Eric Zemmour, il candidato di estrema destra alle prossime elezioni presidenziali francesi, che sta già raggiungendo il 16 per cento o il 16,5 per cento nei sondaggi, è quindi alla pari con Marine Le Pen, secondo le ultime stime, è in costante aumento, e potrebbe, secondo le ultime proiezioni, essere al secondo turno contro Emmanuel Macron (25 per cento), ne è un nuovo esempio: le nostre democrazie sono malate di linguaggio. Quello delle parole e quello delle immagini.
Con la sua esperienza di giornalista e polemista di successo, Zemmour eccelle nell’uso improprio di concetti o di immagini rabbiose, insidiose falsificazioni storiche o affermate perentoriamente come un nuovo romanzo nazionale. Il suo recente tentativo di riabilitare Pétain con un colpo a effetto di abilità tribunizia è l’esempio più evidente, la manipolazione, per così dire, delle menti degli elettori desiderosi di nuove verità.
La semiologa Cécile Alduy, docente a Stanford (California) e ricercatrice associata a Sciences Po (Parigi), lo ha appena dimostrato magistralmente in un breve libro di sessanta pagine intitolato La langue de Zemmour (Éditions du Seuil), analizzato da Le Monde, in cui denuncia lo stravolgimento delle parole e della storia nei libri del candidato populista. Il suo obiettivo è quello di “cortocircuitare il pensiero”, di normalizzare l’immagine di Hitler, ad esempio, per acclimatarla, di accreditare “la guerra civile che sta arrivando”, di svuotare il significato di parole come “totalitarismo”, applicate a qualsiasi corrente di pensiero che rifiuta, di svalutare concetti come “valori repubblicani”, “diritti umani” o anche “Shoah”, insomma, di instillare “nel cuore del linguaggio logiche distruttive, di senso e di persone”. Dopo aver letto questo libro, si esce con la convinzione che la scienza del linguaggio dica molto di più sulla politica di molti dei discorsi dei nostri politici.
Herbert Kickl, l’attuale leader del partito austriaco di estrema destra Fpö, segue lo stesso percorso. Distilla surrettiziamente elementi di linguaggio risalenti alla logomachia nazista in ognuno dei suoi discorsi, il che non è sorprendente per un partito che è stato fondato da ex membri delle SS del Nsdap. Anche se l’uso di questo vocabolario connotativo è severamente regolato in Austria, e regolarmente denunciato da scrittori e intellettuali, Kickl eccelle nell’essere al limite della legalità. Uno studio sistematico di semiotica sarebbe benvenuto anche qui. Ma data la loro risonanza nella società austriaca, queste manipolazioni semantiche sono comunque spaventosamente efficaci. Goebbels, maestro della retorica tronca, dell’inversione dei concetti e delle immagini scioccanti, e creatore dell’inversione tra carnefice e vittima, che da allora è stata ampiamente utilizzata da molti tribuni degli estremi, aveva già dimostrato che la manipolazione del linguaggio è una grande arma politica.
Dai vari concili della cristianità, dove si scontrarono iconoclasti e iconofili, agli eufemismi del vocabolario nazista, come “trattamento speciale” per le camere a gas e lo sterminio, il linguaggio, quello delle parole e delle immagini, non ha infatti mai smesso di essere messo in discussione o usato come strumento. Giustamente quando si è trattato di esplorare filologicamente o poeticamente il linguaggio, perversamente quando il linguaggio diventa uno strumento di potere. La filosofia e la letteratura dell’inizio del Ventesimo secolo, in particolare, hanno messo in discussione la credibilità del linguaggio o hanno sottolineato la sua relatività rispetto al parlante. Come Hugo von Hoffmanstahl in The Letter from Lord Chandos (1902), considerato come un riferimento nella critica linguistica a cavallo del secolo scorso, o soprattutto Ludwig Wittgenstein che aveva teorizzato questo tremore del significato nel suo famoso Tractatus. Paradossalmente, i populisti sembrano essersi buttati in questa breccia per usare il linguaggio a loro piacimento, falsificando e pervertendo sistematicamente il significato delle parole.

Un esempio recente e spaventoso è la parola “libertà”. Come se Montaigne, Diderot o Sartre non fossero mai esistiti, persone che si oppongono a qualsiasi misura sanitaria collettiva hanno manifestato in Francia in nome della libertà. In effetti, sarebbe più appropriato dire in nome della loro egoistica scelta di libertà, quando per mesi migliaia di malati gravi e cronici non hanno più potuto trovare posti letto nei reparti di terapia intensiva dei nostri ospedali, che erano sovraffollati fino al 90 per cento con i cosiddetti No-Vax. Un tipico esempio di cecità, questi cosiddetti ribelli che non lasciano spazio alla libertà degli altri, negando così il famoso contratto sociale basato su un equilibrio di libertà per tutti e – oh ignominia – gridando alla dittatura e osando marciare come prigionieri dei campi di concentramento, con la stella gialla in evidenza. Questo è stato il culmine della distruzione della parola e dell’immagine. E d’indecenza.
Il fatto che Kickl, che ha preso la guida dei No-Vax austriaci, abbia riunito i manifestanti sulla Heldenplatz di Vienna (100.000 all’inizio di dicembre, 40-50.000 ogni sabato successivo), mentre alcuni di loro indossavano la stella gialla con la scritta “Ungeimpft” (non vaccinati), nello stesso luogo dove i viennesi filotedeschi avevano applaudito l’Anschluss nel 1938 (questa memoria tormenta con forza la famiglia del professor Schuster, che si suicida a causa di questo ricordo in Heldenplatz, la commedia di Thomas Bernhard che fece scandalo nel 1988), e faccia proiettare il suo discorso su uno schermo gigante installato in direzione del balcone da cui Hitler aveva pronunciato la sua arringa, potrebbe sembrare solo aneddotico, anche se fortemente subliminale, ma partecipa di fatto agli stessi processi.

Sì, è qui che siamo. La confusione concettuale, l’eufemizzazione delle pagine più oscure della nostra storia, la corrosione della conoscenza, si sono consolidate nel nostro paesaggio. I falsificatori sono al lavoro, i fabbricanti di miti ingannevoli sono ovunque, e più seriamente, in tutti i media. Impossibile da contrastare o da convincere. Perché, come dice Cécile Alduy, che è costretta ad ammettere, “non si possono combattere i miti con gli archivi”.
Eichmann, esperto nella fabbricazione di menzogne e falsificazioni, che aveva frequentato il liceo di Linz, in Austria, dove erano emigrati i suoi genitori e dove aveva studiato lo stesso Hitler – aveva persino avuto, diciassette anni dopo Hitler, lo stesso insegnante di storia, un dettaglio sinistro o pittoresco – aveva anche saputo volgere a suo vantaggio i concetti filosofici più confermati. Per esempio, durante il suo processo a Gerusalemme, la sua lunga arringa finale era basata sull’imperativo categorico di Kant, giustificando così il suo dovere di obbedienza ai suoi superiori, che era al centro della sua strategia di difesa. Il povero Kant non avrebbe certamente mai immaginato che il suo concetto potesse essere usato per giustificare lo sterminio di sei milioni di ebrei. Hannah Arendt, nella sua conferenza del 1964 alla Yale Law School, diagnosticò Eichmann come un “collasso della coscienza”. La morale, la ragione e il pensiero sono stati eclissati, sostituiti da un altro meccanismo della mente – che però non dimentica di cercare sistematicamente di svuotare le vecchie parole del loro significato, proprio quelle della coscienza.
Anche Ludwig Wittgenstein aveva frequentato lo stesso liceo di Linz nello stesso periodo di Hitler. La storia non dice se si sono incontrati all’epoca, anche se entrambi sembrano essere riconoscibili nella stessa foto di classe del 1903. Ma che il maestro filosofo dell’interrogazione del linguaggio e il più grande dittatore e criminale di guerra della storia recente, e più tardi il suo fedele carnefice, entrambi torturatori non solo di milioni di vite ma anche del linguaggio, abbiano studiato nello stesso posto non è l’ultimo dei paradossi.

Nel suo ultimo spettacolo, Eichmann – dove inizia la notte, presentato in anteprima al Teatro Stabile di Bolzano e attualmente in tournée in Italia, l’autore Stefano Massini, già consigliere artistico del Piccolo Teatro di Milano, mette in un dialogo immaginario Eichmann e Hannah Arendt. Di fronte al colpevole di genocidio e alle sue bugie o affabulazioni, e a ciò che chiamava “la banalità del male” nel suo famoso saggio Eichmann a Gerusalemme, Arendt cerca di capire. Per capire come si possa essere o diventare Eichmann, come ci si possa arrivare. E come ci si possa logicamente ritrovare. Una domanda di grande attualità!
Può il teatro, esperto di parole e immagini, giocare un ruolo in questo gioco semantico di massacro, con effetti direttamente politici? Il lavoro di ricostruzione di parole, immagini e significato, merita pazienza e determinazione, come sappiamo. Il teatro, dalla sua comparsa nella società greca, da Sofocle, Euripide o Aristofane, e grazie alla sua lunga maturazione, è uno dei vettori di questa coscienza comune: era e rimane la fucina di un vocabolario comune, di un’iconografia condivisa. Non è certamente l’unico, ma in ogni caso uno dei suoi principali attori storici. Non è quindi in contrasto con questa missione di ricostruzione. Tuttavia, da diversi decenni, è stato anche sottoposto agli urti della “decostruzione”, ispirata da Derrida e, più alla lontana, da Heidegger, il “druido del nazismo” come lo ha chiamato ironicamente il filosofo Gilles Deleuze. Questo teatro decostruito, molto in voga in Germania negli anni Novanta, che cerca una verità diversa per le parole e le immagini rispetto a quella che si stabilisce di solito, ha partecipato allo zeitgeist e lo fa ancora, talvolta a suo danno, va detto. Speriamo che sia in grado di uscire da questa impasse, con la cosiddetta “decostruzione” che alla fine diventa un cliché obsoleto della produzione scenica, e di ricominciare a lavorare sulla costruzione di un linguaggio condivisibile dal corpo sociale. Per inciso, il teatro potrebbe così controbilanciare, al proprio livello microcosmico, il proliferare di Zemmour e di tutti gli intrecci perversi di parole e immagini, ora e in futuro. Un compito pesante!
La lingua, che materia ad alto potenziale esplosivo! E altrettanto potenzialmente unificante. In teatro come in politica. Senza tornare ai vecchi metodi del teatro documentario e alla didattica di un’altra epoca, sembra che oggi abbiamo urgente bisogno di una nuova poetica. E con l’aiuto dei semiologi. Anche se dobbiamo rielaborare le parole, rielaborare le immagini, senza dimenticare le loro cariche semantiche e storiche. Toccare la lingua non è vietato. Il dirottamento delle immagini, come la “Monna Lisa” di Duchamp e Picabia (con baffi e pizzetto, LHOOQ!), o delle parole, alla Breton o Tristan Tzara, aveva aperto ai loro tempi un gradito vento di liberazione. Pervertire il linguaggio per scopi politici è di un altro ordine. È una deriva totalitaria. La perversione delle immagini, come quella dei No-Vax, o la perversione delle parole, come quella di Zemmour, e altri propagatori di fake news o falsificatori della storia, stanno infatti aprendo oggi la strada, volontariamente o meno, a un nuovo collasso della coscienza. Una prospettiva oscura.



Traduzione di Marco Michieli

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