Golfo. Sfida degli sceicchi alla guida suprema. Con chi sta il sultano?

Nelle ultime settimane gli atti di sabotaggio contro quattro petroliere e gli attacchi di droni contro due stazioni di pompaggio in Arabia Saudita aumentano le tensioni nella regione. Teheran e Riyadh formano le rispettive alleanze. Tace Recep Tayyip Erdoğan.
UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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Il Golfo infestato. Da navi da guerra, droni sabotatori. Il Golfo della divisione tra Ryadh e Teheran. I venti di guerra che sono tornati a spirare nel Golfo Persico (o Arabico) ridisegnano alleanze regionali e globali e portano alla luce quel patto a tre che segna il presente e il futuro di una delle più tormentate e nevralgiche aree del mondo: il Medio Oriente. Il patto in questione è quello che lega gli Usa dell’amministrazione Trump, l’Arabia Saudita e Israele. Un patto anti-Iran, finalizzato al contrasto dell’espansionismo “persiano” nella regione, sulla direttrice Baghdad-Damasco-Beirut. È questo il senso del vertice della Mecca iniziato ieri e che durerà tre giorni.

Riunione del Consiglio di cooperazione del Golfo

A spiegarne l’importanza è Julie Kebbi  in un interessante articolo sul quotidiano di Beirut L’Orient-Le Jour (30/05/2019), tradotto per ArabPress da Katia Cerratti:

Per la prima volta in due anni, un alto funzionario del Qatar visita la Mecca nell’ambito di un vertice straordinario del Consiglio di cooperazione del Golfo, convocato dal re Salman d’Arabia. Potrebbe trattarsi di un riavvicinamento tra Riyadh e Doha. L’arrivo del primo ministro del Qatar, lo sceicco Abdallah bin Nasser bin Khalifa al-Thani, annunciato ieri sera dal canale al-Jazeera, è infatti fortemente simbolico ed è la prima volta dall’inizio della crisi del Golfo, che un aereo reale del Qatar atterra a Gedda, da quando lo spazio aereo saudita è stato chiuso alla Qatar Airways. Il primo ministro del Qatar incontrerà “alti funzionari dell’Arabia Saudita, degli Emirati Arabi Uniti, del Bahrein e di altri paesi”, ha riferito oggi al-Jazeera… Potrebbero dunque riprendere le relazioni tra i due paesi fratelli del Golfo, da quando il blocco, iniziato nel giugno 2017 da Riyadh, Abu Dhabi, Manama e Il Cairo, non ha avuto gli effetti sperati.

E continua:

L’asse pro-saudita accusa Doha di finanziare il “terrorismo” e di mantenere legami troppo stretti con Teheran. Un riavvicinamento che potrebbe essere spiegato dalla volontà del sovrano saudita di riunire tutti i leader della regione in un contesto ultra-infiammabile. Le tensioni che si sono intensificate nelle ultime settimane a causa di atti di sabotaggio contro quattro petroliere al largo del porto degli Emirati di Fujairah, seguiti da attacchi di droni contro due stazioni di pompaggio in Arabia Saudita, hanno generato paure di conflitti nella regione. Il consigliere americano per la sicurezza nazionale, John Bolton, ha affermato che dietro gli attacchi contro le petroliere, “molto probabilmente” c’è la Repubblica islamica, mentre i ribelli Houthi in Yemen, sostenuti dall’Iran, hanno rivendicato l’attacco droni in Arabia Saudita all’inizio di questo mese.

Oltre al vertice del Ccg, i leader arabi e musulmani s’incontrano alla Mecca per altri due vertici: l’Organizzazione della cooperazione islamica (Oic) e la Lega Araba. Questi tre incontri dovrebbero essere il mezzo con cui l’Arabia Saudita creerà un fronte arabo unito, adottando una posizione comune contro il regime iraniano; pur riaffermando il suo desiderio di evitare qualsiasi confronto diretto.

I sauditi capiscono che il Qatar può giocare un ruolo importante” come mediatore con l’Iran, mentre Doha ha già assunto questa responsabilità a Gaza e nell’ambito dei colloqui talebano-americani,

sottolinea, sempre a L’Orient-Le Jour Andreas Krieg, professore al King’s College di Londra.

Il viceministro degli esteri iraniano Abbas Araghchi, in visita a Doha, durante un incontro con il ministro degli esteri del Qatar, lo sceicco Mohammad ben Abderrahmane al-Thani, ha affermato che l’Iran è pronto a impegnarsi in un dialogo con i paesi del Golfo per le crescenti tensioni nella regione.

C’è una differenza tra il re Salman che vede il Qatar come un potenziale mediatore e il principe ereditario Mohammed bin Salman e il suo omologo degli Emirati Mohammad Bin Zayed, che non approverebbe una soluzione che include il Qatar,

osserva Andreas Krieg.

Particolarmente vicini, i due giovani rappresentano una nuova generazione di leader nel Golfo con metodi più aggressivi e meno diplomatici dei loro antenati sulla questione iraniana. Tuttavia, dovranno fare gli equilibristi per rispettare la sensibilità dei loro “fratelli” nel Golfo mentre il Sultanato dell’Oman, Kuwait e Qatar hanno buoni rapporti con la Repubblica Islamica.

Se i paesi del Ccg adotteranno una posizione comune al termine di questi due giorni sul dossier iraniano

[…] la dichiarazione che sarà pubblicata dal Ccg sarà molto ambigua, perché dovranno trovare un giusto equilibrio tra i loro interessi, in modo che i paesi che hanno legami con Teheran non mettano a repentaglio le loro relazioni né con il Ccg né con l’Iran,

anticipa sempre Andreas Krieg.

L’incontro tra il viceministro degli esteri iraniano Abbas Araghchi e il ministro degli esteri del Qatar, lo sceicco Mohammad ben Abderrahmane al-Thani.

Oltre al Ccg, unirsi a un movimento generale contro l’Iran in seno alla Lega Araba dovrebbe essere anche un compito difficile per Riyadh e Abu Dhabi, dal momento che alcuni stati all’interno dell’organizzazione hanno relazioni con la Repubblica Islamica, come Beirut e Baghdad. Nell’ultimo vertice della Lega a Tunisi, lo scorso marzo, i leader arabi sono rimasti particolarmente vaghi sulla questione, affermando in un comunicato che

le relazioni di cooperazione tra i paesi arabi e la Repubblica islamica dell’Iran devono essere basate sul (principio di) buon vicinato.

Sotto l’impulso saudita, tuttavia, la questione iraniana viene regolarmente affrontata dalla Lega. Nel novembre 2017, il ministro degli esteri saudita Adel al-Jubeir ha denunciato le attività degli “agenti” di Teheran nella regione, riferendosi a Hezbollah e agli Houthi e ha affermato che Riyad “non risparmierà alcuno sforzo per difendere la propria sicurezza nazionale” di fronte all’aggressione iraniana.

Le tensioni sono aumentate tra gli Stati Uniti e l’Iran dopo che Washington si è ritirata dall’accordo nucleare multinazionale con Teheran, ha reimposto le sanzioni e aumentato la sua presenza militare nel Golfo. I vertici della Mecca hanno dunque obiettivi ambiziosi.

Il ministro degli esteri saudita, Ibrahim al-Assaf, il 29 maggio, ha aperto i lavori della conferenza preparatoria con i ministri degli esteri dell’Oic. Nel suo discorso, al-Assaf ha dichiarato che il mondo islamico continua ad affrontare alcune sfide, il cui pericolo maggiore è l’ingerenza negli affari interni di ciascun paese. Il ministro ha poi evidenziato che l’Umma islamica, ovvero la comunità dei fedeli, sta rivolgendo lo sguardo verso la Siria, la Libia, la Somalia e gli altri paesi in difficoltà.

Altro tema evidenziato da al-Assaf è il conflitto arabo-palestinese, che continua a rappresentare una sfida da affrontare per l’Oic, così come una delle questioni principali per il regno saudita. Quest’ultimo desidera per i palestinesi il rispetto dei propri diritti legittimi e l’istituzione di uno stato indipendente con capitale Gerusalemme Est. Anche in questo caso, secondo il ministro, è necessario che la comunità internazionale si faccia carico della propria responsabilità politica e morale per giungere ad una soluzione del conflitto.

Siria, Yemen, Palestina. Il filo che unisce questi vari fronti caldi, nell’ottica saudita, è l’espansionismo iraniano. Diretto o per procura. Teheran ha respinto le accuse fatte al vertice arabo, definendole “infondate” e sostenendo che l’Arabia Saudita si è unita agli Stati Uniti e Israele in uno sforzo “senza speranza” per mobilitare l’opinione regionale contro Teheran.

La convinzione che domina a Gerusalemme come a Washington, e a Riyadh, è che nello scontro in atto a Teheran tra le due “anime” del regime a prevalere è quella più conservatrice e aggressiva: quella dei pasdaran. Secondo uno studio recente, i pasdaran controllerebbero addirittura il quaranta per cento dell’economia iraniana: dal petrolio al gas e alle costruzioni, dalle banche alle telecomunicazioni. Un’ascesa che si è verificata soprattutto sotto la presidenza di Ahmadinejad, ma che è proseguita sotto quella di Rohani.

I pasdaran fanno direttamente capo alla Guida suprema della Repubblica islamica dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei. E sempre la Guida suprema controlla direttamente la Setad, una fondazione con 95 miliardi di dollari di asset presente in tutti i comparti dell’economia. Doveva rimanere in vita solo un paio d’anni ma nel corso del tempo si è trasformata in un colosso immobiliare – 52 miliardi di asset – che ha acquistato partecipazioni in decine di aziende in quasi tutti i settori: finanza, petrolio, telecomunicazioni, dalla produzione di pillole anticoncezionali all’allevamento degli struzzi. Tra portafoglio immobiliare (52 miliardi di dollari) e quote societarie, 43 miliardi, la Setad ha un valore nettamente superiore alle esportazioni petrolifere iraniane dello scorso anno.

La Guida suprema della Repubblica islamica dell’Iran, l’Ayatollah Ali Khamenei.

Se si somma il potere diretto di Khamenei a quello, altrettanto pervasivo e radicato della “Pasdaran Holding”, si ha un quadro sufficientemente nitido su un regime teocratico-militare che si è fatto, per l’appunto, sistema. Un sistema che ha sempre più condizionato le politiche della Repubblica islamica dell’Iran. Per sostenere direttamente il regime di Assad, l’Iran, come stato, attraverso le proprie banche, ha investito oltre 4,6 miliardi di dollari, che non includono gli armamenti scaricati quotidianamente da aerei cargo iraniani all’aeroporto di Damasco, destinanti principalmente ai Guardiani della Rivoluzione impegnati, assieme agli Hezbollah, a fianco dell’esercito lealista.

Non basta. Almeno cinquantamila pasdaran hanno combattuto in questi anni in Siria, ricevendo un salario mensile di trecento dollari. Lo stato iraniano ha pagato loro anche armi, viaggi e sussistenza. E così è avvenuto anche per i miliziani del Partito di Dio.

Alla Mecca si discute anche di questo. Con l’emiro del Qatar, ma senza un altro attore protagonista della disfida mediorientale: il “sultano di Ankara”, Recep Tayyip Erdoğan. Alla Mecca la sedia del presidente turco è rimasta vuota. Ed è un vuoto pesante. Molto.

Golfo. Sfida degli sceicchi alla guida suprema. Con chi sta il sultano? ultima modifica: 2019-06-01T10:53:52+02:00 da UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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