Paura e desiderio della scrittura. Ci sono romanzi che uno scrittore vorrebbe non scrivere, avvertendone però la necessità. Si destinano dunque, quei romanzi, a tornare continuamente nel tempo: fissazioni, tentazioni, forse persino ossessioni.
Firma di punta dell’odierna narrativa spagnola, scrittore ed anche opinionista di vaglia (El País), Xavier Cercas ne sa qualcosa e ammette di buon grado i suoi tormenti letterari, giacché è esattamente raccontando le modalità di quelle difficili e dilatate gestazioni che prendono forma e vita i suoi romanzi. Un paio di sicuro: “L’impostore” (“El impostor”, 2014) e ora “Il sovrano delle ombre” (“El monarca de las sombras”, 2017), qui da noi in libreria per Ugo Guanda Editore, ottimamente tradotti da Bruno Arpaia.
Chi abbia cominciato a conoscere e ad apprezzare Cercas sin dai tempi de “I soldati di Salamina” (“Soldados de Salamina”, 2001) e poi di “Anatomia di un istante” (“Anatomia de un istante”, 2009), successi editoriali internazionali per inciso, ricorderà bene come le sue narrazioni non sfuggano mai alla soggettiva, sempre evitando di cercare rifugio nell’impersonale.
Che si tratti di rievocare la figura di Rafael Sánchez Mazas, fondatore e ideologo della Falange spagnola, miracolosamente riuscito a scampare alla fucilazione grazie alla pietas di un miliziano, o di ricostruire mille volte il folle tentativo del colpo di stato del 23 febbraio 1981, quando il colonnello Tejero entrò armi in pugno nel parlamento di Madrid scontrandosi con la fiera opposizione dei pochi “eroi” rimasti al loro posto (uomini per il resto diversissimi fra loro: il primo ministro Adolfo Suárez, il generale Gutiérrez Mellado, il segretario del Partito comunista Santiago Carrillo), i romanzi “storici” di Cercas sono una detection alla ricerca delle molte verità che si celano dietro all’apparente evidenza di un accadimento.
Ed è per l’appunto lo scrittore a condurre l’inchiesta, in prima persona, dando debitamente conto dei dubbi e dei sospetti, delle congetture e delle illazioni, delle intuizioni e delle deduzioni che egli stesso va maturando man mano che la messa a fuoco si fa sempre più nitida, specie sul versante assai opinabile e controverso delle motivazioni ed emozioni personali, quelle più difficili da documentare e però fondamentali per acclarare dinamiche e modalità degli accadimenti, almeno sul piano letterario.
È qui che verità e finzione – finzione della verità e verità della finzione – possono provocare micidiali cortocircuiti, chiamando in causa codici etici spesso di non facile declinazione.
Prendiamo “L’impostore”.
L’obiettivo è puntato su Enric Marco, anziano militante antifranchista, già segretario del sindacato anarchico CNT e in seguito presidente dell’associazione spagnola dei sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti, nella sua qualità, per l’appunto, di sopravvissuto.
Nel 2005 si scopre che buona parte di quella narrazione era fasulla, inventata di sana pianta o facendo ricorso a labili intrecci del tutto marginali.
Dieci anni dopo, sopito lo scandalo e archiviate le polemiche, Cercas torna sul personaggio per un bisogno di verità ben più profondo, quantunque forse doloroso.
Perché, in fondo, come ricordava Claudio Magris, Marco è un bugiardo che dice la verità (sui lager nazisti, nella fattispecie).
E dunque, smontando quelle bugie non c’è forse il rischio di smontare la verità? Il solito maledetto ricatto del cui prodest…
La guerra civile spagnola, i quarant’anni di dittatura franchista, l’impossibilità di una memoria davvero condivisa e comunque la necessità di far luce sui grovigli di un passato che non passa mai sono i nodi permanenti del lavoro letterario di Cercas.
E dei suoi rovelli, che tornano puntualmente nel “Sovrano delle ombre”, citazione omerica tutt’altro che casuale, come si vedrà, dove i fantasmi appartengono al passato dell’autore, alla sua famiglia di fede inguaribilmente fascista, lontana quanto si vuole dal suo essere di sinistra ma pur sempre là, in quell’album imbarazzante dove troneggia l’immagine in divisa dell’eroe di casa, un prozio, Manuel Mena, morto ammazzato sull’Ebro nel 1938, durante la più sanguinosa delle battaglie della guerra civile.
Combattuta, nel caso suo, dalla parte sbagliata.
Nativo di Ibahernando, un paesino dell’Estremadura intorno a Trujillo, la città resa ricca dall’oro dei conquistadores senza scrupoli di ritorno dalle Americhe, Pizarro in testa, Cercas (che è del 1961) emigra con la famiglia a Barcellona quando ha quattro anni.
Ricorda poco o nulla del luogo avito, che se aveva migliaia di abitanti prima della guerra ora ne conta poche centinaia, terra di emigrazione, la regione più povera della Spagna, non a caso scelta da Buñuel in tempi non sospetti (1932) per girare il crudo “Las hurdes – Tierra sin pan”, un documentario sull’arretratezza della vita contadina estremegna inizialmente ostico persino ai repubblicani.
Lo scrittore cresce in Catalogna, decisamente un altro mondo, ma nel perenne ricordo – per via materna – di quel giovane immolatosi per Franco, pur con quella faccia adolescenziale – ora scopre – decisamente distante dagli stereotipi della gioventù invasata del patriottico “Cara al sol” (“Faccia al sole”), inno falangista.
Perché quell’adesione e perché pressoché tutta la famiglia, certo non ricca e possidente, dalla parte sbagliata?
Il tema intriga e turba lo scrittore, che indugia per anni, fra propositi di rinuncia e improvvisi richiami di coscienza, mascherata magari da curiosità, paura di scoprire malefatte troppo gravi da sopportare e desiderio di una qualche riabilitazione, se non altro per mettersi a posto con la propria coscienza.
Fondamentale un viaggio a Ibahernando, in compagnia dell’amico David Trueba (già regista nel 2002 di “Soldados de Salamina”, versione cinematografica) che gli apre gli occhi sul concetto di “responsabilità” elaborato da Hannah Arendt, per cui nessuno – per quanto innocente – può esimersi dalle responsabilità della Storia.
Così come nessuno scrittore può esimersi dalla responsabilità di scrivere le storie che gli si fissano in testa.
Nulla di eccezionale o di particolarmente eclatante, in realtà, ma la ricostruzione – fra testimonianze, documenti, spesso ricordi di ricordi e minuziose verifiche degli eventi bellici – di una biografia per forza di cose interrotta e incompiuta, inscritta nella storia di una famiglia e di una terra ingannate dalla politica, con i meno poveri – piccoli proprietari in genere – schierati contro i più poveri.
E dunque tutti in fondo servi, prima durante e dopo.
Forse, in extremis, persino Manuel Mena doveva essersi fatto un’idea di tanta assurdità. O così almeno piace credere per un attimo allo scrittore, smessi i panni dell’intellettuale (si veda in proposito la bella intervista di Marco Belpoliti a Cercas “La libertà deve essere nell’uguaglianza/Scrittore o intellettuale?”, in doppiozero.com).
Gli eroi son tutti giovani e belli, cantava Guccini, e muoiono presto per entrare nel mito. Ma chissà se Achille, in cuor suo, avrebbe preferito il se stesso dell’”Iliade”, dove campeggia quale eroe di un esercito pur sempre d’occupazione, prepotente e imperialista, o il se stesso dell’”Odissea”:
Non abbellirmi, illustre Odisseo, la morte!
Vorrei da bracciante servire un altro uomo,
un uomo senza podere che non ha molta roba;
piuttosto che dominare tra tutti i morti defunti.
(Traduzione di G.A. Privitera, citato nel libro)
Il romanzo “necessario” termina sulle note di un umanesimo che riconcilia l’autore con se stesso e forse con la storia della sua stessa famiglia.
Il giudizio storico resta altra cosa, un monito severo che fa da bussola all’intellettuale; il “poteva andare altrimenti”, che non modifica affatto l’assunto, gratifica lo scrittore che dopo tanto penare può licenziare la sua creatura, consentendo al lettore di rendersi partecipe di quel suo peregrinare fra le rovine di una Storia ancora recente.

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