Taglio dei parlamentari. Le ragioni del “No”

Questa riforma è vecchia, non utile e nemmeno innocua. Si sfrutta la diffusa volontà di colpire i privilegi dei politici per mettere in crisi la democrazia rappresentativa. Il problema da risolvere dovrebbe essere invece l’abolizione del bicameralismo perfetto. Di cui c’è assoluta necessità, se vogliamo far funzionare le nostre istituzioni.
ADRIANA VIGNERI
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L’iniziativa legislativa del Movimento cinque stelle nasce sulla scia del contenimento/soppressione della rappresentanza politica – di cui quella parlamentare è la più rilevante – in favore della democrazia diretta, propugnata dal Movimento e dai suoi ideologi a cominciare da Gianroberto Casaleggio. Il sostegno dell’opinione pubblica a questo tipo di proposte ha fondamento nel discredito della classe politica, a partire da Mani pulite (1993), per seguire con il discredito della “casta” (Stella e Rizzo, 2007), fino a Tridico presidente dell’Inps, che si sente in dovere di diffondere la notizia – perché, per quale scopo? – che tre parlamentari hanno chiesto e ricevuto il bonus di 600, poi 1000 euro, pur avendo una ricca indennità mensile. A maggior gloria dell’antipolitica. Certo, queste cose è bene saperle, ma la domanda resta.

Se quello è il fondamento dell’iniziativa legislativa costituzionale del M5s, giustificata con un irrisorio risparmio di spesa (il costo di un caffè all’anno – abolendo del tutto il parlamento si risparmia anche di più), neanche per un minuto i proponenti si sono chiesti, in termini di politica delle istituzioni costituzionali, di quanto si sarebbe potuto diminuire il numero dei parlamentari, per poter assicurare il buon funzionamento delle camere rappresentative, con quali riflessi su altre procedure e strutture costituzionali. I nuovi numeri di deputati e senatori, 400 e 200 sono rotondi, di fronte al grande pubblico si presentano bene. 

Ancor meno quei promotori si sono premurati di dar seguito agli impegni presi con gli altri componenti della maggioranza, per correggere gli effetti e limitare i danni. Si ricorderà che il Pd aveva cercato di inserire il taglio dei parlamentari in un patto per “un più ampio disegno di riforma e rafforzamento delle istituzioni democratiche” – di cui in questo momento resta a malapena un vago ricordo. Tra i contenuti del patto, diceva Gianni Cuperlo,

[…] l’impegno per una nuova legge elettorale a tutela di interi territori altrimenti orfani di una propria rappresentanza e a garanzia che un parlamento ridotto nelle dimensioni non finisse con l’essere nominato da un gruppo di capi corrente e partito.

Quell’accordo, in cui si prevedeva l’equiparazione dell’elettorato attivo tra camera e senato, la riduzione del numero dei “grandi elettori” regionali per il presidente della repubblica, la revisione del sistema elettorale e dei quorum nei regolamenti parlamentari, è stato il pannicello caldo con cui il Pd (e gli altri partiti della sinistra) si sono acconciati a votare a favore nell’ultimo voto, il quarto (le modifiche costituzionali debbono essere votate due volte), avendo votato contro nei tre voti precedenti.

Perché lo ha fatto? Perché si era convinto, aveva cambiato idea? No, per una ragione completamente diversa, che nulla aveva a che fare con il fatto in sé della riforma costituzionale. Per riuscire a evitare il voto e costruire un governo con il M5s, convinti che il Movimento avrebbe preferito andare al voto se avesse perduto la possibilità di concludere la sua principale riforma.

Nessuno può sapere se le cose sarebbero andate effettivamente così, se il Pd si fosse rifiutato di votare la riduzione dei parlamentari. Quello di cui quasi tutti sono convinti è che se si fosse votato avrebbe vinto la Lega di Matteo Salvini, allora sugli scudi, e la destra intera, con una maggioranza – grazie alla legge elettorale prevalentemente maggioritaria – che avrebbe consentito di modificare la costituzione senza ulteriori appoggi. I voti a favore sono stati 553, i contrari 14 (quasi tutti del gruppo misto) e 2 astenuti. Sull’onda dell’approvazione ormai certa nessuno ha voluto comparire come quello che si dissociava da una posizione così “popolare”.

Le ragioni che hanno mosso l’iniziativa sono dunque dal nostro punto di vista spregevoli (il taglio delle poltrone) e come vedremo pregiudizievoli. I voti a favore che si sono aggiunti si fondano su nobili ragioni, ma estranee alla “riforma” e agli equilibri dell’organo parlamentare.

Ci si può fermare qui? No, non si può pensare che la riduzione del numero dei parlamentari sia un male, un errore, un danno, perché proposta con la “filosofia” del M5s. Potrebbe essere ugualmente cosa buona e giusta. Esiste anche l’eterogenesi dei fini. Una manovra nata per colpire la rappresentanza, il parlamento, potrebbe risultare utile, anzi potrebbe dare più autorevolezza, così si dice, a quell’organo fondamentale che si voleva “punire” (perché di questo si tratta).

Quindi occorre approfondire il tema e analizzare se vi sono effetti positivi di questa riduzione.

Abbiamo troppi parlamentari?

Anzitutto, qual è il criterio per stabilire se i parlamentari sono troppi o troppo pochi? L’unico criterio possibile è il rapporto tra elettori e rappresentanti, dato che di questo si tratta, della rappresentanza. Criterio che peraltro non può avere un valore assoluto, dovendosi valutare anche l’articolazione geografico-istituzionale del singolo paese. Ad esempio l’articolazione in regioni o simili. E ancor più l’assetto costituzionale complessivo (se si tratta di uno stato federale o unitario).

Con tale criterio – rapporto tra parlamentari e popolazione – la nostra situazione era la seguente: gli stati europei più popolosi hanno un rapporto di un po’ più di uno su centomila abitanti. Noi di un po’ meno di uno su centomila abitanti.

Precisamente: Francia e Germania hanno un rapporto di 1/116.000; i Paesi Bassi di 1/114.000, il Regno Unito di 1/101.000. La sola Spagna svetta a 1/133.000 abitanti, noi di 1/96.000. Un po’ meno di 100.000 ma non troppo. Tutti gli altri paesi europei hanno rapporti molto più bassi. Con la riforma dovremmo avere 1 deputato ogni 151.000 elettori. Di gran lunga meno di tutti gli altri paesi più grandi. Non mi riferirò alle camere alte, il nostro senato, perché nella maggior parte degli altri stati europei sono camere elettive di secondo grado (come tentò di fare l’ultima riforma costituzionale votata in parlamento).

C’è una sola ragione per cui i parlamentari italiani potevano e possono essere considerati “troppi”: perché sono 630 in una camera e 315 nell’altra con le stesse identiche funzioni. Una delle due camere è oggi superflua. Una sola camera legislativa di 630 persone o poco meno, che legifera e dà e toglie la fiducia al governo andrebbe benissimo, sarebbe più semplice e più efficiente. Se avessimo una sola camera legislativa e dedicassimo il senato a funzioni diverse, nessuno potrebbe dire – comunque – che abbiamo troppi parlamentari. Lì sta il problema, e non sul numero in assoluto. 

Così come gli altri problemi, il peso del parlamento nei confronti del governo, l’abuso dei decreti legge, non dipendono certo dal numero dei parlamentari, ma da altri aspetti, a cominciare dal bicameralismo per finire con la fragilità dei governi, non essendoci né la sfiducia costruttiva della Germania, né un sistema elettorale che aiuti.

È vero che tutte le forze politiche hanno sostenuto in passato la proposta?

Secondo una persona intelligente e attenta come Claudio Cerasa direttore del Foglio vi sarebbe stata negli anni una battaglia (della sinistra) per ridurre il numero dei parlamentari, battaglia che ora si sarebbero intestati i Cinque stelle. Quindi il fronte del “No” starebbe regalando al populismo becero una battaglia che “non nasce affatto con la cultura populista”.

Cogliamo l’occasione per precisare che l’idea della diminuzione del numero di deputati e senatori nasce dalla constatazione che accanto al parlamento nazionale c’erano ormai i consigli regionali elettivi e il parlamento europeo, elettivo dal 1979.

È stato così che in anni ormai lontani si sono proposte riforme costituzionali in cui c’era anche, e mai in primo piano, una leggera riduzione del numero dei parlamentari. In quella riduzione non c’era nulla che lontanamente potesse considerarsi un attacco alla democrazia rappresentativa.

Ma, quello che più conta, nelle proposte costituzionali più recenti il tema è stato completamente abbandonato, essendo venuta in primo piano l’idea del monocameralismo (una sola camera che legifera e dà la fiducia al governo) e quella di consentire alle regioni di avere una loro rappresentanza al centro con una diversa seconda camera che collabora con la prima. 

Se ci s’informa, ci si accorge che si tratta di proposte in cui gli aspetti fondamentali di modifica erano altri, e la riduzione era modesta (proposta Violante XV legislatura, 512 deputati in luogo di 630; XIV legislatura, proposta Peterlini, 508 deputati e 250 senatori; nella proposta Violante il senato era elettivo di secondo grado). Nelle commissioni Bozzi e De Mita-Iotti (anni Ottanta) si discusse della possibile riduzione, un deputato ogni 110.000 abitanti, ma nulla compare nel testo finale.

La proposta Renzi, approvata dalle aule parlamentari ma respinta dal referendum, prevedeva un senato rappresentativo delle regioni con numeri molto più bassi (95 senatori) e lasciava inalterati i numeri della camera, chiamata a dare la fiducia al governo.

Dalla proposta Violante in poi l’obiettivo non è stato più quello di conservare le due camere diminuendo i numeri, bensì di dare alle due camere funzioni ben diverse.

Dunque non vi è nessun legame, nessuna continuità tra il lavoro compiuto nel tempo attraverso le proposte di modifica della costituzione e quello del M5s: introdurre la democrazia diretta deliberante, sorteggiare i senatori, diminuire gli eletti, i rappresentanti, perché privilegiati attaccati alle poltrone.

Non è la medesima “battaglia”. Non è la “nostra” battaglia.

Anche la passata proposta di Luciano Violante riduceva il numero dei parlamentari ma l’obiettivo era distinguere le funzioni della due camere.

Quali sono le preoccupanti conseguenze della riduzione?

Abbiamo visto sopra che non avevamo così tanti parlamentari e che era stata in passato proposta una modesta riduzione nell’ambito di riforme che avevano altri obiettivi essenziali. A questo punto si potrebbe obiettare: va bene, ma in fondo che importa se sono di meno, anche molti di meno? Dimostreremo ora che importa, e molto.

Una diminuzione così drastica del numero produce grosse difficoltà nel funzionamento – ad esempio – delle commissioni di camera e senato. Sono le commissioni specializzate per materia il luogo in cui si lavora, si formulano e si limano i testi, si costruiscono i consensi. In aula poi si portano per l’approvazione i risultati di tale lavoro che, ripeto, non si svolge nell’assemblea plenaria, cioè in aula. Le commissioni permanenti sono quattordici, cui si aggiungono le giunte e le commissioni speciali. Uno stesso senatore dovrà far parte di più commissioni senza potersi specializzare in nessuna materia e di fatto non potrà essere presente in tutte quelle in cui dovrebbe partecipare. I componenti di ciascuna commissione non potranno essere più di quattordici, il che in pratica vuol dire che ai lavori parteciperebbe un numero molto esiguo di persone. Così le commissioni non possono funzionare.

A questo si aggiunge la necessità di modificare altre parti della costituzione e di rivedere la legge elettorale che senza modifiche produrrebbe un parlamento costituito soltanto da poche forze politiche, chi supera il 15 per cento, 20 per cento dei voti.

La legislazione elettorale, già prevalentemente maggioritaria con l’attuale sistema dei prevalenti collegi uninominali, avrebbe un’ulteriore torsione maggioritaria, effetto ultroneo della modifica costituzionale. Nessuno infatti può sostenere che sia questo l’effetto consapevolmente perseguito, quindi da conservare se vinceranno i “Sì”. 

Tema delicato, questo. Se è vero quello che viene ora da molti sostenuto, a cominciare dal segretario del Pd Nicola Zingaretti, che senza una nuova legge elettorale con questi numeri la rappresentanza sarà stravolta; se è vero in altri termini che i nuovi numeri di camera e senato “costringono” ad una legge diversa, anzi ad una legge proporzionale, ci troveremmo in una situazione incostituzionale, dato che – come noto – la nostra costituzione non definisce il tipo di legge elettorale, lascia libero il legislatore di disporre di leggi proporzionali o maggioritarie, dei vari tipi possibili. Non senza aggiungere che una nuova diversa legge elettorale (che ora è impossibile approvare in tempo) non darebbe comunque nessuna garanzia, essendo sufficiente la maggioranza relativa per modificarla. Se così stanno le cose, il guasto che si produrrebbe votando “Sì” è irrimediabile. 

Spiace dirlo, ma l’argomento del mancato adeguamento della legge elettorale – problema come detto non risolvibile – mostra tutta la difficoltà della posizione del Pd, che pur essendo contrario ha votato a favore per ragioni rispettabilissime ma del tutto indipendenti dall’oggetto del voto e vede ora disattesi gli impegni che erano stati presi.

Sulla rappresentanza delle persone e dei territori, vi saranno regioni che avranno rappresentanti soltanto di maggioranza (no minoranze) e in collegi o circoscrizioni di 150.000 abitanti i candidati non riusciranno a farsi conoscere, e sarà sempre più facile che nelle posizioni elettoralmente migliori siano collocati coloro che sono graditi ai vertici di ciascun partito.

O ci sono regioni sotto-rappresentate (solo maggioranza), o ci sono parlamentari eletti con numeri di voti diversissimi da regione a regione.

Che cosa rispondere agli argomenti del “Sì”?

Molti sostenitori del “Sì” non conoscono l’argomento, sanno soltanto che i parlamentari sono dei privilegiati (mai quanto gli alti dirigenti della pubblica amministrazione), sono casta, e per questo meno ce n’è, meglio è. In queste persone l’argomento del taglio di spesa, anche modesto, funziona. Sono mossi dalla convinzione di colpire dei privilegiati, mentre danneggiano se stessi.

Altri sostenitori del “Sì” usano argomenti molto più raffinati. Non ci riferiamo a chi crede che se i “Sì” avessero successo poi cadrebbe il governo. Personalmente non ci credo (il Movimento resterebbe senza riforma, senza governo e con molti meno eletti), e comunque mi rifiuto di prendere in considerazione chi continua a fare scelte su di una riforma costituzionale in nome di questioni caduche come i governi. 

Ci riferiamo a coloro che difendono la democrazia rappresentativa – come noi – ma ritengono più utile, allo stesso scopo, votare “Sì” e quindi dare via libera a questo taglio dei parlamentari.

Il primo argomento che è stata sostenuto è che essendo meno numerosi, ciascuno di loro sarebbe più “autorevole”. Se così fosse, i senatori – che sono sempre stati la metà dei deputati – dovrebbero essere autorevolissimi, e così non è. Politicamente parlando semmai è vero il contrario, nel senso che il peso politico della camera è sempre stato maggiore. Il numero inferiore produce certo in senato delle conseguenze nelle prassi interne dell’attività politica e legislativa, ma l’autorevolezza non c’entra. 

L’autorevolezza degli eletti dipende assai più dal sistema elettorale e dai rapporti con il partito o movimento di provenienza, dall’insediamento locale e dalla sua storia personale. Non si nega che la singola persona che fa parte di un gruppo di venti conti individualmente meno di una che fa parte di un gruppo di dieci. Ma non si tratta di autorevolezza politica, dovendosi anche tener conto del fatto che chi decide le candidature ha molto più potere nella scelta e nei condizionamenti successivi, quanti meno sono gli interessati.

Il secondo argomento si sintetizza più o meno così: portiamoci a casa intanto la riduzione del numero, che volevamo anche noi, poi verrà il resto. 

Intanto, c’è riduzione e riduzione, se non si valuta il quantum vuol dire che si vuole la “riduzione in sé” e si entra nel campo della “punizione” della rappresentanza, come l’abbiamo chiamata. 400 deputati è diverso da 500, 520, come si ragionava in passato.

Abbiamo visto sopra che la mera riduzione del numero appartiene ad un periodo in cui non aveva ancora preso piede la convinzione che la seconda camera fosse da dedicare alla rappresentanza regionale, risolvendo due problemi contemporaneamente: rendere da un lato più efficiente la funzione legislativa e semplificato il voto di fiducia; dall’altro, consentire alle regioni, che hanno acquisito molto più peso dopo cinquant’anni di attività, di avere voce al centro.

E il “resto”, che dovrebbe arrivare dopo, in che cosa consentirebbe? Non c’è nessuna prospettiva che si apra. Non è per questo che c’è il rischio dell’immobilismo, della spirale conservatrice. La spirale conservatrice l’abbiamo già vista all’opera nel referendum contro la riforma del 2016. Sul dopo ora c’è il buio più fitto, eccezion fatta, sul versante grillino, per le leggi fatte dal popolo e i relativi conflitti con il parlamento. Come al solito è soltanto la buona politica che può riaprire il tavolo delle riforme di cui ha bisogno la nostra democrazia costituzionale, e per ora non se ne vede traccia. 

Il varo di questa – che mi ripugna chiamare riforma – sarebbe vissuto dall’opinione pubblica invece proprio come una grande riforma realizzata, all’assetto parlamentare non si porrebbe più mano chissà per quanto tempo. Mentre quello che serve è il superamento dell’attuale bicameralismo perfetto, con conseguente necessità di ri-modificare i numeri della Camera.

Ultima osservazione: la riforma non sarebbe preoccupante perché “chirurgica”, modifica soltanto il numero dei parlamentari. Troppo piccola per fare danni. Non ci sono cambiamenti “chirurgici” che non abbiano ripercussioni sul resto del corpo costituzionale.

In sintesi: questa riforma grillina (ma chi sa se Grillo oggi è d’accordo) è sbagliata nei numeri, se fossero stati recuperati i numeri degli anni Ottanta sarebbe stato già diverso, ma ugualmente inutile da un punto di vista riformista. Ma soprattutto è vecchia, assume un tema ampiamente superato dall’altro, l’abolizione del bicameralismo, di cui c’è assoluta necessità, se vogliamo far funzionare le nostre istituzioni costituzionali.

Resta il tema della qualità dei nostri parlamentari, che ci porta ai partiti e ai sistemi elettorali, ma è un discorso che non si può fare qui.

Per tirare le somme, questo taglio drastico dei parlamentari non è né utile, né innocuo. La battaglia che il M5s ha vinto quando il Pd e gli altri hanno deciso di votare a favore è quella contro la rappresentanza parlamentare e la casta. L’operazione è consistita nello sfruttare la diffusa volontà di colpire i privilegi dei politici per mettere in crisi la democrazia rappresentativa. Che questo sia stato il disegno non è dubbio, non ci si deve far ingannare dal fatto che ora il Movimento appare più confuso, meno combattivo, meno determinato. Basta guardare Luigi Di Maio, e tutte le tessere tornano al loro posto.

Non siamo di fronte ad una proposta in sé giusta sostenuta dalle persone sbagliate. È una proposta che non vede quello che alle persone in buona fede è evidente: due camere che fanno le stesse cose non servono più, il problema dei parlamentari per singola camera non c’è più. Va sostituito il bicameralismo perfetto con una sola camera e – se ci si crede – con la rappresentanza regionale. Certo, occorre che si prenda in mano con decisione, questa bandiera.

Taglio dei parlamentari. Le ragioni del “No” ultima modifica: 2020-08-20T14:35:10+02:00 da ADRIANA VIGNERI
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