“Nazionalismo fa rima con neoliberismo”. Parla Éric Fassin

Il sociologo francese critica i populisti di sinistra e fa appello a una strategia capace di includere gli astensionisti
MATTEO ANGELI
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I populisti collezionano successi elettorali in Europa. Si nutrono della debolezza dei vecchi partiti e dell’Unione europea di fronte alla crisi economica e migratoria. Si dicono portavoce del popolo, ma in nome di chi parlano veramente?
Ne abbiamo discusso con Éric Fassin, sociologo, professore presso l’Università Paris-8 Vincennes-Saint Denis (Dipartimento di scienze politiche e dipartimento di studi di genere), ricercatore presso il Legs (Laboratorio di studi di genere e di sessualità, CNRS / Paris-8 / Paris-Nanterre), autore di diversi libri, tra cui, Gauche, l’avenir d’une désillusion (Textuel, 2014) et Populisme : le grand ressentiment (Textuel, 2017), che sarà presto pubblicato in Italia con il titolo Populismo di sinistra e neoliberismo (ManifestoLibri).

Éric Fassin

Professor Fassin, se proviamo ad analizzare il populismo in quanto ideologia, quali sono i suoi punti forti e quali sono i suoi punti deboli?
Non credo che si possa parlare di “populismo” nello stesso modo in cui si parla di “comunismo” o di “socialismo”: non è certo che ci sia un’ideologia comune dietro le varie figure populiste. Preferisco quindi utilizzare l’aggettivo: ci sono delle retoriche e delle strategie “populiste”. Il loro punto in comune è l’opposizione tra il popolo e le élite. Ma ciò che caratterizza le retoriche populiste di destra e di estrema destra (e questa è una differenza fondamentale con le varianti di sinistra) è una doppia opposizione – non solo verso l’alto, ma anche verso il basso: il popolo contro gli stranieri, i rom, le minoranze sessuali o razziali, ma anche contro i disoccupati, accusati di approfittare dell’assistenzialismo delle istituzioni pubbliche… Il punto forte di questi populismi è anche il loro punto debole: è l’indeterminatezza. Perché, alla fine, il popolo chi è? Tutti, a parte “la casta”. Non sono quindi solo “le classi popolari”. È seducente, ma è anche vago: non si tratta di un pensiero in termini di classi sociali.

In Italia abbiamo un movimento populista, il Movimento cinque stelle, che sfugge alla divisione destra-sinistra. Potremmo dire la stessa cosa in Francia con la protesta dei gilet gialli. Come spiega questi fenomeni?
In Francia sono stati fatti dei paragoni soprattutto con la storia nazionale e, in particolare, con la Rivoluzione francese. Per comprendere un movimento che gioca su temi effettivamente nazionalisti (la bandiera tricolore, la marsigliese) bisogna uscire da questo contesto nazionale. Per questo ho comparato il movimento dei gilet gialli non solo al Movimento dei forconi, che diede linfa al Movimento cinque stelle, ma anche alla rivolta dell’aceto in Brasile, entrambi del 2013. Il punto di partenza è lo stesso o quasi: i trasporti, le imposte, l’ecologia… Come i gilet gialli, questi movimenti mettono insieme persone di destra e persone di sinistra, se non addirittura di estrema destra ed estrema sinistra. Questa è la grande differenza tra i gilet gialli che protestano alle rotonde e i movimenti di protesta nelle piazze, come gli Indignati in Spagna, Occupy Wall Street, o la Nuit Debout in Francia, tutti chiaramente a sinistra.

Sembra quindi esserci una somiglianza tra la situazione italiana e quella francese…
Sì, ed è il motivo per cui mi preoccupo, non tanto per il movimento dei gilet gialli in sé (nonostante gli eccessi che si sono manifestati fin dall’inizio), ma piuttosto per le sue conseguenze. In Italia (come peraltro in Brasile), la confusione ideologica è andata a vantaggio dell’estrema destra. Quando rifiutiamo l’opposizione tra destra e sinistra, non è mai la sinistra a beneficiarne. E il pericolo aumenta con il rifiuto di ogni forma di rappresentazione – che siano i sindacati o i partiti – espresso dai gilet gialli; sono addirittura reticenti a indicare i loro propri rappresentanti… tutto questo mi sembra propizio all’ascesa dell’estrema destra, che si nutre infatti del rifiuto della classe dirigente.

Come si situano i populisti rispetto all’Unione europea?
I populisti denunciano volentieri l’élite globalista, in particolare la burocrazia europea – lontana dal popolo, se non addirittura contro il popolo. Questo spiega la retorica nazionale, nazionalista. A sinistra, l’evoluzione in Francia di Jean-Luc Mélenchon spiega molto: nel 2012, Mélenchon rivendicava il suo ancoraggio al partito: il Partito della sinistra e il Fronte della sinistra. Nel 2017, adotta una strategia populista, ispirata dalla filosofa Chantal Mouffe. Il suo nuovo movimento si chiama la “Francia indomita” – detto altrimenti, la parola “sinistra” sparisce a vantaggio della nazione; allo stesso modo, il tricolore francese rimpiazza la bandiera rossa e l’Internazionale cede il passo alla marsigliese. Il patriottismo ha l’obiettivo di unire il popolo.

In che modo la nazione è utilizzata per combattere l’Europa?
L’Europa oggi è un’Europa neoliberale. Combattere il neoliberismo equivale in questo senso a combattere l’Unione europea. Il problema è che si è tentati di appoggiarsi alla nazione per contrastare l’Europa. Ma questo vuol dire sbagliarsi sulla natura odierna dell’Unione europea: dagli anni Duemila, l’Europa neoliberale si dice contro l’immigrazione. Non è quindi solo “fortezza Europa”, ma è anche Europa delle nazioni. Non ci sono più solo le frontiere esterne dell’Europa; assistiamo al ritorno delle frontiere interne – come tra Italia e Francia. Al tempo stesso, il rifiuto politico dei migranti è comparabile nei due paesi. Certo, Emmanuel Macron si presenta come un capo di stato liberale quando protesta contro i politici illiberali o antiliberali come Matteo Salvini. Ma la verità è che entrambi chiudono le loro frontiere; i due rifiutano di aprire i loro porti ai rifugiati. Sono delle logiche nazionali: Macron e Salvini possono dare spettacolo del loro scontro, ma alla fine si tratta della stessa xenofobia, con tutt’al più delle differenze di intensità.

Perché per la sinistra insistere sulla nazione sarebbe un errore?
La nazione non è certo una prerogativa esclusiva della destra: dopotutto, nel diciannovesimo secolo, era un valore della sinistra. Ma oggi l’Europa neoliberale, che è lontana dall’impegnarsi a oltrepassare la nazione in una logica sovranazionale, si appoggia al sentimento nazionale… a alla xenofobia. E non è solo il caso dell’Europa: si pensi agli Stati Uniti di Donald Trump, o all’Ungheria di Viktor Orbán, o alla Turchia di Recep Tayyip Erdoğan. Il loro populismo è una forma di sovranismo neoliberale.

La sinistra deve essere allora più europea?
Il problema è che l’Unione europea stessa gioca la carta del nazionalismo. Per esempio, l’Unione europea ha rifiutato la Turchia per ragioni xenofobe – spingendo così Erdoğan verso un populismo nazionalista.
E cos’è l’Europa oggi, se si pensa che affida la gestione dei rifugiati alla Turchia, ma anche alla Libia, e quindi, in altre parole, esternalizza le sue frontiere? Bisogna resistere al contempo al neoliberismo e alla reazione nazionale, che non sono per alcun motivo incompatibili: il capitalismo è perfettamente compatibile con la xenofobia, e il populismo è uno dei volti del neoliberismo. A favore o contro l’Europa? Uscire o no dall’Unione? Per fuggire a questo dilemma, la sinistra deve essere internazionalista.

In che modo?
Basti guardare i movimenti sociali. Ciò che sta succedendo a destra è indicativo: Steve Bannon è impegnato a costruire una “alt right” (movimento politico, nato negli Usa, che promuove ideologie di destra alternative a quelle tradizionali del conservatorismo, ndr) internazionale; vuole esportare le ricette che hanno permesso l’elezione di Trump. Non si tratta solo di politica elettorale. Tocca anche i movimenti sociali: si pensi alla reazione contro quella che è definita “ideologia di genere”: si estende da Francia a Ungheria, da Brasile a Stati Uniti. E come reagisce la sinistra? Esiste un movimento internazionale contro la xenofobia politica? Bisogna contare sulle mobilitazioni internazionali, anti-globalizzazione o ecologiste. L’onda cominciata con il movimento #MeToo può servire da modello. A un livello più modesto, noi stiamo per lanciare un internazionale in difesa degli studi di genere.

Quindi l’Europa non può essere cambiata solo attraverso l’azione dei governi?
Nel 2015 abbiamo avuto una dimostrazione con il caso greco. Syriza voleva rifiutare il diktat dell’Europa. Ma Aléxis Tsípras ha dovuto cedere. È vero che la Grecia non è un peso massimo di fronte alla Germania. Ma che sarebbe successo se al posto della Grecia ci fosse stata la Francia? François Hollande non ha nemmeno provato a resistere ad Angela Merkel. Non bisogna rassegnarsi all’idea che tutte le battaglie sono perse in partenza: questo è solo un altro modo per finire a credere che non c’è alternativa. È proprio questo che minaccia oggi la sinistra: la disperazione, o quella che io chiamo depressione militante. Ci battiamo, continuiamo a perdere e finiamo per credere che siamo condannati alla sconfitta…

Come sfuggire a questa dinamica?
Per contrastare il “non c’è alternativa” di Margaret Thatcher, bisogna proporre un’alternativa. A mio avviso, il disinteresse per la democrazia viene dal fatto che c’è alternanza senza alternativa. E l’alternativa passa necessariamente dalla divisione tra destra e sinistra.

Nel suo libro lei sostiene che la sinistra non dovrebbe cercare di recuperare il voto degli elettori di estrema destra, ma dovrebbe piuttosto parlare agli astensionisti. È sicuro che questo tipo di sinistra progressista potrebbe essere maggioritario? Gli elettori dei partiti populisti sono davvero irrecuperabili?
In Francia e altrove abbiamo già fatto quest’esperienza: la strategia di inseguire la destra, che a sua volta rincorre l’estrema destra, ha portato la sinistra a perdersi. È per questo che è ora di provare un’altra strategia. Non siamo sicuri che funzioni, ma siamo sicuri che la terza via, il dirsi “al di là di destra e sinistra”, che alla fine vuol dire andare a destra, ha portato a un successo effimero e a un fallimento duraturo.

L’obiettivo primario non deve più essere quindi tentare di sedurre gli elettori di estrema destra. Gli elettori di Marine Le Pen o Donald Trump non sono vittime della globalizzazione. Sanno molto bene quello che fanno. Non sono né ingenui né ignoranti. Il loro è un voto xenofobo che non è determinato dalla sofferenza economica; è motivato dal rancore. E le analisi politiche mostrano che non è vero che sono elettori che si spostano da una parte all’altra – né da sinistra verso l’estrema destra, né dall’estrema destra verso sinistra.

Cominciamo piuttosto a cercare di riconquistare gli astensionisti. La loro astensione è il segno non di un rancore, ma di un’avversione verso alla politica. Gli astensionisti sono elettori più giovani, più poveri e… meno bianchi. Per sedurli, non terremo quindi lo stesso discorso. Cambiare pubblico vuol dire anche cambiare strategia.

Tenere un discorso che conoscono già e che di solito è usato contro di loro rischia infatti di essere poco efficace…
Se la Marsigliese piace meno agli astensionisti rispetto agli elettori di Le Pen, il motivo è che essi sono abituati a vedere utilizzati contro di loro i simboli della repubblica, a partire dalla bandiera. Quando si domanda ai francesi figli o nipoti di immigrati, arabi o neri, di integrarsi, è un modo per dire loro che non sono integrati.
La differenza tra loro e noi è che solo loro devono rispondere all’appello “Integratevi!”, che paradossalmente finisce per escluderli.

Oggi la xenofobia porta molti voti. Che fare per contrastarla?
La xenofobia politica va resa costosa per chi l’utilizza. Per ora, i politici hanno l’impressione di avere tutto da guadagnare a prendersela con dei capri espiatori come i rom o i migranti. Ma, per esempio, se si concedesse ai cittadini non-europei il diritto di voto alle elezioni locali, i dirigenti nazionali ci penserebbero su due volte prima di stigmatizzarli. Invece di rincorrere l’estrema destra, gli altri partiti abbandonerebbero questo terreno. Oggi la xenofobia è diffusa attraverso tutto lo spettro politico: deve tornare a essere il segno caratteristico dell’estrema destra.

Versione originale in francese

“Nazionalismo fa rima con neoliberismo”. Parla Éric Fassin ultima modifica: 2019-02-28T08:25:39+01:00 da MATTEO ANGELI
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