Oltre “Rousseau”

E se il sistema pentastellato di votazione fosse una novità che consente di riscrivere i codici della democrazia con il linguaggio della rete?
MICHELE MEZZA
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Ora che si deposita la polvere sollevata dal cambio di governo converrebbe ragionare attorno al caso Rousseau. Nel vociare attorno alla consultazione dei Cinque stelle sul sito di proprietà della Casaleggio S.p.A. – non è una piattaforma ma un normale sito web, per altro molto precario nella struttura – si conferma il vecchio detto per cui quando il saggio indica la luna è da stolti guardare il dito.

Non ha aiutato a guardare la luna il modo pacchiano e inutilmente barocco con cui gli stessi titolari dell’evento hanno presentato il voto digitale. Prima esasperando la sofisticatezza dell’apparato – dalla Silicon Valley hanno lavorato per noi – poi enfatizzando il senso dell’operazione – tutto il mondo si è fermato per attendere i risultati – infine esagerando le quantità del fenomeno – record mondiale di votazione on line.

Nulla di tutto questo si avvicinava alla realtà, come quell’ora e mezzo di attesa del risultato ha ampiamente dimostrato.

Il quesito della piattaforma Rousseau sul Governo Conte bis

Se davvero l’operazione fosse stata realmente funzionante e trasparente, sarebbe bastato mostrare sull’homepage del sito un banale contatore che mostrava la progressione dei votanti, e un pop-up a tempo che registrava automaticamente i “sì” e i “no”, per poi renderlo pubblico all’ora convenuta, alla conclusione delle votazioni.

Tutto questo non è stato possibile perché Rousseau è di proprietà di una famiglia, che se lo passa di padre in figlio, che controlla ogni operazione – dalla registrazione degli iscritti Cinque stelle, all’accesso al voto, fino allo scrutinio finale – senza condividere con nessuno queste delicatissime informazioni.

Rousseau è un rito e non una forma di democrazia diretta. Ma detto questo, non si può, come perfino illustri costituzionalisti, da Cassese a Flick a Mirabelli, hanno fatto, archiviare il messaggio che sottotraccia viene inevitabilmente diffuso dagli apprendisti stregoni della Casaleggio: la democrazia delegata non è la fine della storia.

Non credo che si debba essere ossessionati dal materialismo storico per constatare che se almeno la metà della popolazione terrestre vive ormai in rete, condividendo in tempo reale attività economiche, personali, e sociali, allora anche la costruzione del consenso politico e i percorsi delle decisioni debbano essere riprogrammati alla luce di questa pretesa antropologica. 

In questa divaricazione fra le forme di vita e le forme della politica andrebbe ricercata la principale ragione che vede, ad ogni latitudine geopolitica, in crisi partiti e istituzioni.

Le fessure che rendevano precaria la democrazia occidentale sono ormai diventate voragini: Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Spagna, Brasile, Sud Africa sono i capitoli di terremoti che hanno scombussolato valori e procedure fra le più solenni e storicamente robuste della storia politica moderna.

Il fatto che in nessuno di questi paesi si sia vista una ripresa delle macchine politiche tradizionali, nemmeno come reazione alle forme più estreme ed eccentriche dell’attacco populista e reazionario, ci dice che la crisi della forma partito e del legame sociale fra programma e consenso, soprattutto a sinistra, si sia sbriciolato.

La causa reale sta, come sempre, nei processi sociali, e non nelle strumentazioni tecnologiche. Internet non ha fatto la rivoluzione da nessuna parte, così come non fu il treno che riportò Lenin a San Pietroburgo a fare l’ottobre sovietico, ma una spinta sociale che coinvolgeva soggetti a volte anche limitati nel numero, ma fondamentali per lo sviluppo del paese.

L’Italia in questo è forse il laboratorio più avanzato. Siamo l’unico paese che con la svolta informatica ha mutato due volte il proprio regime politico, promuovendo un ricambio di personale e di equilibri inedito in Europa.

Appare per questo inspiegabile, ad esempio, leggere su Repubblica un indignato commento di Ezio Mauro, uno dei più avvertiti e prudenti commentatori politici nazionali, che inveisce contro il voto su Rousseau accusandolo di interferire con il “percorso istituzionale previsto per le crisi di governo”.

Il quesito della piattaforma Rousseau sull’accordo di governo M5S-Lega

Come abbiamo visto il voto su Rousseau presenta mille incongruenze e opacità che lo rendono del tutto inattendibile, ma certo, fino a quando è promosso dal gruppo dirigente del principale partito nazionale, per esprimere un giudizio finale sui contenuti di un accordo politico non può certo essere delegittimato, solo perché nessuno aveva fatto così prima.

Mauro, dando voce ad un’estesa opinione intellettuale si mostra scandalizzato del fatto che “una base – oltre modo ristretta – poteva teoricamente revocare le decisioni prese dai suoi vertici su un’intesa di governo alle battute finale”. È proprio così. Mauro, i costituzionalisti, tutta quella congerie di osservatori e di commentatori di lignaggio faranno bene ad abituarsi: sarà ormai una prassi ineludibile che basi di organizzazioni, per quanto ristrette, potranno revocare decisioni di vertice.

Due sono i dati che rendono irreversibile questo processo di “accesso alla storia delle plebi”, come avrebbe detto Hannah Arendt: il primo riguarda la velocità della decisione, il secondo la condivisione del progetto.

La velocità nei processi decisionali è l’unico elemento che separa base e vertice. In questi ultimi due millenni il titolare della decisione – prima il dio imperatore, poi il sovrano, successivamente il primus inter pares, ed infine il presidente designato, o il leader politico – ha sempre costruito il suo potere sulla sua capacità e possibilità di decidere agevolmente subito: lui sapeva, lui poteva, lui deliberava.

Tutta la storia è stata storia di accorciamento delle distanze fra il popolo e il sovrano nelle decisioni. Fino alla democrazia deliberativa, che si identifica in un calendario elettorale che veicola il mandato decisionale ai vertici eletti. Questa forma è tipica delle grandi identità sociali, classi e ceti definiti e stabili, e di grandi narrazioni globali, la geopolitica internazionale, che danno stabilità allo stato.

È il trionfo dei mediatori: amministratori, parlamentari, manager, giornalisti, sacerdoti, scienziati sono i veri vincenti della democrazia delegata. E non a caso oggi sono uniti nel difenderla dall’assedio delle plebi. Tutto cambia simbolicamente nel fatidico 1989: crolla il muro di Berlino, e la geopolitica non inchioda più la politica nazionale alla collocazione internazionale; Tim Bernars-Lee pubblica il codice web e la rete mette il turbo, i frammenti delle grandi classi trovano un linguaggio e una forma sociale per contestare i mediatori.

Comincia la storia della simultaneità delle decisioni: vertici e base condividono sempre più le informazioni per decidere, e si trovano ad usare gli stessi strumenti per declinare e diffondere le stesse decisioni. Si torna all’agorà di Pericle. Non a caso ad avvertirci che qualcosa avrebbe rotto lo specchio sociale in mille pezzi e che i partiti non sarebbero stati più collanti tenaci fu uno straordinario sciamano della tecnologia, Adriano Olivetti, che a metà degli anni Cinquanta proponeva una forma “altra” rispetto alla democrazia dei partiti, la Comunità territoriale, che oggi possiamo associare alla community digitale, che riusciva a

[…] mettere insieme non gli omogenei, come fanno i partiti, ma gli eterogenei, i molteplici e le molteplicità: competenze intanto, e poi culture, fedi, funzioni, in una concezione più da organismo che da meccanismo

come spiega lucidamente Aldo Bonomi nel suo intervento sul volume Il vento di Adriano (Derive e Approdi, Roma, 2015). Se la base sociale della politica non si identifica in narrazioni di massa identitarie, ma in occasionali obbiettivi che possono accomunare pulviscoli di individui differenziati, è ovvio che la forma di interferenza con le decisioni debba essere un sistema che, periodicamente, offre a questa moltitudine di convergere o meno con i comportamenti dei vertici. Uno strumento veloce, istantaneo, simmetrico a come procedono i decisori: ora e subito.

Esattamente quello che ognuno di noi si attende quando compra sulla rete o dialoga in un social, oppure consulta un sito: ora e subito.

Il secondo elemento che spinge per la pratica di partecipazione diretta, che è cosa diversa, come vedremo, dalla democrazia diretta pomposamente venduta dalla Casaleggio, riguarda proprio la forma della solidarietà programmatica.

Il quesito della piattafortma Rousseau sull’autorizzazione a procedere nei confront dell’ex ministro degli interni Matteo Salvini

Una community, a differenza di un partito, vive se la mission su cui è nata viene vissuta intensamente dai suoi aderenti. Per questo la consensualità deve essere frequentemente verificata e deve coincidere con lo stesso processo decisionale. Se ci pensiamo, il tentativo delle primarie, non a caso abortito clamorosamente, rovesciandosi nel suo contrario, con la supremazia che garantiva ai signori delle tessere che portavano a votare figuranti e comparse, è stato un contraddittorio modo dei partiti per sopravvivere all’assedio delle plebi.

Ma le primarie allontanavano e diluivano le identità del partito, estendendo la partecipazione alla designazione del leader, al quale si delegavano le decisioni, ad un corpo indifferenziato e instabile come era quello degli elettori, e non degli aderenti.

Un sistema di connessione permanente, dove le competenze, le fedi, i valori, come scrive Bonomi, diventano i linguaggi della partecipazione, riporta il baricentro della politica all’interno della community, dando responsabilità precise ad ogni aderente al progetto. I gilet gialli, le piazze arabe, Occupy Wall Street, solo per ricordare fenomeni diversi, sono state tappe in questa direzione. Certo siamo ai primi minuti di una lunga storia, di cui Rousseau sarà ricordato come il sintomo di una fibrillazione e non certo come il rinascimento democratico a cui guarda il mondo, ma questa è oggi la prospettiva: riscrivere i codici della democrazia con il linguaggio della rete, in cui uno non vale uno, ma è uno.

E occasionalmente il gioco sarà, per ognuno di noi, rendere il proprio uno maggioranza. Anche a costo di indignare i professori di diritto costituzionale. Del resto i padri di quei professori già si indignarono all’inizio del Novecento dinanzi alle richieste di suffragio universale. E, grazie a Dio, rimasero delusi.

Oltre “Rousseau” ultima modifica: 2019-09-04T23:14:35+02:00 da MICHELE MEZZA
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