Élite e populismi viaggiano su treni diversi

Due mondi che non s’incontrano e che hanno in comune soltanto tablet e smartphone e la stessa subalternità ai padroni dell’algoritmo.
MICHELE MEZZA
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Ventiquattro aprile, uno dei piloni del lungo ponte che congiunge Pasqua al primo maggio. Da Roma con il Frecciarossa viaggio verso Milano. Una tratta che percorro spesso. Così come settimanalmente uso la navetta Roma/Napoli. Le linee dei treni veloci sono ormai un coworking mobile, dove intere tribù professionali s’incontrano e lavorano abitudinariamente. Una sorta di diligenza di Ombre Rosse, dove le tipologie sociali si propongono con un certo schematismo.

Le facce e le fogge sono inconfondibili.

Oltre i sessant’anni: impermeabile, ormai blu, camicia azzurra, con cravatta sbarazzina, in mano valigetta con computer che viene subito attaccato alla spina per cercare febbrilmente la connessione. La fascia anagrafica inferiore, diciamo trentacinque/cinquanta, con zainetto d’ordinanza, divisa nero-New York che vive, oppure camicia bianca, auricolari senza filo e tablet. 

Qualche eccentrico con giornali (combinazione Repubblica e Foglio, Il Manifesto segnala il passaggio di quadri sindacali). 

Trasversalmente le due famiglie che abbiamo descritto vengono poi segmentate dalle rispettive attività. La nebulosa comunicazione/marketing/spettacolo, si segnala per continue telefonate e rivendicazioni di appuntamenti mancati, e un’aria di esibita stanchezza; il circuito manageriale/gestionale, organizza video call per le ore successive.

In entrambi gli schieramenti numerosi i separati che rincorrono figli o coniugi e ricompongono i frammenti famigliari.

Appena si parte ognuno si spalma sul proprio schermo identificativo: computer, tablet o smartphone, e comincia a tessere il proprio filo, costruendo le sua giornata on line.

Attraverso le telefonate che s’intrecciano o le chiacchiere che si scambiano i toni sono molto acidi, sprezzanti, per i cosidetti bru-bru, quella congerie di parvenu che governa, più in generale con la politica. I politici, che non mancano, sono a volte i più rancorosi.

La tendenza comunque è prevalentemente liberal.

Chi inequivocabilmente ha tendenze più in voga, in linea con la maggioranza giallo-verde, sfuma molto i toni, e cerca punti di contatto, quasi temendo un rigetto.

Il clima non incoraggia le polemiche e inibisce i radicalismi. Si ragiona su colori pastello.

L’immigrazione è un argomento su cui misurare la propria sensibilità: questi che chiudono i porti e insieme anche i centri di raccolta sono davvero criminali, si sente sibilare a mezza bocca, e il consenso non manca. 

Ricorrente la motivazione demografica: del resto senza immigrati qui si chiudono fabbriche e scuole. Molti si rifanno ai continui viaggi all’estero: Trump e gilet gialli sono i bersagli che eccitano il fuoco contro i cattivi nel saloon.

L’incendio di Notre-Dame è una vera sciagura dell’umanità. Le centinaia di vittime nello Sri Lanka sono citate solo per dare conto di qualche viaggio che s’era programmato e ora è più prudente cancellare.

In genere la diligenza dei Frecciarossa, che attraversa il paese da nord a sud, a 280 chilometri orari, trasporta cowboy tolleranti, che compatiscono gli indiani e, soprattutto, odiano il generale Custer. Anche perché loro di solito vivono lontano dalla nuova frontiera. Al salone del design, appena concluso a Milano, non ci sono problemi di convivenze: Toro Seduto non va alla Triennale.

Una moltitudine che si riconosce per la propria ambizione a non identificarsi: quell’umanità del Frecciarossa non vuole essere eguale, nemmeno ai propri simili, anzi proprio da essi vuole distinguersi. Gli occhiali più diversi, l’orologio meno convenzionale, il viaggio più eccentrico, la fiction di Netflix più nuova. Ognuno morbosamente cerca quel qualcosa che lo separa, dopo aver naturalmente fatto, visto e avuto tutto il resto. Ed è proprio questa paranoia che li rende identici e inconfondibili. È il popolo di Richard Florida: tecnologico, tollerante, trasversale.

Se si votasse su quella linea superveloce il centrosinistra avrebbe una larghissima maggioranza. Nonostante tutto.

Arrivo a Milano, Stazione centrale, primo pomeriggio. Devo andare a Bergamo. Prendo un regionale veloce Trenord, con coincidenza a Treviglio. Il regionale parte dalla banchina parallela a quella dove sono arrivato con il Frecciarossa, pochi metri che sembrano una frontiera sociale. Il treno è modernissimo, a due piani, ancora in ottimo stato. Attraverso il lato nord della Brianza, il miglio d’oro d’Europa. Lungo questo asse si registra la maggiore densità di attivismo economico del continente: imprese, professioni, servizi, commercio.

Il finestrino del treno è un monitor sul benessere competitivo. È zona di pendolarismo inevitabile. Ci si sposta per vivere, ma anche per rifornirsi, o per svago: tutto è distante, perchè ognuno vive per conto proprio, in case, prevalentemente unifamiliari, in aree di confine fra residenza e boschi. Muoversi è congenito all’abitare.

Soprattutto si lavora altrove: il treno è parte essenziale dell’ufficio o del reparto. A bordo, oltre la frontiera che ho varcato cambiando convoglio, uno spaccato proprio dei reparti e degli uffici: qualche impiegata e qualche insegnante e molti addetti ai molti capannoni che occupano tutto il finestrino per tutta la corsa del treno. Le prime bianche, i secondi quasi tutti neri.

Ognuno ha gli occhi incollati sul proprio telefonino: alcuni ascoltano musica, si comprende da come irrefrenabilmente battono il tempo con i piedi, le impiegate digitano messaggi, o li leggono. Niente giornali, qualche libro rompe la monocultura del mobile. Non si parla, solo qualcuno vocia al telefono in lingue indecifrabili.

Via via che il treno si allontana da Milano, lo scompartimento muta la sua composizione. Le bianche scendono alle prime stazioni, salgono sempre solo immigrati di colore: i neri vivono più lontano dalla città. Dopo la coincidenza a Treviglio mi scopro l’unico bianco del vagone. E istintivamente mi sorprendo ad aspettare il controllore. Ovviamente nel treno non accade nulla e non ho nessuna ragione per essere allarmato.

Eppure avverto una tenue irrequietezza. L’arrivo del controllore invece che rassicurarmi aggrava la mia tensione. Lo vedo arrivare dal corridoio che comunica con l’altra carrozza, seguito da due agenti di polizia. Comprendo che non sempre le corse sono tranquille. Sento poi un tramestio. Qualcuno grida e si lamenta. Mi sporgo e vedo che il gruppo in divisa, controllore e poliziotti, sono fermi al primo sedile del mio vagone. Come capita spesso in ogni treno o autobus, su un certo numero di passeggeri, c’è sempre uno senza biglietto. A Roma sarebbe già un record positivo. A Napoli l’eccezione sarebbe il controllo. A Treviglio il retaggio della dominazione della Serenissima rende ancora intollerabile la trasgressione.

Inevitabilmente la contestazione genera allerta nei passeggeri. Qualcuno si alza e cerca di capire. Inevitabilmente la sua mossa trasmette allarme nei due poliziotti. E la loro tensione mi avvolge completamente. Il tono si alza. Il trasgressore è un signore di una certa età di colore. Inevitabilmente in questi caso, memori di una vasta aneddotica di rudi trattamenti, ci si chiede chi sta travalicando la procedura: chi protesta contro i controllori, o chi usa un fare sbrigativo e troppo confidenziale contro il passeggero. Il controllore sembra percepire la mia incertezza, e, controllando il mio biglietti con fare distratto, diciamo sicuro di non avere sorpresa da me, mi informa che il passeggero non è nuovo del bosco.

Mi chiedo se fosse stato sera, diciamo verso le otto o le nove, quali effetti ci sarebbero stati di un episodio come questo in sé banale. Una di quelle impiegate a cui tocca di fare il viaggio fino alla fine come si sente in quel contesto dove, ripeto, nulla di particolare è accaduto, ma dove è innegabile che prende forma e forza un certo e inspiegabile malessere, dove insomma si forma la famosa percezione dell’invasione. Certo tutti i dati ci dicono che gli immigrati nel nostro paese rimangono pochi, non più dell’otto per cento complessivo. Ma se in certi ambienti il 92 per cento non c’è allora ci si trova dinanzi una nuova maggioranza che ci sembra che prema attorno a noi.

Arrivo a Bergamo con la sensazione di aver attraversato una barriera spazio temporale rispetto alla mia partenza da Roma sul Frecciarossa.

Incredibilmente, pur avendo viaggiato nel cuore del triangolo più ricco del Paese, mi è sembrato che il tratto finale, Milano Bergamo appunto, fosse una discesa agli inferi. Eppure il viaggio è stato confortevole, puntuale, senza ulteriori carichi, non come invece accade nelle tratte periferiche o del sud, dove i treni sono sgangherati e si parla di ore ed ore di accumulo ritardo, tutti i giorni.

Sicuramente se su quel treno regionale si fosse ripetuta l’ipotetica votazione che avevo immaginato sul treno veloce, il risultato sarebbe stato opposto: la sensazione di un potenziale pericolo era diffusa e riconoscibile. Persino in alcuni degli stessi passeggeri di colore, quelli che si vedeva più anziani ed integrati, che guardavano gli altri con diffidenza. Il generale Custer avrebbe fatto il pieno su quel treno. Ognuno lo avrebbe usato contro i suoi più immediati inseguitori nella scala sociale, a prescindere dalle identità o affinità.

Confesso che anch’io, che recito il credo democratico ogni giorno, ho rintracciato nelle mie reazioni segnali evidenti di un arroccamento. 

I due treni, il Frecciarossa e il regionale, presi nello stesso giorno, hanno esemplificato i meccanismi che stanno creando le due gigantesche filter bubble, le cosiddette bolle emotive che determinano i nostri comportamenti social sulla pressione della valanga di propaganda mirata che ci raggiunge individualmente, come ci spiegò anni fa Eli Pariser nel suo saggio Il Filtro.

Si tratta di due mondi che tendono ormai a non incontrarsi: sul Frecciarossa viaggia il globalismo culturale e professionale, figure sociali di evidenza e di comando, che possono costruirsi un proprio sistema logistico virtuale, basato sulla velocità e l’esclusività, il cosiddetto virtuale 5 Arrondissement planetario, per richiamare uno dei quartieri più elitari dei professional parigini, che oggi coincide con zone di Londra, Milano, New York e ormai anche Shangai e Seoul, dove vivono alternativamente i vincitori di questa nuova storia dell’economia dei segni e dei sogni.

Sui regionali i secondi, i terzi, i penultimi, un’umanità che vede confinare i residenti subalterni che nella società del successo non riescono mai ad avere nemmeno i propri cinque minuti di felicità, come diceva Andy Warhol, che si vedono incalzati e tallonati da chi una volta arrivato comincia a radicarsi, senza per questo assimilarsi.

Per la prima volta nella storia, non ci sono narrazioni di emancipazione e speranza per quelli che viaggiano sui regionali. Il tramonto dei messianismi religiosi e laici, dalla predicazione cattolica all’organizzazione marxista, lascia sguarnito il fronte della speranza. I penultimi sanno che non possono attendere rivincite nei confronti di quelli che stanno sopra, devono solo difendere il loro presente da quelli che stanno sotto, perché nessun futuro gli garantirà un sol dell’avvenire.

I primi sanno di non essere insidiati nemmeno nell’immaginario da una revanche degli sconfitti. È in questo groviglio psicologico, dove la percezione è realtà, e dove la rete amplifica il frammento, che si gioca una partita dove ancora non si colgono i profili dei contendenti. Manuel Castells già più di vent’anni fa, con la sua trilogia della Società in rete avvertiva che “il potere si genera nei mulini a vento della mente”. Non è più la pancia della gente a determinare schieramenti ed interessi, ma le culture e le semantiche della realtà che determinano i nostri comportamenti: quel che appare è indiscutibilmente più forte di quello che è.

La stessa instabilità tecnologica, con il suo continuo turnover di saperi e competenze, rende insicuro ogni primato ed ogni rendita sociale. Chi sa fare qualcosa sa bene che la sua facoltà è temporanea, provvisoria, momentanea. Il cambio di paradigma, prima secolare oggi mensile, rimescola continuamente le gerarchie e le identità. Solo chi può maneggiare i segni e i sogni di queste comunità che si costituiscono sulle paure o sulle complicità si affermano e possono fare surfing fra queste onde.

Il Frecciarossa è il totem di questo mondo di esecutori dei nuovi alfabeti. Un mondo che nonostante le apparenze rimane subalterno ed esecutivo rispetto al ristretto nucleo di dominatori del calcolo, sono pur sempre dei calcolati e non calcolanti, ma sono comunque dei cooptati nel ristretto circolo dei narratori .

Mentre sui regionali rimangono i manovali di queste affabulazioni. Circondati dai residui manufatturieri, che arrivano da lontane miserie e ancora fabbricano materialmente oggetti che valgono sempre meno dei sogni che li immaginano. Questa miscela è una fabbrica di frustrazione e di paure che senza futuro non può che arroccarsi nel presente.

È la matrice di quell’inversione sociologica che ha reso, in tutto il mondo, la destra partito dei poveri, e la sinistra partito dei ricchi. I treni, meglio di saggi e speculazioni filosofiche esemplificano questo paradigma: mondi che viaggiano vicini ma non si vedono né tanto meno s’incontrano. E se si incontrassero non avrebbero linguaggi, vocabolari per comunicare.

L’unica cosa che li accomuna sono i terminali digitali, le protesi del corpo avrebbe detto McLuhan. È lì che si deve risalire per ritrovare un comune denominatore, un vettore di contenuti, un ponte di connessione: i tablet e gli smartphone che guidano i passeggeri. Quella che era l’alienazione della società industriale, dove ricchi e poveri pativano lo stesso estraniamento dalla vita sociale, benchè viaggiassero in classi diverse, e con comfort diversi, oggi sono le relazioni digitali: diversi privilegi ma la stessa subalternità ai padroni dell’algoritmo.

Gli schermi che collegano i compulsivi sguardi dei passeggeri dei Frecciarossa e dei regionali sono le matrici di un disagio, di una inconsapevolezza a cui risalire per comprendere quale sia la vera gerachia sociale, chi realmente guidi oggi quei treni, dove viaggiamo tutti, come diceva nell’unico spunto di una certa originalità nel suo melenso libro The game Baricco, come mosche in un vagone di un treno che corre a folle velocità. Volando pensiamo di avere l’autonomia di decidere dove andare, mentre è chi guida il treno che ci conduce alla sua destinazione.

Élite e populismi viaggiano su treni diversi ultima modifica: 2019-04-27T21:16:13+02:00 da MICHELE MEZZA
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