Un lungo racconto, un diario di politica, un saggio di costume, un romanzo d’amore, un vademecum per giovani giornalisti, ma soprattutto una vita: trentacinque anni di viaggi a raccontare il mondo. Enrico Franceschini con il suo libro Come girare il mondo gratis. Un giornalista con la valigia (Baldini + Castoldi) tira le somme della sua esperienza di vita e di lavoro che coincidono, assieme alla passione per questo mestiere, alla curiosità che lo deve caratterizzare, alla fortuna che male non fa a nessuno, a un’infinità di incontri e di relazioni. Andiamo “a vedere cosa succede” quindi, in una carriera per la quale è necessario trovarsi al posto giusto nel momento giusto, nel suo caso attraverso tre continenti, quattro Paesi, cinque città, venti case e tanti tanti traslochi.
Un mestiere voluto, iniziato da giovanissimo partendo all’avventura come solo negli anni Ottanta si poteva fare, verso quell’America che rappresentava veramente “l’America” per i ventenni di allora: e quale città se non New York doveva accogliere il giovane Enrico al di là dell’Oceano? Un bohémien del XX secolo tenacemente in cerca notizie, da inviare in Italia intuendo che magari proprio a Bologna (città d’origine) non giravano tante notizie sugli USA, se non quelle paludate dei grandi giornali strutturati con corrispondenti e apparato. Pochi soldi e poco cibo, ma il caffè sì, soprattutto se a servirlo al banco è un Bruce Willis ancora sconosciuto ma solidale con l’italiano errante, che fin da piccolo ama scrivere e della scrittura fa vita e mestiere.

Inviare pezzi a giornali italiani piccoli, con piccoli compensi, e poi la sfida che prende una discesa propizia, le telefonate di giornali sempre più importanti (L’Epresso e poi la Repubblica) che dall’Italia richiedono i suoi articoli, i contatti con colleghi che da anni vivono nella Grande Mela e sono mitici, i viaggi alla Kerouak nell’America profonda e le interviste a personaggi altrettanto mitici come Andy Warhol, il pezzo sull’assassinio di John Lennon a Central Park, “un mestiere da fare di corsa”, accompagnato dalla mitraglia dei guerriglieri golpisti del Sud America e della tastiera della macchina da scrivere.

In un andirivieni di corrispondenti famosi (Ennio Caretto, Vittorio Zucconi, Rodolfo Brancoli, Gianni Riotta, Lucia Annunziata) e di testate prestigiose a contenderseli (Corriere della Sera, Repubblica, L’Espresso, il manifesto, il Messaggero), come sempre accade quando sembra oramai di conoscere tutto e tutti e come un topo nel formaggio si dominano situazioni, ambiente, società e quant’altro, si deve partire per un altro continente, un altro clima, altri colleghi, un altro amore… Certo anche quello è importante nella vita di chi viaggia.
“Scarso traffico, luci fioche, pochi negozi e neanche un cartellone pubblicitario”, e un odore inconfondibile per chi ha viaggiato negli ex Paesi dell’est sovietico, cavoli e salamoia… Benvenuto a Mosca, direbbe una nonna “hai voluto la bicicletta, ora pedala”, dopo il luccichio e la ricchezza esasperata di New York il silenzio è qui di casa, assieme al grande fascino della Piazza Rossa e del Cremlino: “la Casa Bianca al confronto è una casetta”. Un anno prima della caduta del muro di Berlino essere corrispondenti da Mosca è una di quelle fortune che marcano una vita e una carriera: Franceschini racconta magistralmente clima meteorologico e sociale, cordone di amici e colleghi, speranze e illusioni di un popolo in un Paese sterminato. Gorbaciov e il golpe che lo destituisce, Eltsin e il nuovo incerto corso, colleghi solidariamente uniti in casa di Paolo Valentino, amico corrispondente del Corriere della Sera, a passare serate tra orgoglio e nostalgia, anche se dopo un nuovo amore e un figlio la valigia è da riempire di nuovo, e questa volta per Israele.

Dopo sette anni di gelo moscovita, il Mediterraneo solare di Tel Aviv accoglie il nostro Autore, che rimpiazza un bravissimo collega come Alberto Stabile. “Una Nazione di militari e religiosi, di guerrieri contadini e di ultraortodossi in palandrana nera” che vivono in una terra bellissima tra mare, montagne e deserti, con Gerusalemme al centro di irrisolte contese internazionali, dove “la vita è sempre vissuta nell’incertezza del futuro” secondo le parole del saggio autista Shlomo che lo guida in una Tel Aviv “laica, libertaria, sensuale e irrequieta”, in contrasto con Gerusalemme, densa di spiritualità e di tragedie, dove la religione pesa, che sia ebraica, cristiana, musulmana, in un eterno contrasto tra ebrei stessi, laici o ortodossi, cristiani cattolici, protestanti, copti, armeni… Il filo della storia si srotola come i Testi Sacri e Franceschini descrive le speranze e le illusioni degli accordi di Camp David tra israeliani e palestinesi, fino a quell’11 settembre solco infernale e cambio tragico di passo, con il seguito di Afghanistan, Iraq, Iran, Siria…

Altra valigia, altro trasloco verso l’europea Londra degli anni pre-Brexit, con un incontro ravvicinato con Elisabetta e Filippo, in un rutilante mondo anglosassone estremamente sfaccettato, multilingue e multietnico. Mentre il mondo cambia repentinamente l’Autore intervista Bruce Springsteen, Julio Iglesias, Renzo Piano, Usain Bolt e cambiano anche i primi ministri che varcano la soglia di Downing Street, Brown, Cameron, May, Johnson, Tuss, e si prepara e consuma la clamorosa Brexit, vissuta da Franceschini come “tradimento”.
Intanto la rivoluzione digitale avanza a passo di carica, già da tempo al ticchettio della macchina da scrivere si è sostituito il sofisticato e leggero tic toc del computer, in un lampo l’articolo compare davanti agli occhi, non serve più cancellare gli errori di battuta anche sotto la famigerata carta carbone, non serve passare ore al telefono dettando i pezzi con voce monotona.
I giornali cambiano di proprietà, i direttori (Eugenio Scalfari in primis) si alternano in giri di valzer che diventano frenetici. Come i tempi che viviamo, e che Franceschini, tra Bologna e il Mondo, non finisce di raccontare.

Immagine di copertina: “‘Vittorio Zucconi si mette alle mie spalle e migliora i miei pezzi in diretta: via quell’aggettivo, lascia perdere gli avverbi‘‘’ – nel 1988 mi trasferisco da New York a Washington e nell’ufficio di Repubblica prendo lezioni quotidiane dal grande Zuc, come ribattezzo il mio capo. C’è anche questo nel mio libro”. [dall’account Fb di Enrico Franceschini] “



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