La politica italiana s’affanna nella ricerca di consensi e nel rilancio continuo di tagli di tasse e prebende di vario genere. Uno dei temi al centro del dibattito è la politica di contrasto alla povertà. La crisi economica e finanziaria ha infatti avuto un grande impatto sui sistemi di welfare in molti paesi europei.
In Italia, le persone in condizioni di povertà assoluta, quando questa cioè è legata a necessità di base essenziali e a uno standard di vita minimamente accettabile, sono più di quattro milioni e settecentomila (più di un milione e seicentomila famiglie).
Non stupisce quindi che i partiti vi dedichino ampio spazio e propongano un ricettario di soluzioni miracolose, dal reddito di cittadinanza al reddito di dignità passando per il salario minimo.
Innanzitutto, facciamo ordine.
Il salario minimo non è la stessa cosa del reddito minimo. Il salario minimo è semplicemente un limite minimo orario di retribuzione.
Il salario minimo legale è tendenzialmente utilizzato in quei paesi dove la copertura della contrattazione collettiva è limitata. Attualmente in Europa manca in Austria, Cipro, Danimarca Finlandia, Italia e Svezia: tutti paesi dove la copertura contrattuale collettiva si aggira attorno all’85 per cento dei lavoratori. In Germania il salario minimo è stato introdotto nel 2012, in seguito alla rapida caduta della copertura contrattuale collettiva. In Europa esistono anche paesi dove convivono alta copertura dei contratti collettivi e il salario minimo: il Belgio, la Francia, l’Olanda e la Spagna.
Che il salario minimo produca effetti positivi non è così evidente, anzi è oggetto di discussione da parte del mondo della ricerca economica: frena l’occupazione? Favorisce gli investimenti? I costi vengono spostati sul prodotto e quindi sul consumatore? Ciò che le rende problematico è la scelta del minimo orario, appunto: se troppo basso le imprese potrebbero avere un incentivo a uscire dai contratti collettivi nazionali; se troppo alto potrebbe avere degli effetti negativi sulle aziende, con successivi licenziamenti e/o l’incremento del lavoro nero.
Solo il Partito democratico propone il salario minimo. La proposta del Pd prevede un salario minimo tra i nove e i dieci euro all’ora per coloro che non sono coperti da contrattazione collettiva nazionale. La proposta è stata molto criticata per la scelta del minimo. Di solito infatti il minimo orario è fissato intorno alla metà della retribuzione mediana di un determinato paese (in Italia dovrebbe essere attorno ai sei euro). La proposta del Pd farebbe dell’Italia il paese occidentale coi più alti livelli di salario minimo legale. Le conseguenze di questa generosità sono al centro della preoccupazione degli analisti.
I redditi minimi invece sono delle somme di denaro che lo stato attribuisce a chi ne ha diritto. E qui vi sono delle differenze importanti (soprattutto in termini di costi, ma non solo).
Il reddito di cittadinanza o reddito universale di base propriamente detto viene assegnato a tutti i cittadini, indipendentemente dal reddito e svincolato da condizioni come la povertà o la disoccupazione. Esistono varie teorie e proposte di reddito di cittadinanza universale e non sono necessariamente legate alle politiche di contrasto della povertà: il tema ha trovato infatti spazio all’interno dei dibattiti sulla robotizzazione della società e sulla diminuzione della partecipazione politica.
Quest’imposta negativa universale esiste soltanto in Alaska ed è oggetto di una sperimentazione in Finlandia.
Il reddito minimo viene invece assegnato a quegli individui o nuclei familiari che si trovano al di sotto di una determinata soglia, che siano occupati o disoccupati, e sottoposto di norma a delle condizionalità. Il reddito minimo garantito esiste nella maggior parte dei paesi europei, con l’esclusione della Grecia, della Bulgaria, di Malta e dell’Italia, appunto.
Gli schemi di reddito minimo presenti nei paesi europei svolgono un ruolo residuale, poiché il grosso del sostegno al reddito per i cittadini viene svolto dalle altre prestazioni del welfare (in primis i sussidi di disoccupazione). Tentativi (falliti) di reddito minimo sono stati fatti nel nostro paese (se ne parla da almeno vent’anni), dal reddito minimo d’inserimento alla carta acquisiti sperimentale.
Nessuno dei partiti italiani propone il reddito di cittadinanza. Il Movimento Cinque Stelle utilizza il termine in modo improprio (e forse non a caso). Tutte le proposte di “politiche dei minimi” come forma di lotta alla povertà riguardano il reddito minimo garantito.
Vediamo quali sono le differenze.
Il “reddito di cittadinanza” proposto dal Movimento Cinque Stelle si rivolge a tutti coloro che si trovano in una situazione di povertà relativa, con un reddito più basso della soglia di 780€ (circa nove milioni di persone) diminuendo in proporzione ai redditi del nucleo familiare, è illimitato nel tempo e condizionato alla ricerca di lavoro e alla partecipazione a percorsi di formazione.
La misura riguarderebbe circa il diciannove per cento del totale delle famiglie italiane e il costo stimato dai Cinque Stelle è di circa venti miliardi di euro, di cui tredici miliardi da tasse e sette miliardi da tagli alla spesa pubblica. Il calcolo dei costi – ma non le modalità di finanziamento individuate – si basa in parte sulle stime dell’Istat (quindici miliardi). In audizione al Senato tuttavia il presidente dell’Inps Tito Boeri ha stimato il costo attorno ai trenta miliardi.
Il reddito di dignità è invece una proposta di Silvio Berlusconi che ha spiegato che:
c’è una emergenza che più di ogni altra dovrà essere risolta quando il centrodestra tornerà al governo e riguarda quei quattro milioni 750mila italiani che vivono in condizioni di povertà assoluta, un dato impressionante e inaccettabile.
L’ex presidente del consiglio ha detto che il modello di riferimento è quello dell’imposta negativa sul reddito del premio Nobel Milton Friedman. Non esiste una proposta dettagliata ma date le premesse e i riferimenti si immagina che gli italiani in condizioni di povertà assoluta (ed è una differenza rispetto al M5S che prende in considerazione la povertà relativa) non dovranno pagare le tasse e avranno diritto a ricevere dallo stato “la somma necessaria per arrivare ai livelli di dignità garantita sulla base dei criteri Istat”. Secondo i calcoli di lavoce.info il costo dovrebbe aggirarsi attorno ai ventinove miliardi e la misura riguarderebbe circa l’otto per cento del totale delle famiglie italiane.
Il discrimine tra la proposta di Berlusconi e del M5S è la definizione di povertà.
Berlusconi parla delle persone in condizione di povertà assoluta, cioè di quelle persone che non possono acquistare i beni e i servizi necessari a raggiungere uno standard di vita minimo accettabile nel contesto di appartenenza. Per intenderci l’Istat considera in condizione di povertà assoluta un giovane disoccupato del nord che ha un reddito mensile di ottocento euro (o cinquecento euro nel sud) oppure una famiglia di quattro persone con bimbi tra i quattro e i dieci anni con un reddito mensile di 1500 euro (1200 al sud). Il trenta per cento delle famiglie in condizioni di povertà assoluta sono le famiglie a basso reddito con stranieri; seguono poi le famiglie a basso reddito di soli italiani (undici per cento), le anziane sole e i giovani disoccupati (dieci per cento).
I Cinque stelle prevedono invece il reddito minimo alle persone in condizione di povertà relativa, cioé a quelle persone che si trovano al di sotto del livello economico medio. In Italia tale livello è stabilito in rapporto ad una famiglia di “due componenti con una spesa per consumi inferiore o uguale alla spesa media per consumi pro-capite”. Quindi se un nucleo di due persone consuma meno della spesa media per consumi di una sola persona è considerato povero. La spesa media per i consumi in Italia era nel 2015 di 1050 euro.
Il reddito di inclusione è invece lo strumento che il Partito democratico ha introdotto col decreto legislativo n. 147/2017. Il rei è in funzione dal primo gennaio 2018 e sostituisce il sostegno all’inclusione attiva e l’assegno di disoccupazione Asdi, diventando lo strumento unico nazionale di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale. Per potervi accedere il nucleo familiare del richiedente deve avere un valore dell’Isee non superiore a seimila euro. Si tratta di un beneficio economico che obbliga i singoli beneficiari ad osservare gli impegni del patto di inclusione sociale e, se abili al lavoro, di (re)inserimento lavorativo.
Il Rei è una misura «strutturale», ossia una voce permanente del bilancio pubblico e riguarda il tre per cento del totale delle famiglie italiane e il costo per lo stato è di due miliardi.
Secondo l’Alleanza contro la Povertà in Italia, tuttavia, il rei riguarderebbe solo il trentotto per cento delle famiglie in condizioni di povertà assoluta (tra questi il quarantuno per cento dei minorenni poveri rimarrà escluso). E per funzionare a dovere, si dovrebbe portare il costo per lo stato da due a sette miliardi.

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