Sfruttati e padroni nell’Italia del Terzo Millennio: il caso dei sikh nell’Agro-pontino

Conversazione con Marco Omizzolo sulla condizione dei braccianti indiani nella provincia di Latina. Sociologo, ha sempre intrecciato il suo impegno di ricercatore con la partecipazione attiva, concreta, alle lotte nelle campagne in un pezzo d’Italia troppo spesso al di sotto dei radar.
ENZO MANGINI
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Sabaudia se ne sta raccolta in una luce lattiginosa, quasi padana. La città che si presenta come “capolavoro dell’architettura razionalista italiana” appare ancora assopita come in un letargo invernale. L’appuntamento è sulla piazza del municipio. In giro, quasi nessuno. Pochi avventori per un aperitivo in uno dei bar della piazza, inevitabilmente chiamato “Italia”.

Marco Omizzolo deve aspettare che la polizia lo “agganci” a Latina e lo accompagni fino all’ingresso di Sabaudia. Nella sua città, Omizzolo non è del tutto al sicuro. Ha ricevuto molte minacce di morte, da quando ha iniziato a denunciare, con successo, lo sfruttamento dei braccianti indiani nell’Agro Pontino. E a contribuire a organizzarne la protesta, la lotta, il riscatto. Molti tra gli “indigeni” non hanno gradito.

Qualche mese prima della nostra intervista, Omizzolo è stato ricevuto al Quirinale da Sergio Mattarella, per ricevere l’Ordine al merito della Repubblica. A Sabaudia, invece, meglio stare tranquilli: ci scambiamo domande e risposte in macchina, davanti al comando dei carabinieri.

Il Presidente Sergio Mattarella consegna al Sig.Marco Omizzolo, l’onorificenze OMRI conferite “motu proprio” dal Presidente della Repubblica a cittadini distintisi per atti di eroismo e impegno civile. (foto di Francesco Ammendola – Ufficio per la Stampa e la Comunicazione della Presidenza della Repubblica)

Omizzolo, sociologo, ricercatore Eurispes e Amnesty Italia, attivista, è un personaggio alla Ken Loach. Essenziale, diretto e precisissimo quando parla. C’è nelle sue parole una rabbia razionale, diretta contro il sistema di sfruttamento che studia da anni e sta contribuendo a smantellare. Ma c’è anche una carica di gentilezza, di umanità, che è forse l’origine della sua battaglia. Il suo curriculum è fatto di ricerca sul campo con Eurispes, lavoro con la cooperativa In Migrazione, di cui è responsabile scientifico, collaborazioni con giornali e riviste, libri, docenze universitarie in Italia (Venezia, Pisa e Milano) e in India come visiting professor. Il tutto intrecciato con la partecipazione attiva, concreta, alle lotte nelle campagne della provincia di Latina, un pezzo d’Italia troppo spesso al di sotto dei radar.

Mi occupo soprattutto della comunità di lavoratori indiani, per la maggior parte sikh o comunque del Punjab indiano, che qui, cioè in provincia di Latina e in particolare nella zona di Sabaudia, è sorta intorno alla metà degli anni Ottanta.

All’inizio erano soprattutto giovani maschi, che avevano spesso alle spalle un’esperienza migratoria in altre zone d’Europa o d’Italia e che si sono insediati in agricoltura per diverse ragioni. Innanzitutto perché essa era una nicchia occupazionale che richiedeva forza lavoro con alcune caratteristiche specifiche che si intrecciavano perfettamente con le caratteristiche dei primi indiani sikh: scarsa conoscenza dell’italiano; grande attitudine al lavoro e alla fatica, eccetera.

Insieme alla parallela costruzione di una serie di templi, questo ha permesso il radicamento di una comunità che oggi conta complessivamente circa trentamila persone. Un numero rilevante per la provincia di Latina. Quando dico complessivamente, intendo regolari, irregolari, seconde generazioni, residenti in altre province ma presenti nel Pontino, donne e anziani.

Quanti lavorano in agricoltura e in che condizioni?
Di questi trentamila, circa dodicimila lavorano in agricoltura. E di questi dodicimila, secondo il periodo che prendiamo in esame e il tipo di contratti in vigore, una percentuale tra il 60 e l’85 per cento vive una qualche forma di sfruttamento. Il contratto provinciale prevede l’impiego di un bracciante per sei ore e trenta al giorno, per sei giorni la settimana per nove euro lorde l’ora: sfruttamento soft vuol dire che lavori nove ore e anziché nove euro l’ora te ne do 4,50/5,50. Ma si arriva a forme di sfruttamento che sono vere e proprie riduzioni in schiavitù. Ci sono casi di braccianti che sono stati sequestrati in roulotte, nei campi, picchiati, ricattati, impiegati anche quattordici ore al giorno, tutti i giorni del mese per cento o centocinquanta euro al mese e per questo costretti, per nutrirsi, a rovistare nella spazzatura.

C’è un ulteriore aspetto che abbiamo indagato con la cooperativa In Migrazione e denunciato con il dossier Doparsi per lavorare come schiavi: i braccianti a volte assumono metanfetamine, oppio o antispastici, con la complicità e l’incoraggiamento dei padroni, non per sballarsi ma per sopportare maggiori carichi di lavoro ed evitare di essere licenziati. Lo fanno soprattutto i più fragili tra i fragili, in particolare i più anziani, che non hanno ovviamente più la tenuta fisica necessaria a reggere ritmi di lavoro massacranti.

Pensate cosa può voler dire per un fisico non più giovane lavorare dodici ore al giorno, in una serra, raccogliendo 150 mazzetti di ravanelli, da quindici ravanelli ciascuno, inginocchiati a trenta cm da terra, per essere pagati 2,90 euro l’ora. A fine giornata hai dei dolori mostruosi alle caviglie, alla schiena, al collo. Ma il giorno dopo devi tornare al lavoro, facendo venti chilometri in bicicletta, tra andata e ritorno. Vengono dopati, come cavalli. Ci sono ormai i primi casi di braccianti arrivati all’eroina e che muoiono per overdose, nel silenzio delle campagne. O altri che non sapendo come uscire da questo tritacarne scelgono il suicidio.

Peraltro, questa realtà illumina anche la stretta connessione tra questo sistema criminale di sfruttamento e le realtà criminali più “tradizionali” con i loro business di sostanze stupefacenti. Un intreccio che per me si può definire senz’altro capitalismo criminale. Si consideri che secondo l’ultimo rapporto Eurispes ormai siamo arrivati a un business delle agromafie che si aggira intorno ai venticinque miliardi di euro l’anno.

Dal docufilm The Harvest

Perché questa realtà è ancora così poco visibile?
È stata completamente invisibile per tantissimo tempo, per diverse ragioni. In primo luogo qui c’è un retaggio ideologico e politico apertamente razzista, nei confronti dell’altro inteso come migrante. C’è poi un elemento classista: sono braccianti, e quindi poveri.

I braccianti indiani sono quindi trasparenti, ma in una condizione funzionale al sistema economico che vige qui. Sei trasparente nella dimensione pubblica, in quella lavorativa invece sei braccia utili all’agricoltura. Ambrosini parla, giustamente, di “utili invasori”. Nei miei primi studi ho chiamato questa comunità “una comunità di sole braccia” proprio perché erano considerati solo in funzione della loro capacità di lavoro.

Ora che la comunità non è più solo braccia, ma ci sono i templi, i piccoli negozi e altre attività commerciali, sta cambiando la percezione?
La percezione sta cambiando. L’attività di piccolo commercio al minuto è il tipico percorso di emancipazione dallo sfruttamento rurale.

L’emancipazione avviene perché qualcuno è stato in grado di risparmiare, magari perché per qualche mese o anno è stato sfruttato di meno, oppure perché un gruppo di lavoratori crea una cooperativa informale e mette assieme i capitali per consentire a qualcuno un passo in avanti, fuori dal ciclo di sfruttamento.

Ciò che però ha determinato un cambiamento sostanziale sono stati i percorsi di lotta, di contrasto allo sfruttamento, di denuncia del traffico internazionale a scopo di sfruttamento messi in campo da alcune realtà sociali, come la cooperativa In Migrazione, alcune realtà sindacali, ovvero la Flai-Cgil e soprattutto dalla comunità stessa, organizzata nella Comunità indiana del Lazio.

Cosa ha implicato per il territorio la collaborazione tra questi tre soggetti?
L’alleanza tra queste diverse articolazioni sociali ha prodotto molte attività a livello locale: analisi, studi, corsi di servizio di vario tipo, di lingua italiana e di informazione sui diritti del lavoro. Il risultato è stato straordinario: il 18 aprile del 2016 a Latina, in piazza della Libertà, più di quattromila braccianti indiani sono scesi in corteo in quello che è stato il più grande sciopero di braccianti migranti in Italia negli ultimi cinquant’anni. Davanti alla Prefettura, i braccianti hanno chiesto il rispetto dei contratti di lavoro, la fine dello sfruttamento e del razzismo. Peraltro, in quello stesso giorno, nella stessa piazza, al pomeriggio c’era l’iniziativa di Salvini, molto meno partecipata e con la presenza di CasaPound. Una dimostrazione, se ce ne fosse stato bisogno per chi non conosce questo territorio, della presenza di una destra che qui ha radici forti e durature e che era dominante in senso ideologico anche quando formalmente il partito più presente era la Democrazia Cristiana.

Che cosa vuol dire per gli indiani, braccianti e poveri, essere stranieri qui?
Essere stranieri qui oggi significa vivere in una condizione per cui la tua schiena è piegata non solo nelle dodici o quattordici ore di lavoro, ma sempre. Cioè la tua è una condizione di servizio, e dunque anche di servitù, permanente nei confronti del paese Italia, più precisamente della provincia di Latina e di chi domina in questa provincia. Per esempio, abbiamo raccolto testimonianze di braccianti che per rinnovare la carta d’identità, un documento del tutto estraneo al rapporto di lavoro, hanno dovuto pagare anche ottocento euro e per rinnovarla si sono dovuti rivolgere per forza al caporale, che poi divideva questi soldi estorti ai braccianti con l’impiegato dell’anagrafe del comune X o Y. Questo dimostra che lo sfruttamento lavorativo va molto al di là dell’ambito strettamente aziendale e diventa parte di un quadro sociale e dei rapporti politici di forza. Non a caso, infatti, in ogni zona a forte densità di sfruttamento lavorativo c’è un grande mercato ortofrutticolo, che nel caso della provincia di Latina è quello di Fondi; e non a caso c’è un ruolo della grande distribuzione e delle reti di vendita e commercializzazione dei prodotti agricoli, in mano a poche reti padronali, in alcuni casi anche mafiose. È questa la cornice sociale e di rapporti di forza in cui bisogna inquadrare lo sfruttamento con tutto quello che ne consegue. È una tematica che ho affrontato nel merito nel mio recente studio “Caporalato. An authentic Agromafia”, con Fiammetta Fanizza, edito da Mimesis editore e in lingua inglese.

Nel caso della provincia di Latina, poi, questo coagulo sta producendo una convergenza di interessi tra datori di lavoro italiani, professionisti italiani, sfruttatori italiani e anche alcuni indiani che abbiamo definito come “proto-Mafia”. Ovvero, non solo l’illegalità, ma un sistema di organizzazione, violenza, linguaggio e reti di interesse che si sta configurando come una mafia. Uno degli elementi, per esempio, è la capacità di mettere in piedi un traffico internazionale a scopo di sfruttamento.

Come funziona il traffico internazionale che fa arrivare qui i braccianti indiani? Sappiamo dove finisce la filiera dello sfruttamento, per esempio nei prodotti sottocosto sugli scaffali dei supermercati. Ma dove comincia?
Comincia per esempio in Punjab, nel nord-ovest dell’India, attraverso un’alleanza criminale tra alcuni padroni italiani che reclutano direttamente braccianti potenziali, desiderosi di venire a lavorare in Italia. Questi braccianti si fidano del racconto del trafficante e arrivano in Italia godendo una serie di “servizi” funzionali a creare le condizioni per lo sfruttamento.

I braccianti indiani non arrivano con i barconi dall’Africa del nord. Arrivano con un biglietto aereo: i viaggi sono organizzati dai trafficanti, in stretta relazione con i padroni italiani. È una rete che ha la capacità organizzativa, i capitali e le relazioni per fare tutto questo. Un padrone italiano, per esempio, paga tra i tre e i cinquemila euro per ogni bracciante reclutato, mentre ogni bracciante paga tra i sette e i quindicimila euro per arrivare in Italia. Questa somma permette la creazione di un debito che è la spada di Damocle sulla testa di queste persone che sono così obbligate a lavorare nelle condizioni più dure. Ci tengo a sottolineare un aspetto di questo meccanismo: è criminale, oltre che immorale e ingiusto, ma è nascosto nelle pieghe del rispetto formale delle leggi. Il sistema quote italiano nasconde perfettamente questo meccanismo che si è potuto organizzare nell’indifferenza generale, a partire da quella delle autorità che avrebbero dovuto vigilare.

Ho seguito, nelle mie ricerche, un trafficante di braccianti in Punjab, perché volevo una risposta a una domanda semplice: come fa un qualsiasi Mario Rossi, imprenditore agricolo della provincia di  Latina, a chiamare attraverso il suo sistema quote esattamente un Hardeep Singh di un paesino sperduto del Punjab? Questo avviene perché c’è un intermediario che consente al signor Singh di essere collocato nel sistema quote e quindi di arrivare in Italia.

Dal docufilm The Harvest

Ormai ci sono i bambini indiani negli asili e nelle scuole della provincia di Latina. Questo fatto ha ridotto la distanza tra la comunità e il resto della società? Gli italiani che vivono accanto agli indiani sono un po’ meno indifferenti alla loro sorte? Gli indiani sono un po’ meno stranieri?
Il discorso è ovviamente complesso e a più livelli. Quello che registriamo è, in prevalenza, un forte desiderio di occidentalizzazione nella seconda generazione indiana, cioè il desiderio di assomigliare al proprio compagno o compagna di banco italiano. Questo si traduce, soprattutto, nel cercare di imitare lo stile dei consumi, cosa spesso difficile per le famiglie povere. Senza però rinunciare del tutto alla propria identità: è facile vedere giovani sikh con i jeans di marca o portati secondo la moda del momento, ma  con il turbante. È un percorso tipico in molti contesti migratori.

Registriamo anche, però, molti episodi e casi di razzismo, xenofobia e discriminazione praticati da giovani italiani contro i loro compagni di scuola o comunque coetanei indiani. La differenza etnica viene rimarcata con forza. C’è da dire che i giovani italiani hanno assorbito in questo territorio un quadro ideologico molto chiaro, in cui gli elementi di classismo si uniscono a quelli di discriminazione etnica e religiosa.

C’è anche un altro fenomeno, che riguarda un buon quindici per cento delle nuove generazioni: ritornano a lavorare nei campi e diventano la punta più avanzata e più scaltra dei meccanismi di sfruttamento. Sono persone che hanno concluso il percorso di studi, parlano bene l’italiano, hanno conoscenza dei meccanismi istituzionali, conoscono le regole sia formali che informali della nostra società, riescono quindi a intrecciare un rapporto più franco e più furbesco con il padrone. Queste persone riescono a garantire una migliore governance del sistema di sfruttamento ed è una posizione golosa per molti di loro perché colma proprio il gap di capacità economica rispetto agli italiani, al prezzo, però, di un più efficace sfruttamento dei membri della propria comunità.

Dal docufilmThe Harvest

Quanto è importante la dimensione religiosa per la comunità indiana e per la ricostruzione di legami sociali in questo territorio?
È fondamentale. La comunità nasce soprattutto attorno ai templi sikh; l’identità sikh è un’identità religiosa. Non a caso alcuni padroni agiscono anche contro questa identità, per esempio obbligando i braccianti a togliere il turbante o a radere la barba, per renderli meno riconoscibili anche a loro stessi, e isolarli dalla comunità. Questa identità produce due fenomeni diversi rispetto al lavoro.

Il primo è che il sikhismo prevede un’assoluta dedizione al lavoro, che nell’isolamento delle aziende o della vita reclusa di alcuni braccianti, diventa uno strumento nelle mani dei padroni. Il secondo fenomeno è legato a due esperienze storiche fondamentali per il sikhismo. Di una di esse spesso perfino molti sikh hanno scarsa consapevolezza: i sikh erano parte dell’esercito britannico e hanno combattuto in queste terre contro il nazifascismo.

È un’esperienza che abbiamo evocato, raccontato e usato per informarli e costruire una forma nuova di contestazione che poi ha portato allo sciopero storico del 2016.

L’altro capitolo fondamentale è la resistenza sikh e la rivolta che portò alla fine dell’occupazione del Punjab da parte della dinastia musulmana dei Mogul. Il decimo guru della tradizione sikh chiama alla rivolta, vittoriosa, contro i Mogul. E questa rivolta fa acquisire all’identità sikh dei tratti guerrieri e arricchisce di elementi guerrieri il simbolismo religioso sikh, per esempio il kirpan, il pugnale tradizionale che è parte del corredo di ogni sikh.

Quando abbiamo iniziato a organizzare le prime assemblee, abbiamo ricordato proprio questi tratti dell’identità sikh e questi elementi della storia della comunità, che sono serviti a dare fiducia, a innescare meccanismi virtuosi. Le prime assemblee, peraltro, avvenivano proprio nei templi, quindi con una forte carica simbolica che ha fatto da additivo alla mobilitazione. La mobilitazione non è finita.

Ci sono ancora decine di aziende dove i lavoratori si organizzano o scioperano autonomamente. Segno che c’è una nuova generazione di sindacalisti in azione.

Manca invece l’aspetto interreligioso. Sarebbe bello vedere la Chiesa cattolica, locale e nazionale, prendere posizione non solo con comunicati ma in modo più concreto e fattivo accanto a queste persone che lottano per la propria dignità. Ci sono dei passi in avanti, negli ultimi tempi, per esempio grazie a Don Francesco Fiorillo del Monastero di San Magno, nel Comune di Fondi (LT) e referente del presidio locale di Libera, ma ancora questo aspetto è lungi dall’essere uniforme e tratto caratterizzante l’impegno della Chiesa laziale.

In altri paesi di antica immigrazione indiana, come il Regno Unito, la fase di sfruttamento è finita presto e, anzi, le varie comunità indiane sono tra le più di successo negli affari.
Quanto siamo lontani da quel tipo di contesto? E che politiche servirebbero per favorire l’incontro, ancor prima che l’integrazione?
Se guardiamo al contesto nazionale, il processo è in atto anche in Italia. Comunità sikh a Novellara, in Emilia, a Cremona o in Toscana sono molto più avanzate rispetto a quella in provincia di Latina. Le ragioni sono tante, comprese quelle che riguardano la cultura politica dei territori di accoglienza, il livello dello sviluppo economico e quello dei servizi.

Le immigrazioni si inseriscono, s’innestano in una tradizione sociale e culturale dei diversi territori: il migrante indiano che arriva in provincia di Latina vive una condizione diversa da quella di suo fratello che vive a Cremona o a Reggio Calabria. Questa è una tra le tante ragioni per cui le generalizzazioni portate avanti da una destra che soffia sul fuoco del razzismo sono assolutamente prive di fondamento, oltre che pericolosissime. Qui nell’Agro Pontino siamo invece molto lontani da quei processi virtuosi. Un po’ per la cultura ideologica e politica dominante, un po’ perché c’è un sistema imprenditoriale che ancora ritiene utile sfruttare la manodopera in nome di un profitto illecito.

L’intreccio tra questi due elementi produce una subcultura per cui i padroni sono convinti o almeno fanno finta di essere convinti che i braccianti debbano essere grati per il lavoro che viene loro offerto. Mi è capitato, quando ho potuto intervistare dei padroni, di sentire spesso frasi come “quando sono arrivati dall’India bevevano dal naso, ora bevono dalla bocca e lo devono a noi”. Una frase rivelatrice dell’idea di mondo e di relazioni umane, ancora prima che economiche che questa gente ha.

Non bisogna mai perdere di vista la cornice di cui parlavamo prima, il sistema di interessi attorno allo sfruttamento dei braccianti è vastissimo. Abbiamo fatto i conti: un’azienda di medie dimensioni che sfrutta cento braccianti alle condizioni medie di sfruttamento di questo pezzo di Italia, ogni anno sottrae ai lavoratori e allo Stato un capitale illecito che va da un milione a un milione e mezzo di euro.

Contando che in provincia di Latina ci sono circa diecimila aziende agricole, stiamo parlando di un sacco di soldi, specialmente in questa fase economica.

Qual è la percentuale di imprese che sfruttano i braccianti?
Come dicevo all’inizio, ci sono diversi livelli di sfruttamento e ovviamente imprese di diverse dimensioni. Detto questo, dalle nostre ricerche risulta che una percentuale tra l’otto e il quindici per cento sfrutta i lavoratori in modo molto grave; se includiamo anche le forme di sfruttamento più “leggere”, arriviamo a una percentuale che oscilla, secondo i periodi e le condizioni del mercato, tra l’88 e il 92 per cento. Ho incontrato migliaia di lavoratori indiani ed esaminato decine di migliaia di buste paga e non ho mai trovato una busta paga regolare, in cui a fronte delle dodici o più ore lavorate in una giornata non ne risultassero immancabilmente meno.

Sembra paradossale in un territorio che ha vissuto e anzi è nato con un’epopea di riscatto contadino, per quanto inquadrata dal regime fascista. Quella raccontata in Canale Mussolini da Antonio Pennacchi, per capirci.
È vero ma c’era appunto una grande retorica e una enorme propaganda. Qui i contadini sono morti lavorando le terre paludose e malariche. Non è mai stata fatta una riforma agraria che permettesse di sottrarre ai grandi latifondisti della zona le terre già bonificate. I latifondisti anzi sono rimasti tutelati nel loro potere. Ai contadini e agli ex combattenti inquadrati dall’Opera Nazionale Combattenti, che è stata il motore della bonifica, è stato detto, in sostanza, bonificate e morite, bonificate e soffrite. In più dovevano dare una quota del raccolto al regime e sostenere il regime a cui dovevano, nella retorica dominante, la nuova “ricchezza” di queste terre. La mia famiglia per metà è veneta, è storia familiare per me. Questo ha creato un’ipoteca che ancora dura: queste famiglie si sono ripagate il lavoro massacrante che hanno fatto non una, ma cento volte, e però non gli è stato mai riconosciuto. In un certo senso, questa cesura pesa sul passaggio alla modernità che questo territorio ancora deve fare. Ci sono delle potenzialità straordinarie qui di sviluppo rispettoso dei diritti e dell’ambiente, ma sono schiacciate, mortificate, da un tessuto economico che è zavorrato o dalla impresa rurale antica, vecchia maniera, o da quella ipermoderna, lanciata nell’agrobusiness, che però ha come unico orizzonte di profitto lo sfruttamento dei braccianti e non, per esempio, la contestazione del mercato e della grande distribuzione organizzata.

Una cosa che chiediamo agli imprenditori agricoli è: perché anziché sfruttare i braccianti non contestate, in modo organizzato e anche con il nostro aiuto se serve, la grande distribuzione che per i prodotti vi impone prezzi impossibili? Per quello che ho detto prima sulla cultura del territorio, non è difficile capire che la GDO viene accettata perché potente, mentre lo sfruttamento del bracciante, per la sua condizione, viene quasi considerato naturale.

Dal sito La Lente

Com’è cambiata, invece, la tua vita da quando hai iniziato a esplorare questo mondo?
Dal punto di vista delle libertà materiali, senza dubbio la qualità della mia vita è peggiorata. Aver organizzato le proteste e le occupazioni nelle aziende e nelle serre, o essermi infiltrato nelle campagne sotto caporale o aver partecipato all’organizzazione dello sciopero, aver seguito un trafficante, sono tutte cose che incidono molto. Ancora pochi giorni fa eravamo con quaranta magistrati, tra loro molti magistrati del lavoro, in un tempio sikh a parlare di diritti e legalità. Tutto  questo significa una grande esposizione, non solo e non tanto per me, ma per il tema.

La conseguenza sono intimidazioni di vario tipo, per esempio mi hanno distrutto quattro macchine in due anni; vivo sotto vigilanza, quando mi sposto devo avvertire le forze dell’ordine… insomma una serie di limitazioni e di incombenze che pesano molto. È questa l’espressione violenta di un’organizzazione mafiosa originale che proprio nel Pontino, come ho analizzato nel saggio La Quinta Mafia (RadiciFuture edizioni), trova la sinergia tra diverse mafie (cupola siciliana, camorra, Casalesi, Sacra Corona Unita, diverse ‘ndrine…) che mediante una sorta di direttorio informale e con la complicità di criminalità locale e alcuni esponenti politici e pezzi dell’imprenditoria, riescono a gestire affari milionari e il consenso sociale e politico conseguente. In più, io abito qui, in questo territorio, per cui esco di casa e non so chi incontrerò per strada. Il problema non è incontrare il mafioso, che saprei identificare, ma incontrare tanti soggetti che sono dentro il sistema di sfruttamento: padroni, caporali o anche professionisti che guadagnano per la loro relazione con i padroni e i caporali. Loro conoscono me, io non conosco loro e li posso incontrare alla  posta o al bar. Questo limita la mia libertà di movimento.

Sono ormai anni che non mi faccio un’estate piena, godendo della libertà di frequentare posti o iniziative o piazze. Ci sono provocazioni continue, così come una rodata macchina del fango che mi accusa di essere parte del meccanismo di sfruttamento. Per esempio, dopo lo sciopero del 18 aprile 2016, sono comparsi circa cinquemila volantini in tutta la provincia, compresa la mia casella della posta, in cui mi si accusava, con nome e cognome, di essere a capo di una rete per la tratta di esseri umani dal Punjab e di percepire una mazzetta del venti per cento da tutti i braccianti indiani.

Ti senti straniero nel tuo territorio, in un certo senso, allora?
Per dire la verità, sono arrabbiato con il mio territorio. Non riesco a dirmi straniero perché sono molto affezionato a questa terra e le riconosco delle potenzialità e delle bellezze mostruose, che sento mie. E sento di svolgere un servizio per questa terra e per i suoi cittadini. Lo dicevo qualche giorno fa a un convegno: non è solo una battaglia per gli indiani o per il riconoscimento dei diritti di alcuni, è una battaglia per la democrazia. Questi ragazzi, queste persone vivono condizioni di sfruttamento tali da non poter essere liberi, e in un paese che si dice e si pensa democratico ciò produce una contraddizione. Allo stesso tempo sono intimamente legato a questo territorio e sono arrabbiato perché vedo che qui si decide ancora di guardare dall’altra parte, di tutelare i propri interessi anche quando sono interessi criminali, di agire in modo omertoso, di non dichiarare apertamente i grandi manovratori del sistema, che siedono anche nelle istituzioni o in politica. Perché il padrone, come il Duce a suo tempo, va ossequiato, sostenuto e non va contestato, anche quando limita la tua libertà, ruba, è violento, è mafioso.

L’immagine d’apertura è tratta da LavoroLibero

L’intervista apparirà sul prossimo numero (2/2019) della rivista AREL.

Sfruttati e padroni nell’Italia del Terzo Millennio: il caso dei sikh nell’Agro-pontino ultima modifica: 2019-06-11T20:12:07+02:00 da ENZO MANGINI
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