Solo i generali possono fermare Bibi

Israele va di nuovo al voto, il prossimo 2 marzo, e i candidati provenienti dagli alti gradi militari sono i soli a poter impedire che la rielezione di Netanyahu possa consolidarne il potere e trasformarlo in regime.
UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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Cento generali per la pace. Per capire Israele, una società militarizzata per necessità ma non militarista per cultura, vale la pena leggere con attenzione la lettera aperta di cento generali. Era l’ottobre 2014, dopo un’estate di fuoco, con la terza guerra di Gaza. L’operazione Protective Edge (Margine Protettivo) che (come rappresaglia al lancio di razzi dalla Striscia verso centri abitati in Israele – ndr) in 51 giorni, dall’8 luglio al 26 agosto 2014, devastò, come mai prima, la Striscia di Gaza. Il bilancio finale fu terribile: oltre 2.200 morti palestinesi (quasi 1.500 i civili), 72 gli israeliani (di cui 66 soldati). Il destinatario di quella lettera era l’allora primo ministro d’Israele. Lo stesso di oggi: Benjamin Netanyahu. Una lettera di straordinaria attualità.

Signor Primo Ministro,
noi sottoscritti siamo comandanti della Israeli Defense Force e ufficiali di polizia riservisti che hanno combattuto nelle guerre di Israele. Conosciamo per esperienza diretta il prezzo pesante e doloroso preteso da queste guerre; ci siamo battuti con forza per lo Stato, nella speranza che i nostri figli sarebbero vissuti qui in pace, ma la realtà è che di nuovo li stiamo mandando nei campi di battaglia e ci tocca guardarli indossare le divise e i giubbotti antiproiettile per combattere nell’Operazione Margine Protettivo. Siamo rimasti impressionati dalla sua assennata conduzione dell’Operazione Margine Protettivo; in quelle circostanze, Israele non poteva e non può consentire che si spari sulle nostre case né che si metta in pericolo il nostro popolo. Ma quest’operazione potrebbe rivelarsi vana, se non agiamo subito per impedire la prossima guerra. Il governo d’Israele e i suoi abitanti non possono permettersi il lusso di starsene buoni, in attesa. È giunto il momento di assumersi la responsabilità per il nostro futuro e approfittare dell’opportunità storica che ci si presenta dopo l’Operazione Margine Protettivo. Siamo nel bel mezzo delle giornate commemorative per i caduti della guerra dello Yom Kippur, una guerra nata dalla cecità politica della leadership israeliana. Siamo preoccupati che una simile cecità ci farà sprecare l’opportunità che ora ci si presenta. Per questo motivo noi le chiediamo di adottare un approccio politico-regionale e di avviare i negoziati con gli Stati arabi moderati e con i palestinesi (anche in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza) sulla base dell’iniziativa di pace araba-saudita, così com’è stata proposta a Israele dal presidente dell’Egitto Abdel Fattah Al-Sisi, in occasione della recente conferenza internazionale del Cairo, e dal principe saudita Turki Al Faisal lo scorso luglio.

Voi stesso avete delineato un orizzonte politico e annunciato che ci sono alcuni interessi in comune. Sapete bene che gli stati arabi moderati vogliono promuovere, insieme a noi, una soluzione politica che ci permetterà di affrontare insieme i nostri nemici comuni e di stabilizzare il Medio Oriente.

Voi sapete bene che questa è l’unica vera risposta alla minaccia iraniana e alle minacce terroristiche di Isis, Hamas, Hezbollah, Al Qaeda e di altre organizzazioni terroristiche. Sapete anche che solo l’approccio politico-regionale e un’intesa con gli Stati arabi moderati hanno qualche possibilità di portare a un accordo con i palestinesi, nonché stabilità, sicurezza e prosperità economica. L’approccio politico-regionale è foriero di grande speranza. Solo questo approccio può condurre a un drastico cambiamento politico capace di portare uno sviluppo socio-economico che possa trasformare Israele in una società modello per i propri cittadini, per gli ebrei della diaspora e per tutte le nazioni del mondo. Solo questo approccio può aiutarci a contrastare le difficoltà socio-economiche, ridurre il costo della vita e migliorare la qualità della vita dei cittadini che ora protestano per le difficoltà economiche. Non è una questione di “destra” e “sinistra”. Non è una questione di “paura”. È un’idea alternativa per la soluzione di un conflitto, che non si basa (soltanto) sui negoziati con i palestinesi – già falliti più e più volte. La preghiamo di non unirsi a coloro che, un giorno sì e l’altro no, strumentalizzano la paura di eventuali pericoli come scusa per non fare nulla. La preghiamo di non utilizzare gli annunci dei pericoli come una scusa per non fare nulla. Sappiamo ciò che è necessario per garantire la sicurezza per Israele e che la cooperazione regionale contribuirà a questo obiettivo.

C’è un’alta probabilità che questa iniziativa abbia successo! Ma se anche così non fosse, lei è tenuto a provarci in nome del popolo di Israele. Solo allora potremo guardare i nostri figli e nipoti negli occhi e dire loro: “Ci abbiamo provato, ci dispiace, non ci siamo riusciti.” Ci aspettiamo da lei un’iniziativa coraggiosa e capacità di leadership e visione. Come combattente, lei è stato cresciuto con lo slogan “solo chi osa ha successo”.

Come politico, adotti ora questo slogan: “Solo colui che inizia riesce”. Faccia strada, noi la seguiremo!

Quei cento generali sono l’espressione di un mondo, quello in divisa, che nello Stato ebraico ha rappresentato, da sempre, l’istituzione più amata e unificante.

Ricordo un colloquio con il grande scrittore israeliano, recentemente scomparso, Amos Oz. 

La pace, se un giorno sarà realizzata – affermò Oz – sarà la pace dei generali e non di romantici pacifisti. La pace di chi ha sa che la sicurezza d’Israele non può essere garantita sempre e solo da Tsahal”. 

Benny Gantz, Moshe Bogie Ya’alon e Gabi Ashkenatzi sono tre ex generali. Con la star tv Yair Lapid guidano il partito e la lista blu bianca. Avi Nissenkorn è un ex leader sindacale

Quel documento dovrebbe essere letto con molta attenzione dal generale che potrebbe essere chiamato a guidare Israele dopo le elezioni del 2 marzo: Benny Gantz. Ma un “governo dei generali” – ve ne sono tre nella ristretta leadership di Kahol Lavan (Blu Bianco), il partito dell’ex capo di Stato maggiore delle Idf (le Forze di difesa israeliane, anche dette Tsahal) – non significa, in Israele, varare un governo di destra. Perché di destra, solo per fare alcuni esempi, non erano Moshe Dayan o Yitzhak Rabin. E come formazione non lo è neanche Gantz, anche se nella conduzione della campagna elettorale sta cadendo nella trappola di Netanyahu, che generale non lo è mai stato. A due settimane dal voto, Benny Gantz rompe con la Joint List, la Lista araba unita, terza forza alla Knesset (tredici seggi) che i più recenti sondaggi danno in crescita.

Le considerazioni del leader di Kahol Lavan rappresentano uno schiaffo in faccia agli israeliani democratici – ebrei e arabi – che desiderano un cambiamento nella direzione politica di Israele,

scrive Haaretz in un commento in prima pagina.

Durante l’inaugurazione della sede del suo partito per le le donne arabe a Kafr Bana, Gantz ha dichiarato che la Joint List non può far parte di alcun governo che formerà:

Vi sono profondi disaccordi tra me e la lista riguardo alle questioni diplomatiche, nazionali e di sicurezza. I miei disaccordi con la sua leadership sono seri e incolmabili.

È molto probabile che rifiutando una partnership con gli arabi, Gantz abbia sbattuto la porta sulla possibilità di formare un governo che avrebbe sostituito il regime di Netanyahu,

annota l’editoriale di Haaretz.

Benny Gantz con Donald Trump nello studio ovale, lo scorso 27 gennaio

Kahol Lavan – sottolinea il giornale progressista di Tel Aviv – fu formato come alternativa al governo di destra del primo ministro Benjamin Netanyahu, ma ora, con poche differenze ma alcune sfumature di stile, non è chiaro perché il partito di Gantz debba essere preferito rispetto al regime attuale. È vero che Gantz non è stato accusato di corruzione, ma un’alternativa politica deve presentare un programma politico alternativo, non solo essere una versione economica e pallida di ciò che è già in atto.

Dopo le ultime elezioni, ricorda ancora Haaretz, Odeh ha fatto un passo coraggioso convincendo la maggior parte dei parlamentari della Joint List (dieci su tredici) a indicare al presidente Reuven Rivlin Gantz come premier incaricato. Odeh ha anche presentato un’agenda sociale volta a migliorare la qualità della vita dei cittadini arabi israeliani.

Gantz e Odeh potrebbero determinare quel radicale cambiamento di cui Israele ha bisogno tanto quanto gli israeliani hanno bisogno di aria per respirare.

Cooperando, potrebbero offrire un modo per curare le ferite che anni di governo violento, razzista e infiammatorio di Netanyahu hanno inflitto alla società israeliana. Ma inclinandosi verso destra, Kahol Lavan ha scelto di lasciare in sospeso la mano tesa degli arabi,

conclude Haaretz.

Una posizione, quella di Gantz, che rischia di creare un fossato incolmabile tra il leader di Blu Bianco e la sinistra israeliana, oltre che con i partiti arabi israeliani riuniti nella Joint List.

Amir Peretz

Dal leader dei laburisti, Amir Peretz, è arrivato lo stop a qualsiasi ipotesi di passo unilaterale:

Determineremo il nostro destino tramite negoziati diretti con l’Autorità palestinese che si concluderanno con un accordo che metterà in sicurezza uno Stato ebraico e democratico all’interno di confini sicuri per le generazioni future.

Ayman Odeh con un gruppo di studenti universitari a Tel Aviv

La corsa all’annessione della Valle del Giordano e delle colonie è in ogni caso fuori discussione per un governo ad interim, ha aggiunto Peretz, puntando il dito contro la mancanza di legittimità. Raggiungiamo telefonicamente Ayman Odeh, il leader della Joint List, la Lista araba unita, che recenti sondaggi danno in crescita nel voto del 2 marzo (dagli attuali tredici seggi a quattrodici-quindici, confermandosi terza forza alla Knesset):

Gantz commette un grave errore nel rincorrere Netanyahu sul suo terreno. Forse così pensa di accreditarsi presso la Casa Bianca, di certo provoca una frattura nel campo democratico e progressista israeliano. Su questo punto voglio essere molto chiaro: la Joint List non appoggerà mai un governo che abbia nel suo programma la realizzazione del Piano Trump, anche se di quel governo non dovesse far parte Benjamin Netanyahu. Quel piano, insisto, è unilaterale, pericoloso e rischia di alimentare una nuova escalation di violenze. Ma forse è proprio questo l’obiettivo di Netanyahu e dei suoi sostenitori americani: stravolgere l’agenda politica israeliana, riproponendo l’emergenza sicurezza come assoluta priorità. Gantz è caduto in questa trappola. Noi non lo seguiremo. Non è proseguendo sulla strada della colonizzazione dei Territori palestinesi occupati che Israele potrà raggiungere una pace giusta e duratura con i palestinesi. Una pace fondata sulla soluzione a due Stati. L’alternativa è istituzionalizzare il regime di apartheid nei Territori, ma questo darebbe un colpo mortale alle residue speranze di pace. Noi vogliamo vivere in un luogo pacifico basato sulla fine dell’occupazione, sulla creazione di uno Stato palestinese accanto allo Stato d’Israele, sulla vera uguaglianza, a livello civile e nazionale, sulla giustizia sociale e sicuramente sulla democrazia per tutti.

“Trump ha dichiarato la Terza Nakba”, rilancia Gideon Levy, icona del giornalismo radical israeliano.

Con la Valle del Giordano e la maggior parte delle colonie della Cisgiordania sotto la sovranità israeliana, i Palestinesi hanno la garanzia che non avranno mai né uno Stato, né un mezzo Stato, un governo cittadino o un quartiere. Null’altro che una colonia penale [scrive su Haaretz Levy]. Con l’annessione della Valle del Giordano e della maggior parte delle colonie, Donald Trump rende ufficiale la creazione di uno stato d’apartheid che sarà conosciuto come lo Stato di Israele. Ciò che Herzl iniziò a Basilea, Trump l’ha completato a Washington. D’ora in poi sarà impossibile lasciare che la comunità internazionale, soprattutto quella presuntuosa che s’autodefinisce ricercatrice del bene, continui a ciarlare della soluzione dei due Stati. Non esiste una cosa del genere. Non c’è mai stata. Non ci sarà mai. Se la comunità internazionale, e con essa l’Autorità Palestinese, sperano di risolvere il problema palestinese, hanno una sola strada da percorrere: l’instaurazione di una democrazia dal Mar Mediterraneo al fiume Giordano. Non resta nient’altro. 

Prosegue Levy:

Ma le notizie che vengono da Trump e la capitolazione del mondo di fronte ad esse sono ancor più funeste. Trump sta creando non solo un nuovo Israele, ma un nuovo mondo. Un mondo senza diritto internazionale, senza rispetto per le risoluzioni internazionali, senza neanche una parvenza di giustizia. Un mondo in cui il genero del Presidente degli Stati Uniti è più potente dell’Assemblea generale dell’ONU. Se le colonie sono permesse, qualsiasi cosa è permessa. Quel che è stato conquistato con la forza militare bruta potrà essere liberato solo con la forza. Nel mondo di Trump e della destra israeliana, non c’è posto per i deboli. Essi non hanno diritti. Da ora in poi, o ci sarà un individuo e un voto – il singolo voto di Trump (e di Benjamin Netanyahu) – o il voto uguale di ogni individuo che vive in Israele-Palestina. Europei, Palestinesi e Israeliani: è arrivato il momento di scegliere tra i due scenari.

Ora il fronte di centro-sinistra si scopre diviso e rischia così di consegnarsi alla destra. Un regalo a Benjamin Netanyahu, e al suo mentore della Casa Bianca. 

Solo i generali possono fermare Bibi ultima modifica: 2020-02-18T19:59:34+01:00 da UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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