Immagini dei nostri ieri. I settant’anni di Magnum

Si è aperta in questi giorni all'Ara Pacis Augustae di Roma, una mostra dedicata alla celebre agenzia di fotografi fondata a Parigi
MARIO GAZZERI
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L‘interesse crescente che le sempre più numerose mostre di fotografie stanno suscitando in questi anni nel pubblico, e non solo a Roma o a Milano, è la trasparente conferma che, al di là di una implicita valenza estetica, c’è anche e soprattutto un forte, comune desiderio di visitare idealmente luoghi, tempi e momenti mai vissuti. Le rassegne delle foto di Robert Capa, Sebastiao Salgado, Henri Cartier-Bresson, ma anche di Gisèle Freund, Vivien Maier, Diane Arbus ed altri, sono ormai una costante nel calendario delle stagioni artistiche delle città italiane dove ora si punta, però, su retrospettive più raffinate, più selettive.

Dopo la mostra sui Cento anni della Leica (al Vittoriano di Roma), un successo clamoroso ma forse prevedibile, si è aperta in questi giorni all’Ara Pacis Augustae di Roma, il “Magnum Manifesto”, (fino al 3 giugno 2018) una mostra per i settant’anni della celebre agenzia (anzi cooperativa) di fotografi fondata a Parigi. Parliamo dunque del 1947 (da noi la mostra, inaugurata l’anno scorso, è arrivata ora, dopo numerose tappe in tutto il mondo) cioè di un tempo in cui finalmente la pace era stata ristabilita da due anni.

Bruno Barbey: Un gruppo di studenti forma una catena per passare i ciottoli di una barricata a rue Gay-Lussac. Parigi, 10 maggio 1968. ©Bruno Barbey /Magnum Photos/Contrasto, http://www.arapacis.it/

Era il mondo dei sopravvissuti, di chi voleva dimenticare così come oggi vogliamo ricordare. Immagini di Berlino e delle lunghe, disciplinate file per il pane distribuito grazie al ponte aereo organizzato dagli americani. Immagini che sono uno specchio della storia, istantanee il cui impatto emotivo è sicuramente più forte della lettura di una corrispondenza di un inviato. Come nella bellissima immagine scattata a Teheran in cui due iraniane velate di nero, si incrociano camminando sotto lo sguardo severamente benevolo dell’ayatollah Khomeini, ritratto in un mega-manifesto.

Pochi i sorrisi, nei vietnamiti in guerra coi francesi (Robert Capa morirà proprio vicino a Dien Bien Phu nel 1954 saltando su una mina antiuomo), negli zingari non più destinati ai gas di Mauthausen o Auschwitz-Birkenau, ma sempre nomadi in un mondo ostile, dei neri (americani e sudafricani) vittime come prima della guerra nonostante l’impressionante contributo di sangue versato tra il ’41 e il ’45.

Elliott Erwitt: New York, 1953 © Elliott Erwitt/Magnum Photos/Contrasto, http://www.arapacis.it

Solo due sorrisi, restano nella memoria, quello di due mamme americane, una accanto al suo bimbo steso sul letto, l’altra in attesa di un figlio, con un gattino sistemato sulle gambe che la fissa quasi con uno sguardo interrogativo. Foto già proposte, anche a Roma, decine di anni fa nel quadro della celebre mostra itinerante denominata “The Family of Man”.

Quando si entra negli spazi espositivi di una mostra come questa, entriamo in un altro mondo, passato, per noi mai esistito, si va alla scoperta dei nostri “ieri” dimenticati, si ha compassione per i vinti, con la gente affamata e alcuni soldati uccisi ancora riversi sull’asfalto. Se un quadro, un libro, ci emozionano lasciandoci intatto uno spazio privato e personale su cui poter “aggiustare” le immagini che ci trasmettono, ecco, con le fotografie non si può.

I fotografi le cui opere sono state scelte per la mostra, hanno letto e interpretato la realtà in cui ciascuno di essi si trovava e, raggruppate queste immagini in una sola rassegna, siamo noi a esser chiamati a trovare il fil rouge che unisce tutte le tessere di questo straordinario mosaico. Sono molti i reportage che, magari, non ci aspetteremmo… da quello di Paul Fusco intitolato “Funeral train”, che ci narra il dolente percorso e l’omaggio dei tanti al convoglio che trasportò la salma di Robert Kennedy, da Los Angeles a Washington, alla serie di foto sugli zingari senza patria, a quelle degli immigrati e degli agricoltori del profondo sud negli Stati Uniti. Foto rigorosamente in bianco e nero anche se ormai il colore, su spinta della Kodak, cominciava la sua corsa per appaiare e superare il bianco e nero, almeno sul piano commerciale.

Marc Riboud: Jan Rose Kasmir affronta la Guardia nazionale americana davanti al Pentagono durante una manifestazione contro la guerra del Vietnam, Washington DC, 1967. © Marc Riboud/Magnum Photos/Contrasto, http://www.arapacis.it/

Ma fotografia non è la realtà né una sua imitazione. La fotografia “è” la realtà in bianco e nero, quella di Capa, Fusco, Power, Reed, Stock, Barbey, David Seymour, Ferdinando Scianna e cento altri. Il bianco e nero è la “cifra” di quest’arte, a torto considerata minore, e anche dei più importanti film del ventesimo secolo. E ciò a dispetto dei tentativi di riscossa del colore che, nel sessantasettenne Steve McCurry sembra in ogni caso aver trovato un suo degnissimo rappresentante.

Immagini dei nostri ieri. I settant’anni di Magnum ultima modifica: 2018-02-26T22:49:24+01:00 da MARIO GAZZERI
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