioni. Un dato che, se riferito allo scorso anno, risulta in controtendenza rispetto all’export agroalimentare italiano: basti pensare che nel 2014 la produzione di falsi Parmigiano Reggiano e Grana ha superato i 300 milioni di chili a fronte di una produzione italiana tutelata dall’Ue che vale per volume d’affari 3 miliardi al consumo nazionale e 1 miliardo all’export. A rischio dunque c’è, secondo la denuncia della Coldiretti, un sistema produttivo dal quale si ottengono 3,2 milioni di forme all’anno con 363 piccoli caseifici artigianali della zona tipica alimentati dal latte prodotto nelle appena 3348 stalle rimaste nel 2014 dove si allevano 245 mila vacche.

Per quel che riguarda le imitazioni, oltre la metà avvengono negli Stati Uniti leader delle falsificazioni con produzioni riconosciute anche in Wisconsin, California e New York: il Parmesan è l’imitazione più diffusa con una produzione che solo negli Usa sfiora i 120 milioni di chili all’anno. Tuttavia non c’è confine alle imitazioni che si trovano anche in Europa, dove similgrana di bassa qualità proveniente dalla Repubblica Ceca, dall’Ungheria, dalla Polonia e dalla Lettonia inonda letteralmente il mercato comunitario. Senza contare che, accanto all’americano Parmesan, figurano il cirillico parmigiano iniziato a produrre in Russia per effetto dell’embargo, ma anche il parmesao brasiliano e il parmesan perfect italiano made in Australia. A questo proposito proprio la Coldiretti, che ha lanciato l’ashstag #parmigiAmo, ha chiesto in vista anche di Expo 2015 di bloccare l’utilizzo nelle ricette di chiara matrice italiana proposte dalla trasmissione Masterchef nei diversi continenti del Parmesan invece che del Parmigiano Reggiano o del Grana Padano.

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Insomma se la concorrenza sleale mette alle strette le nostre produzioni sottoposte a rigidi protocolli disciplinari (come una stagionatura che varia da 12 a 24 mesi, un peso medio delle forme di 40 chili, l’impiego di 14 litri di latte per produrre un chilo di formaggio e il divieto nell’uso di insilati, addettivi e conservanti nell’alimentazione del bestiame), inganna anche il consumatore sulla reale origine del prodotto che arriva sulla sua tavola. Fin qui si potrebbe dire che la violenza maggiore è subita da ignari consumatori stranieri convinti di comprare prodotti italiani connotati da incarti e imballaggi rigorosamente tricolori, mettendo al riparo invece i consumatori italiani. In realtà, non è così e il fenomeno non è per nulla circoscritto solo al parmigiano. Infatti oltre al falso straniero, occorre fare attenzione anche all’Italian sounding di matrice nostrana, che importa merci dai paesi più svariati (che si tratti di formaggi, di suini, di cuoio), li trasforma rivendendo i prodotti così ottenuti come italiani visto che non c’è l’obbligo per molti di indicare la provenienza in etichetta ed alimentando così un dumping occulto che danneggia e incrina il vero made in Italy. Tanto più perché oggi occorre distinguere tra l’origine di un prodotto – che indica il luogo in cui la materia prima è nata o è stata allevata, pescata, coltivata – e la provenienza con cui invece si individua l’ultimo stabilimento nel quale il prodotto è stato manipolato e/o stoccato

Occorre poi distinguere l’alimentare dagli altri prodotti di consumo, perché se nel primo caso ci sono alcune tutele come i marchi Dop, Doc, Igp, sui prodotti di consumo oggi esiste solo un sistema di certificazione 100% made in Italy in base al quale produttori distinguono le loro creazioni da quelle di dubbia provenienza italiana dando certezza al consumatore finale sull’origine e sulla qualità dei prodotti, ma in realtà si tratta di un marchio d’origine e la vera tutela potrà essere applicata solo laddove l’Unione europea imporrà definitivamente l’obbligo di apporre l’indicazione dell’origine geografica della merce sui prodotti destinati al mercato unico.

Purtroppo questo è stato un obiettivo mancato del semestre di presidenza italiana dell’Ue dello scorso anno con la battaglia persa del “made in”, ovvero dell’etichetta di origine obbligatoria che l’Ue – a differenza di tutte le principali aree commerciali mondiali come Usa e Cina – non ha. Una battaglia principalmente italiana che sembrava essere stata messa su un giusto binario visto che la misura era già stata approvata ad aprile dello scorso anno dal Parlamento europeo ma non ha superato il via libera del Consiglio Europeo dove ha incontrato lo stop di un blocco di paesi guidati dalla Germania della Merkel. Se infatti per la Germania l’etichetta sull’origine del prodotto non apporta vantaggi ma anzi svantaggi visto che la manifattura tedesca è basata soprattutto sull’assemblaggio di semilavorati dei paesi emergenti, per l’Italia si tratta di un riconoscimento di creatività e rappresenta un valore aggiunto in termini di competitività.

Per questo la misura era principalmente attesa principalmente dal manifatturiero italiano a cominciare dal legno-arredo, dalla moda, dai calzaturieri. Uno stop che rischia di pesare anche sulla ripresa italiana e che il settore moda è riuscito in parte a superare con la firma di un memorandum contro la contraffazione tra il Sistema moda Italia e Indicam e le associazioni della moda francesi. Un accordo importante visto che il 90% dei marchi del lusso sono italo-francesi sono i più colpiti dalla contraffazione. Se adeguatamente protetto il settore tessile-moda, che già mostra segnali di ripresa, potrebbe letteralmente volare. Si attende infatti per il primo semestre 2015 un aumento dell’export del 3,3% dopo che già lo scorso anno gran parte dei prodotti moda donna sono volati in Cina e Hong Kong ma anche nel Regno Unito, negli Usa e nella Corea del Sud.

Se però la contraffazione mette a dura prova l’export made in Italy e c’è preoccupazione soprattutto alla luce di quelle che sono le trattative in atto per raggiungere un accordo di libero scambio tra Ue e Usa (Ttip, Transatlantic Trade and Investment Partnership) dove sarebbe necessario riuscire a tutelare le produzioni agroalimentari italiane dalle imitazioni internazionali, le Confederazioni agricole guardano con rinnovato interesse all’annunciato piano del governo per l’export visto che prevede una serie di azioni di contrasto all’Italian sounding. A fine febbraio si è infatti sbloccato il piano straordinario per il made in Italy che può contare su 260 milioni di euro per il 2015 per promuovere le imprese italiane all’estero e attrarre investimenti esteri con alcuni obiettivi ambiziosi da perseguire: 50 miliardi di export aggiuntivi al 2016, 22mila nuove imprese esportatrici, venti miliardi di dollari di flussi di investimenti addizionali in ingresso in Italia.

In vista dell’Expo ormai imminente a Milano, dove sono attese almeno 20 milioni di presenze per i circa 50mila eventi in programma nei padiglioni, non solo l’agroalimentare italiano guarda con attenzione alla necessità di una maggiore tutela dei prodotti nostrani, ma l’intero sistema manifatturiero chiede una maggiore trasparenza sulla catena di fornitura di un prodotto che rassicuri altresì anche il consumatore finale.

#parmigiAmo, la violenza in tavola ma non solo ultima modifica: 2015-03-09T18:34:58+01:00 da RAFFAELLA CASCIOLI
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