Se il Pd fosse una comunità sociale o territoriale come si vaccinerebbe? Con quale organizzazione, priorità e partecipazione? Potrebbe aiutare non poco il nuovo vertice del partito che si sta insediando ragionare su questa metafora per comprendere l’intima realtà di quell’apparato politico. Per avere indicazioni preziose, Enrico Letta dovrebbe dare una rapida scorsa agli albi di Tex Willer prima di aggirarsi pensoso attorno alla terapia intensiva in cui è ricoverato il Pd.
Potrebbe cogliere qualche utile indicazioni sia sulle reali cause di uno stato d’immunodepressione in cui versa il partito, che lo rende vulnerabile a ogni, anche minima e velleitaria, aggressione da parte di virus con o senza corona, e sia sulla sua identità e forza di legame sociale.
Proprio i Navajo, la tribù del celebre Aquila della notte, in queste settimane stanno mostrando come il radicamento sociale e le relazioni comunitarie siano, anche nel caso del contrasto alla pandemia, il vero farmaco vincente.
Se la pandemia è innanzitutto una sindemia, come scrive il direttore di The Lancet Richard Horton, ossia una delle conseguenze delle distorsioni socio economiche che selezionano e separano le diverse aree sociali del mondo, diventa evidente come solo una fitta rete di legami e rapporti diretti, che sorregga la vivibilità comunitaria, possa mitigare gli effetti del flagello.

Dopo aver subito, con percentuali più alte della media nazionale, l’attacco del virus, le comunità dei nativi americani hanno reagito attivandosi massicciamente nella campagna di vaccinazione.
Lo rivela un rapporto pubblicato dall’Urban Indian Health Institute di Seattle, che documenta come oltre il 75 per cento degli insediamenti delle popolazioni originarie dai pellerossa si siano già vaccinati con un’efficientissima organizzazione locale.
Stiamo parlando di regioni solitamente disagiate dal punto di vista delle infrastrutture sanitarie, dove non funzionano nemmeno i telefonini, perché le grandi compagnie telefoniche ritengono non conveniente attivare il segnale cellulare.
Eppure proprio in queste aree le reti sociali, il senso di comunità – spiegano i ricercatori dell’Indian Health Institute di Seattle – hanno spinto decine di migliaia di nativi a farsi vaccinare, attivando catene umane, mediante il tradizionale passaparola, che hanno funzionato straordinariamente.

I nativi americani sono stati vittime di un’implacabile guerra di conquista che li ha emarginati, e si sono rifugiati nella propria identità, cercando di trovarvi un modello sociale di sussistenza. In larga parte questo comunitarismo passivo ha prodotto frustrazione e marginalità, ma ha salvaguardato legami e radicamento territoriale, che nelle fasi emergenziali producono una coriacea resistenza di gruppo.
Se, come spiega Paolo Giordano nel suo testo Nel Contagio (Einaudi), la pandemia è innanzitutto una distorsione delle nostre relazioni sociali, allora per sconfiggere la malattia dobbiamo capire come rammagliare queste relazioni slabbrate e separate dal contagio, per ridare consistenza e identità alla risposta immunitaria. La vaccinazione è innanzitutto questo: un concentrato di idea sociale di relazioni, una lente d’ingrandimento che rende ineludibile valori e priorità con cui si organizza una comunità. Non si somministrano a milioni e milioni di persone farmaci salvavita, in un tempo obbligatoriamente limitato, senza avere una bussola, condivisa e trasparente, circa le modalità e le priorità di questa azione di selezione sociale.

I Navajo hanno dato una risposta, mettendo in campo una millenaria idea di organizzazione sociale, basata su priorità anagrafiche e funzionali, dove la gerarchia del gruppo è l’effetto di un riconoscimento dell’utilità di gestire la sicurezza di singoli per assicurarla a tutti. I testimoni raccontano di interi villaggi che si mettono in fila seguendo un ordine naturale, con gli anziani e i capi in testa e via via le figure più attive e infine i piccoli con le mamme. È una società che parla e afferma il proprio senso etico.
Ma soprattutto questi comportamenti ci testimoniano di quanto sia ancora vitale e decisiva la permanenza di una reticolarità sociale sul territorio, dove si vive in un sistema relazionale che esprime permanentemente una rappresentanza di bisogni e ambizioni che trovano corrispondenza con le decisioni dei vertici.
È la conferma che la rete, traducendo in una concatenazione digitale questi rapporti primordiali, in realtà non sia altro che una conseguenza, una risposta, e non un’intrusiva intromissione coercitiva, alla domanda sociale di connessione e di protagonismo. La rete apre un varco a queste forme di sussidiarietà comunicativa che la verticalità del fordismo aveva escluso, reso un retaggio del passato, considerato inefficienti e superate.
Proprio in questi giorni è caduto l’anniversario – il 12 marzo del 1989 – della pubblicazione della prima pagina ipertestuale del world wide web, da parte di Tim Berners-Lee, nel Cern di Ginevra, che ha aperto la strada all’alluvione dei social. Un atto di straordinaria civiltà, occorre ancora ribadirlo a chi lo considera pura routine oggi, in cui senza pretendere o prevedere alcun vantaggio economico personale si trasformò l’intero sistema produttivo e relazionale dando un nuovo linguaggio agli istinti umani. Una ricorrenza che ci porta a riflettere su cosa sia mutato nella nostra vita, in quale direzione e sotto la spinta di quali bisogni.

Al di là delle deformazioni e strumentalizzazioni, la cartografia sociale che oggi abbiamo sotto gli occhi vede accorciarsi ogni distanza fra centro e periferia, con un accesso ai nodi decisionali molto più praticabile da parte di molte più persone. Ma dietro questa nuova antropologia digitale, scorgiamo la più naturale delle ambizioni umane: creare comunità. È questo il legame che congiunge la nostra specie a Gaia, al sistema planetario degli esseri viventi: l’istinto comunitario.
Sono le reti sociali che danno forma alle istituzioni, e non viceversa. Reti sociali che si adeguano e “formattano” in base alle condizioni materiali di vita, in funzione delle modalità di produzione e di scambio delle risorse. Riuscendo persino a far sopravvivere intere popolazioni contro il vento della modernità, come accade appunto ai nativi americani.
Questa è la lezione che il nuovo segretario del Pd dovrebbe rielaborare. Senza relazioni sociali e rappresentanza di interessi territoriali si muore, sia fisicamente che politicamente.
Senza avere attorno un sistema in grado di esprimersi attraverso il partito, di entrare e trasferire in esso le proprie necessità di persona e di gruppo, ogni organizzazione politica avvizzisce, si accartoccia attorno ai comitati elettorali che riescono a occupare il campo.
Questo Pd, questa macchina politica che federa gli eletti e non fa parlare gli elettori, non saprebbe nemmeno come vaccinarsi, in quale ordine, con quale capacità di persuasione e convinzione. Non avrebbe una propria idea di ordine terapeutico.
“Attenti ai rapporti di produzione”, ammoniva Bertold Brecht ai suoi compagni della sinistra agonizzante tedesca della fine degli anni Venti, in cui ci si lacerava per il predominio ideologico.
Attenti ai conflitti sociali, come quelli dei rider di Amazon o dei giornalisti e medici automatizzati dalle piattaforme; attenti a quanto accade in quella infrastruttura pubblica che è Google, dove vengono licenziate nel silenzio generale le dirigenti perché in dissenso sull’etica degli algoritmi; attenti a parlare alle nuove dinamiche delle città dove centro e periferia si stanno scambiando di posto; attenti ai milioni di giovani che entrano in mercati del lavoro paralleli con la pretesa di successo più che di reddito; attenti a quei lavoratori che nonostante le minacce per il lavoro privilegiano sicurezza e ambiente; attenti insomma a capire che società si vuole e non solo che circolare si pretende.
I Navajo sono finiti in una riserva perché non hanno saputo rielaborare le innovazioni tecnologiche, diventando nicchia della propria memoria. Il Pd potrebbe risolversi in una riserva perché non ha voluto rischiare ruoli e funzioni dei propri gruppi dirigenti interpretando la nuova normale e diffusa pretesa di scambiare partecipazione con decisione di ogni singolo individuo. E per questo virus non c’è nessun vaccino che possa mitigare il contagio.

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