Macron d’Egitto

La criticata visita di al-Sisi in Francia ha reso evidente il tentativo del paese d’Oltralpe di partecipare sempre più attivamente alle vicende mediorientali, in funzione anti-turca. Nel frattempo però deve affrontare una crisi d’identità nazionale attorno all’islam. E il principio della laicità “estrema” repubblicana sembra inizi a porre più problemi di quanto pensasse di risolverne.
MARCO MICHIELI
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[PARIGI]

Lunedì 7 dicembre Emmanuel Macron ha accolto in pompa magna il presidente egiziano. Parata militare, visita alla tomba del milite ignoto all’Arco di Trionfo, posa della prima pietra della Maison de l’Egypte alla Cité internationale universitaire, la visita all’incubatore di start-up Station F e poi l’incontro con ministri, politici e la sindaca di Parigi. Spesso a distanza dai giornalisti, per ragioni sanitarie si dice. Il maresciallo al-Sisi è stato anche insignito della Gran croce della Legione d’onore, una cerimonia che lo accomuna ad altri capi di stato stranieri (tra questi Bashar al-Assad nel 2001 e Vladimir Putin nel 2006). Ma le modalità con cui è stata assegnata l’onorificenza ha aggiunto benzina sul fuoco. La cerimonia, infatti, non faceva parte dell’agenda ufficiale del presidente fornita alla stampa francese. Le immagini sono state poi rese pubbliche dal’Egitto e dai media egiziani.

La visita del presidente sessantaseienne, che ha preso il potere in Egitto con un colpo di stato nel 2013, quando ha scalzato il presidente democraticamente eletto Mohamed Morsi, esponente dei Fratelli musulmani, ha suscitato moltissime critiche. Molte organizzazioni per i diritti umani hanno ricordato alla Francia che il governo egiziano detiene circa 60.000 prigionieri politici e avevano invitato Macron a non rafforzare i legami commerciali, economici e soprattutto militari con il regime egiziano, senza garanzie sul rispetto per i diritti umani nel paese.

Tuttavia, come ha fatto subito capire Macron nella conferenza stampa a due con il presidente egiziano, la cooperazione economica e militare “non sarà condizionata a disaccordi” sui diritti umani perché “è più efficace una politica di dialogo che una politica di boicottaggio che potrebbe ridurre la capacità dei nostri partner nella lotta contro il terrorismo e per la stabilità della regione”. La Fédération internationale pour les droits humains ha risposto che si tratta di “un errore strategico perché oggi al-Sisi organizza una repressione d’un ampiezza mai vista nell’Egitto moderno”. “La repressione del governo egiziano”, ha dichiarato l’ong, “sta creando le condizioni per un ritorno del terrorismo”.

Egitto e Francia, dall’ascesa al potere del maresciallo al-Sisi, hanno una relazione sempre più stretta, sia in termini di cooperazione economica e commerciale sia in campo militare. Secondo Human Rights Watch nel 2017 con 1,4 miliardi di euro di vendite militari all’Egitto, la Francia ha superato gli Stati Uniti nella vendita di armi al paese. Anche recentemente il governo francese ha intrapreso delle negoziazioni per la vendita di Rafale e di navi da guerra al governo egiziano, negoziazioni rallentate però dalle dichiarazioni di Macron in difesa delle caricature di Maometto, ripubblicate da Charlie Hebdo in occasione dell’apertura del processo contro gli attentatori alla sede del giornale nel gennaio 2015.

Complici il disimpegno americano nella regione e il ritorno della Russia alla politica di potenza nell’area, negli ultimi anni la Francia ha dimostrato una rinnovata ambizione nel Medio Oriente e nel Nord Africa. In particolare la Francia ha trovato nell’Egitto di al-Sisi un comune interesse alla “stabilità”. E un comune avversario: il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan. 

Il presidente egiziano al-Sisi riceve la Gran croce della Legione d’onore

Il confronto con Erdoğan

La scarsa considerazione per il rispetto dei diritti umani in Egitto dipende infatti proprio da questioni di sicurezza nazionale francese. E dal sostegno egiziano a Parigi nel confronto con il presidente turco. Interessi che coincidono al momento con quelli del Cairo. Soprattutto in Libia e Libano dove i due presidenti hanno dichiarato di avere moltissimi punti di convergenza.

In Libia entrambi infatti sostengono il maresciallo Khalifa Haftar. Più apertamente l’Egitto, meno la Francia e con qualche incidente di percorso. Non si tratta però soltanto di interessi economici, che pure ovviamente ci sono. Dopo la caduta di Gheddafi nel 2011 (in seguito all’intervento militare di Stati Uniti, Francia e Regno Unito), la Libia è divisa in due: da una parte il governo di unità nazionale di Tripoli, riconosciuto da Turchia, Qatar, Italia e Nazioni unite; dall’altra il governo del maresciallo Khalifa Haftar con sede a Tobruk, sostenuto da Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Russia, Giordania e Francia. La guerra tra i due governi ha continuato a fasi alterne – e con l’ingresso di un terzo attore a Sirte, l’Isis – fino agli accordi di novembre del 2019 quando la Turchia ha firmato un’intesa militare con il governo di Tripoli.

Secondo quest’intesa il governo turco avrebbe portato aiuto militare all’alleato libico, come è poi avvenuto con l’invio di forze militari turche (accompagnate da alleati siriani islamisti, impegnati con i turchi nel nord della Siria). Una presenza militare poco gradita all’Egitto molto sospettoso dell’approccio “neo-ottomano” del presidente turco, supportato da un’ideologia affine al quella dei nemici di al-Sisi, i Fratelli musulmani. L’accordo tra governo di Tripoli e Turchia prevedeva anche la possibilità per la Turchia di far valere i propri diritti su vaste zone del Mediterraneo orientale ricche di petrolio e gas, a danno di Grecia, Cipro, Israele e, ovviamente Egitto. 

Proprio a partire da quest’ultimo accordo sono salite le tensioni tra Francia e Turchia, con un’escalation quando lo scorso giugno una fregata francese, in prossimità delle coste libiche, dove si trovava per mettere in atto l’embargo Nato – di cui la Turchia fa parte – sulle armi alla Libia, ha tentato di bloccare una nave da trasporto turca, che era tuttavia scortata da navi militari. La situazione è poi peggiorata nei giorni successivi quando Macron ha deciso d’inviare navi militari francesi nel Mediterraneo orientale per contrastare la presenza di navi militari turche, manovre seguite poi dalla vendita di aerei alla Grecia. 

Non si tratta di tensioni nuove quelle nel Mediterraneo orientale rispetto al potenziale energetico. Tutti i paesi della regione hanno cercato di esercitare un controllo maggiore sull’area, scontrandosi con vecchie rivalità e problemi: lo scontro la Turchia e Grecia, le divisioni cipriote, l’esplosiva situazione libanese, la Siria di Assad e poi della guerra civile, i contrati tra Israele, Libano e Siria, le ambizioni dell’Egitto. Negli ultimi anni si è inserita direttamente anche la Russia che attraverso le proprie basi nel Mediterraneo esercita essa stessa un’influenza notevole. 

La Turchia però con il suo attivismo militare e gli accordi con la Libia si è spinta molto più in là, suscitando le preoccupazioni dei vicini. In risposta infatti a questo accordo turco-libico, il 2 gennaio 2020 Grecia, Cipro e Israele hanno deciso di istituire il “gasdotto East-Med”, un progetto in esame dal 2013 sotto l’egida della Commissione europea e con l’obiettivo di stabilire un oleodotto che serva direttamente l’Unione Europea attraverso l’Italia e passando da Israele, Cipro e Grecia, senza dipendere da Turchia, Cipro del Nord o Libia. Si tratta di un’infrastruttura di 1.872 chilometri con un costo stimato tra i 5 e i 7 miliardi di euro, che dovrebbe consentire la realizzazione di un hub del gas mediterraneo a partire dal 2025. In particolare si propone di trasportare tra i 9 e gli 11 miliardi di metri cubi all’anno di gas naturale da Israele e Cipro alla Grecia, per poi aderire ai progetti di gasdotti Poseidon (interconnessione tra Grecia e Italia) e IGB (interconnessione tra Grecia e Bulgaria).

La Turchia ha praticamente ignorato l’accordo e ha avviato le prime esplorazioni nelle acque territoriali cipriote inviando lì la sua nave di perforazione Yavyz il 19 gennaio 2020, pochi giorni dopo l’inaugurazione, alla presenza di Erdoğan e Putin, di Turkstream, il gasdotto gestito da Gazprom e Botas.

Ma l’azione della Turchia è stata anche una simbolica risposta all’adesione qualche giorno prima della Francia all’EastMed Gas Forum. Per la Francia infatti la libertà di navigazione e l’approvigionamento energetico rappresentano un interesse strategico riaffermato più volte, anche in relazione al canale di Suez e al Mar Rosso. E l’EastMed Gas Forum sembrava essere il percorso obbloigato per tutelare gli interessi della République. Si tratta infatti di un’organizzazione internazionale con sede al Cairo il cui obiettivo è la creazione di un mercato integrato regionale del gas. Ma è soprattutto il tentativo dell’Egitto di contrastare la Turchia, in alleanza con Israele – che è membro dell’organizzazione e che ha siglato nel 2018 un accordo con l’Egitto per il riavvio del gasdotto che collega Arish e Ashkelon -, Cipro – che ha siglato con Il Cairo un accordo che prevede la costruzione di un gasdotto che collega il giacimento di gas cipriota Afrodite all’Egitto -, e poi Grecia, Giordania, Palestina e Italia. Gli Stati Uniti vi partecipano come osservatori.

Militari turchi in Libia

La Francia nel caos mediorientale

Il fatto che la Turchia abbia saputo ritagliarsi una capacità di manovra molto ampia è dipeso dall’abilità di Erdoğan di giocare sulle contraddizioni tra Stati Uniti, che non vogliono vedere un loro alleato aderire al gruppo di paesi che mettono in discussione l’ordine internazionale occidentale, e la Russia, con cui la Turchia si è accordata per gestire i conflitti nell’area. Il tentativo di Francia e Egitto di sostituirsi ai grandi assenti – gli Stati Uniti – per fronteggiare le minacce al “caotico” ma rodato ordine mediorientale si estende infatti anche ad altri paesi dell’area. Nel confronto tra Macron e al-Sisi, il Libano ha rappresentato un altro punto di contatto tra i due paesi.

Qui infatti, con il progressivo ritiro dalla vita politica libanese dell’Arabia Saudita, i turchi sono diventati i principali sostenitori della comunità sunnita, cercando di ampliare la propria sfera d’influenza sul paese dei cedri.

Per ragioni storiche e culturali, dall’esplosione al porto di Beirut del 4 agosto, la Francia è stata attivamente coinvolta nella sponsorizzazione di una soluzione politica in un Libano sull’orlo del collasso. A differenza del passato però, quando il sostegno di Parigi era tradizionalmente rivolto alle élite cristiane maronite del paese, Macron si è impegnato personalmente per sostenere la formazione di un governo di missione nel paese rivolto a tutte le comunità (con molti silenzi su Hezbollah). Per la Francia lo scopo è infatti evitare una destabilizzazione che metterebbe a rischio gli interessi e la sicurezza francese. I francesi sono i principali contributori della missione Unifil, all’interno della quale il loro contingente costituisce l’ossatura della Force Command Reserve.

Ma non è solo il Libano. La Francia ha ampi interessi nel Medio Oriente, dove ha accordi di difesa con gli Emirati Arabi Uniti (2012), che ospitano una base militare francese a Abu Dhabi; con il Kuwait (2009); e con il Qatar, dal 1994. Il Qatar, un alleato della Turchia in Libia, è anche un partner strategico della Francia, dove il fondo sovrano qatarino è proprietario della squadra di calcio Paris Saint-Germain e detiene quote di molte aziende francesi tra le quali Lagardère (dodici per cento), Total (quattro per cento), EADS (sei per cento), Technip, Air Liquide, Vinci SA (cinque per cento), GDF Suez, Veolia (cinque per cento), Vivendi, Royal Monceau, France Telecom e Areva.

Nel tentativo di bloccare l’espansionismo turco, Macron si è anche recato a Baghdad quest’estate. Qui il presidente francese ha espresso il proprio sostegno all’Iraq e alla sua piena sovranità sul suo territorio, una dichiarazione che gli iracheni hanno interpretato come una critica alle incursioni turche all’interno dell’Iraq.

L’Egitto e la lotta contro il terrorismo

Se a spingere alla cooperazione Francia e Egitto sono interessi economici e strategici fondamentali, non sono tuttavia le uniche ragioni. L’Egitto condivide infatti una lunga frontiera con la Libia, attraverso la quale il governo del Cairo teme l’arrivo di jihadisti che potrebbe destabilizzare il paese. Il sostegno egiziano a Haftar è in primo luogo il tentativo di arginare un potenziale fattore d’instabilità interno in un paese che è passato rapidamente dalla piazza Tahrir alla presidenza dei Fratelli musulmani e al ritorno dei militari al potere. Esiste inoltre una competizione con gli alleati sauditi e degli Emirati Arabi, dai cui finanziamenti l’Egitto dipende, soprattutto ora con la crisi del Covid-19: una competizione che riguarda il primato del mondo musulmano nell’area, per un paese, l’Egitto, che storicamente e culturalmente ha sempre rappresentato la guida e che oggi arranca dietro l’attivismo degli “alleati” della penisola arabica, non così “diplomatici” come il Cairo.

Proprio sulla questione del terrorismo, la Francia vede l’Egitto come un baluardo contro i militanti islamisti nella penisola del Sinai e in Libia. E la repressione delle autorità egiziane contro i Fratelli musulmani è vista dal governo francese come un esempio di fermezza. Che il governo egiziano poi utilizzi le meglio larghe della lotta al terrorismo per arrestare migliaia di oppositori sembra essere per Parigi il prezzo da pagare per contare su un alleato importante nella lotta contro il terrorismo islamista, che ha colpito più volte la Francia in questi dieci anni. E che è stata una delle ragioni dell’attivismo militare del decennio del paese d’Oltralpe.

Non solo la République ha infatti partecipato alla coalizione per contrastare l’avanzata dell’Isis in Iraq nel 2014 con l’operazione Chammal. La Francia ha poi esteso le operazioni militari alla Siria partecipando in misura minore ma attiva alla coalizione per contrastare l’Isis.

La Francia è soprattutto impegnata in maniera attiva nell’estesa regione del Sahel, dove dal 2013 – presidenza di François Hollande – è alla testa di un intervento militare nel Mali contro l’avanzata delle milizie touareg islamiste che sfruttano i confini porosi tra i paesi dell’area. Negli anni successivi l’operazione Serval è poi estesa a tutta la regione del Sahel e oggi prende il nome di operazione Barkhane. Un intervento militare che la Francia intraprende con il beneplacito degli Stati Uniti di Barack Obama – che forniscono supporto di intelligence e droni -, di altri paesi europei (Regno Unito, Spagna, Danimarca, Estonia, Repubblica Ceca) e soprattutto di Algeria, Marocco e del cosiddetto G5 del Sahel: Ciad, Mauritania, Burkina Faso, Niger e lo stesso governo del Mali.

Da sette anni quasi cinquemila militari francesi combattono su questo vasto territorio che un tempo fu colonia francese e che la République vuole difendere per mantenere propri interessi politici – attraverso un accordo di cooperazione con il paese dagli anni Sessanta -, economici – l’accesso alle materie prime, come l’uranio, nella regione – e di sicurezza nazionale, in una lotta contro il terrorismo islamico che ha posto la Francia tra i principali obiettivi. È un intervento che nasce anche nel tentativo degli stati vicini della regione, in primis Mali e Niger, di contrastare le ambizioni dell’Algeria nella regione.

Emmanuel Macron in visita a Beirut subito dopo le esplosioni del 4 agosto

Il contrasto sulla libertà di espressione

Egitto e Francia sono accomunati dal continuo sovrapporsi della questioni interne a quelle esterne. Se l’Egitto teme per la propria stabilità interna e agisce all’esterno per proteggerla, anche la Francia agisce su questi due livelli. E i due presidenti l’hanno dimostrato in un inatteso disaccordo sulle questioni legate alle caricature di Maometto e più in generale alla libertà di espressione.

La Francia è infatti oggetto di una campagna di boicottaggio dei propri prodotti, con lo slogan “Non toccare il Profeta”, da parte dei paesi musulmani. Un’iniziativa di Erdogan allo scopo di ergersi come il baluardo dell’islamismo politico e contrastare il boicottaggio sui prodotti turchi lanciato dall’Arabia Saudita.

Anche se l’Egitto ha espresso il proprio sostegno alla Francia, il presidente al-Sisi non ha mancato di esprimere le proprie critiche sulle caricature di Charlie Hebdo. Per il presidente egiziano infatti “è molto importante che, quando esprimiamo la nostra opinione, per il bene dei valori umani, non violiamo i valori religiosi” poiché “il rango dei valori religiosi è molto più alto dei valori umani, sono valori sacri e al di sopra di tutti gli altri”.

Macron ha risposto che la Francia “non considera i valori umani superiori a qualsiasi altro”: “questa” ha aggiunto “è l’eredità dell’Illuminismo e dell’universalismo dei diritti umani”. Il presidente francese ha anche ricordato che in Francia la blasfemia non è un reato e che “quando c’è una caricatura, questo non è il messaggio della Francia nei confronti della vostra religione e del mondo musulmano, ma la libera espressione di qualcuno che, attraverso la blasfemia, esprime una provocazione”. Macron ha poi sottolineato che “non è la legge dell’Islam che si applica in Francia, ma la legge del popolo che è sovrano e che si è dato quelle leggi”: “non le cambierò per voi“ si è rivolto al giornalista egiziano che aveva sollevato il tema delle mancate scuse francesi sulle polemiche caricature.

Le tensioni con l’islam francese

La difesa della laicità e della libertà di espressione sono diventati particolarmente importanti in questi ultimi tempi in Francia. In particolare il rapporto tra islam francese e la République sta diventando sempre più centrale nelle lotta politica quotidiana, in vista delle elezioni del 2022. Quando si parla di islam, si deve ricordare che i fedeli musulmani sono circa cinque milioni in Francia, circa l’otto per cento della popolazione. La maggioranza di essi è nata in Francia e tra questi circa tre quarti di essi sono cittadini francesi.

Dopo l’assassinio del professore di storia e geografia delle medie, Samuel Paty e l’attentato nella cattedrale di Notre-Dame a Nizza, la destra e l’estrema destra hanno parlato di “atti di guerra che si realizzano sulla base di un’ideologia”. Macron aveva detto che bisognava “invertire la situazione: devono essere gli islamisti a non poter dormire tranquillamente nel nostro paese”. Il ministro dell’interno Gerard Darmanin aveva sciolto l’ong BarakaCity, la prima di una lista di cinquanta associazioni che il governo considera “pericolose”. Nel decreto di scioglimento, BarakaCity è definita come l’antenna turca sul territorio francese. Diretta da Mehmet Uzun, un cittadino francese di origine turca, si tratta di un’associazione che secondo il ministero predicava il salafismo e invitava gli aderenti al jihad in Siria e in Iraq, dove opera con la protezione del governo di Erdogan. Il ministro dell’interno Gerard Darmanin ha poi dichiarato a Europe 1 di voler sciogliere il Collectif con­tre l’islamophobie en France (CCIF), l’associazione che dal 2003 aiuta da un punto di vista legale tutti coloro che ritengono di essere vittime di discriminazioni anti-islamiche. L’associazione però secondo molti politici e osservatori avrebbe prestato supporto alla campagna di denigrazione lanciata dal padre di uno degli alunni di Paty.

Ma soprattutto è atteso il progetto di legge che “rinforza la laicità e i principi repubblicani”, meglio conosciuta come legge contro il separatismo. Emmanuel Macron aveva parlato della lotta al separatismo per la prima volta nell’ottobre 2019. Riprendendo una formula che era già stata utilizzata in un appello pubblicato da Le Figaro nel 2019 e firmato da cento personalità del mondo della cultura, tra le quali Alain Finkielkraut, Luc Ferry e Bernard Kouchner, Macron aveva dichiarato che:

In alcuni luoghi della nostra Repubblica c’è una forma di separatismo che ha preso piede, vale a dire la volontà di non vivere insieme, di non non essere più nella Repubblica, e di farlo in nome di una religione, l’Islam, di cui si fuorvia il messaggio

Una dichiarazione che non nasceva dal nulla. Qualche giorno prima infatti il capogruppo del Rassembelment National al consiglio regionale della Borgogna-Franca Contea aveva aggredito uno dei genitori che accompagnavano un gruppo di studenti in visita all’istituzione regionale, intimandole di togliersi il velo. Il ministro dell’istruzione, Jean-Michel Blanquer, aveva reagito con una dichiarazione nella quale indicava che la legge sui simboli religiosi del 2004 (presidente era Jacques Chirac) non impedisce alle donne velate di accompagnare i bambini, poiché si tratta di una disposizione che si applica agli studenti all’interno della scuola. Ma, aveva poi aggiunto, lo stato non può incoraggiare questo “fenomeno”. Les Républicains avevano quindi colto l’occasione per presentare un progetto di legge che proibisce di portare il velo durante le gite scolastiche mentre Marine Le Pen aveva invitato a proibire il velo e ogni simbolo religioso da qualsiasi “spazio pubblico”. Nei giorni successivi un sondaggio Ifop pubblicato dal Journal du Dimanche indicava che i francesi erano molto inquieti rispetto all’islam e che tre francesi su quattro auspicavano una misura che proibisse i simboli religiosi ai genitori che accompagnano i figli in gita scolastica.

Anche se la maggioranza presidenziale aveva nei giorni successivi evitato di ritornare sulla vicenda del velo, Emmanuel Macron aveva pensato di deviare la discussione verso il “comunitarismo” e il “separatismo” religioso e culturale, un terreno meno difficile rispetto alla problematica gestione della questione del velo e delle emozioni che essa suscita nel dibattito politico. Il governo aveva quindi cominciato a prendere in considerazione un intervento legislativo che facesse della lotta al comunitarismo e della difesa della laicità un cavallo di battaglia in vista delle elezioni municipali che si sarebbero tenute in marzo e che molti partiti di destra e di sinistra lentavano essere caratterizzate da molte liste di stampo “comunitario”.

Macron ne ha poi definito i contorni ad inizio ottobre di quest’anno in un discorso a Mureaux, una banlieue “sensibile” di Parigi. Nel concreto sono previste misure volte a lottare contro “l’influenza straniera”, organizzare meglio il culto musulmano in Francia e lottare con determinazione contro ogni manifestazione di separatismo islamista. In particolare dovrebbe essere rafforzato il potere dei prefetti nel controllo dei finanziamenti esteri delle associazioni che organizzano il culto e consacrazione parità tra uomini e donne in tutti gli atti della vita sociale. Dovrebbero essere prese misure per metter fine al reclutamento di imam stranieri. Secondo Le Parisien, un provvedimento potrebbe anche obbligare le associazioni sovvenzionate a firmare una “carta dei valori repubblicani”, che condizionerà il mantenimento degli aiuti. Potrebbe essere inclusa anche la fine del reclutamento di imam stranieri, uno degli aspetti più controversi perché è attraverso questi imam che molti paesi del mondo musulmano esercitano la loro influenza sulla comunità islamica francese. E fra questi vi è sempre più la Turchia.

Il ministro degli interni Gerard Darmanin

L’influenza “straniera” sulla comunità musulmana

In Francia i due movimenti musulmani internazionali più influenti sono il wahhabismo e i Fratelli musulmani. Il primo è arrivato in Francia all’inizio degli anni Ottanta con l’acquisto di diverse proprietà a Mantes-la-Jolie attraverso la Lega Araba e la monarchia saudita, dove ha poi finanziato diverse moschee nel corso degli anni Novanta e fino agli anni Duemila. La sezione francese dei Fratelli musulmani è invece stata fondata in Francia nel 1983 con la creazione dell‘Unione delle Organizzazioni Islamiche in Francia (Uoif ), che diventerà i Musulmani di Francia nel 2016. Nell’Uoif Marocco e Tunisia esercitano moltissima influenza.

Le monarchie del Golfo si concentrano sul finanziamento del wahhabismo attraverso moschee, centri culturali e sul pagamento degli stipendi degli imam. L’ambasciatore dell’Arabia Saudita in Francia ha dichiarato nel 2016 che avrebbe contribuito a finanziare otto moschee francesi, per un costo di circa 3,8 milioni di euro. Ha anche detto che avrebbe contribuito a pagare gli stipendi di 14 imam nelle moschee francesi. Il Qatar, attraverso le sue fondazioni come la Qatar Charity, finanzia moschee, associazioni e scuole.

I Fratelli Musulmani invece hanno iniziato con un carattere più sociale, pulendo e riparando edifici nei quartieri popolari degli immigrati, ma hanno gradualmente creato un progetto politico in cui, senza mettere in discussione la laicità francese, si tutelano gli interessi dei musulmani in Francia. Attualmente, circa 50.000 musulmani sono membri delle organizzazioni dei Fratelli Musulmani che controllano duecento associazioni, 147 luoghi di culto e 18 scuole.

Accanto alle associazioni vi è l’influenza diretta dei governi del Maghreb e della Turchia sui musulmani francesi. Per quanto riguarda il primo, per evidenti legami storici, Algeria e Marocco hanno entrambe una lunga tradizione di finanziamento di luoghi di culto e moschee, centri di formazione di imam e organizzazioni musulmane. Dei 290 imam stranieri in Francia, finanziati direttamente dal paese di origine, 120 sono stati inviati dall’Algeria e trenta dal Marocco. Inoltre, in base all’accordo bilaterale con questi due paesi, trecento imam vengono in Francia ogni anno per il Ramadan, principalmente dal Marocco e dall’Algeria.

Quanto alla Turchia, l’ingerenza del governo Erdogan negli affari dei musulmani francesi provoca tensioni permanenti tra i due paesi. L’influenza dei turchi in Francia proviene dall’organizzazione islamica Millî Görü formata dalla diaspora turca in Germania all’inizio degli anni Settanta. Dei 290 imam stranieri in Francia, 140 vengono dalla Turchia.

La visita di al-Sisi non è solo geopolitica. La Francia non sta tutelando solo i propri interessi strategici economici e commerciali. Come d’altra parte non la stanno facendo l’Egitto e la Turchia. Il paese d’Oltralpe infatti cerca di partecipare alla gestione delle sfide all’ordine regionale, non avendone i mezzi, mentre affronta una crisi d’identità nazionale attorno all’islam. Un confronto che non è nuovo ma che è aumentato con la crescita elettorale del lepenismo e dei fedeli musulamni nel paese. Dove il principio della laicità “estrema” repubblicana sembra inizi a porre più problemi di quanto pensasse di risolverne.

Macron d’Egitto ultima modifica: 2020-12-15T21:38:29+01:00 da MARCO MICHIELI
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