Come si vive a un metro di distanza? Come si fa a organizzare un ufficio, un’amministrazione, un partito o una squadra di calcio in regime droplet, ossia a distanza di sicurezza dal possibile contagio? Come si governa un paese senza riunirsi? Sono domande che stanno già scavando, in profondità, la nostra società. Si aboliscono gli eventi sportivi, si sospendono convegni, si cancellano riunioni, si riducono incontri. Ma come si organizzano le decisioni?
La formula che sta prevalendo è oggi quella della call. Facciamo una call, vediamoci in video conferenza. Ma come? Le piattaforme di videoconferenza circolare sono incredibilmente meno numerose ed efficaci di quello che si potrebbe pensare. Anni fa ne nacquero parecchie, ma più o meno sono cadute tutte in disuso, come la stessa pompatissima Google Hangouts. Il format che andava per la maggiore era il webinar, più o meno un formato online di e-learning, dove di fatto il flusso è prevalentemente unidirezionale, da uno a tanti. Al massimo sono previste chat laterali per domande o richiami.

Ma il punto è un altro: come si organizzano le forme di coinvolgimento e consultazione nei vertici degli apparati? Per consuetudine, sappiamo che le decisioni più sono importanti e più vengono prese in ambiti ristretti, a distanza molto confidenziale. Nei ministeri, nelle aziende, nelle associazioni, negli ospedali: si parla viso a viso per decidere, per trasmettere informazioni sensibili. E ora? Si fa una call? Ma non è la stessa cosa. Nulla di quanto si direbbe in una stanza attorno a una scrivania verrebbe detto in una call. E non tanto per proteggere segreti o inconfessabili determinazioni, quanto per ritualità tradizionali. Non si affida a una mediazione incontrollabile quello che si vuole dire all’orecchio del proprio interlocutore.
Dunque, che accade? Se si dovesse prolungare questa moratoria degli incontri e si dovessero pianificare procedure deliberative in regime droplet, cosa si intuisce che potrebbe accadere?
Al momento sembra sia in corso una specie di ri-intimité. I francesi definiscono extimité quella specie di narcisismo espositivo che porta ognuno di noi a esibire le proprie azioni, anche le meno pubbliche e raccomandabili, pur di produrre attenzione. Ora si sta verificando un processo inverso: dal pubblico, anche comunitario, si sta riconvertendo ogni procedura in termini strettamente privatistici, se non addirittura personali. Il titolare della decisione sceglie uno o due interlocutori con cui condividerla e procedere gradualmente a estendere non la partecipazione ma la semplice informazione, chiedendo il tuo consenso plebiscitario: sì o no. A distanza. Resta inteso che se sollevi obiezioni ti devi far carico di chiedere o promuovere un incontro allargato con tutte le controindicazioni droplet.

Si sta costruendo una sorte di procedura piramidale, dove con un interlocutore alla volta si avvia la catena di Sant’Antonio che, in progressione geometrica, allargherà l’informazione sulla decisione, riducendo ogni reale spazio di contraddittorio. In un contesto che già da tempo aveva reso sempre più insopportabili le canoniche ritualità politiche, dove ristretti vertici rendevano condivise decisioni pre-pianificate nella ridotta cerchia ristretta del capo, si potrà ora trasparentemente procedere, senza mistificazioni, in questa direzione. Le videoconferenze saranno niente altro che vere e proprie trasmissioni tv in broadcasting, da pochi a tanti, dove solo traumatiche contrapposizioni potranno rimettere in gioco le proposte iniziali. Il tempo di permanenza in una stanza, ancora di più in una sala più ampia, sarà percepito come un pericolo, come un rischio: la semplificazione diventa una misura di sicurezza.
Nelle redazioni di giornali e tv si diraderanno le mitologiche riunioni della giornata, lo stesso sta accadendo al vertice di imprese e aziende di servizi, come gli stessi ospedali o le ASL, o ancora i sindacati che hanno azzerato tutte gli eventi nazionali, sono migliaia, e infine appunto i vertici di regioni, città e partiti che stanno trasferendo le loro relazioni via telefono o computer, producendo un’inconsapevole intimité della politica.
La democrazia può vivere a porte chiuse, come le partite di calcio , dove basta l’arbitro a far giocare le due squadre?
Siamo per altro alla vigilia di una stagione elettorale. Come si farà la campagna? Si tornerà a uno smilzo e pittoresco porta a porta o si darà campo libero alle diverse macchine tipo Cambridge Analytica che non hanno mai smesso di scannerizzare l’opinione degli elettori?

Il coronavirus sta riprogrammando la macchina tecnosociale più di un malware, riverticalizzando le relazioni, gerarchizzando gli apparati, rendendo ancora più esclusive e riservate le decisioni. Sarà necessario vaccinarsi anche da questa influenza. In poche settimane si rischia di ritrovarci in un mondo per pochi e ogni sbornia social potrebbe ribaltarsi nel suo contrario.
Bisdogna mettere mano alle capacità e alle esperienze per dare una risposta democratica a domande che non possiamo ignorare. Come si decide in sicurezza al tempo del contagio? È la stessa domanda che si posero anni fa a Milano e a Napoli i primi pionieri delle reti civiche, di quei sistemi di networking territoriali che promossero la partecipazione di migliaia e migliaia di cittadini sui problemi comunitari. Eravamo attorno al 2010/2012, fu la grande stagione delle primavere arabe, o degli indignados spagnoli, e di occupy wall street, diciamo le sardine globali. Poi anche in Italia venero gli arancioni, con Pisapia a Milano e l’abbaglio di De Magistris a Napoli. Quel filo si disperse e vennero poi le reazioni della pancia più brutalmente reazionaria che portarono, mediante esplicite violenze digitali che sconvolsero i processi democratici in molti paesi, al rigonfiarsi del sovranismo e del trumpismo.
Oggi il pendolo potrebbe andare ancora più in là. Forse sarebbe il caso che qualche regola di sicurezza fosse forzata per mettere in campo almeno l’avvertenza che abbiamo inteso la minaccia e che bisogna avere la forza per ribaltare i processi. A Milano con un assemblea della CGIL sul piano regolatore della connettività e della democrazia, con l’apertura di scuole e università, che andrebbero usate come luoghi di mobilitazione delle risorse intellettuali sull’emergenza del virus invece di chiuderle e disperdere tutto. Non basta solo guarire, dobbiamo riprendere a vivere.

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