Autonomie obsolete, serve un modello più federale o più unitario 

Intervista a Sergio del Molino su migrazione interna, Spagna vuota, richiamo nazionalista e populista, democrazia nel paese iberico e nel nostro.
MARIA ANTONIETTA COLIMBERTI TULLIO AMBROSONE
Sergio del Molino
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Nei giorni 30 e 31 marzo si è svolto presso il Campidoglio di Roma il XIX Foro di Dialogo Italia-Spagna, incentrato su cooperazione europea, PNRR ed energia, organizzato da AREL, CEOE e SBEES. Il numero 2/2023 di Arel pubblica gli atti del Foro, introdotti da questa intervista a Sergio del Molino, per la cui pubblicazione ringraziamo Arel.

Giornalista e scrittore, Sergio del Molino deve principalmente la sua notorietà, anche in Italia, al libro La Spagna vuota (uscito nel 2016, da noi per Sellerio nel 2019), una sorta di affresco letterario e culturale, che diventa politico e sociale, e che scava nel profondo la storia del Paese cercando le ragioni e le fratture del presente. L’autore fa più volte riferimento anche all’«Italia vuota», tracciandone analogie e differenze con la sua terra.
Ne abbiamo parlato in questa conversazione a tutto campo nella quale del Molino non si sottrae alle domande più attuali e più politiche, che investono anche i recenti risultati elettorali e la forma di Stato della Spagna, con risposte esaustive, laiche e non ideologiche. 

Per cominciare partiamo dal concetto alla base del suo libro più famoso, La Spagna vuota. Lei scrive: «La Spagna vuota non è un territorio né un paese, è uno stato mentale». Le chiediamo di introdurre questo concetto.
La Spagna vuota è un concetto letterario, non è un termine che indica qualcosa di preciso, ma ha una funzione evocatrice, è un concetto aperto che può includere diversi significati. Nel mio libro, La Spagna vuota, parlo di due dimensioni in particolare. Una è reale, geografica, demografica, si individua su una mappa, è composta da territori e dai suoi abitanti, e rappresenta quella che si può definire la Spagna interna. Una Spagna con una densità di popolazione storicamente molto bassa, con una cultura tradizionalmente contadina e che in qualche modo è stata lasciata indietro dalla Spagna urbana ed è stata vittima di diversi esodi rurali, che si sono verificati non solo in terra iberica ma anche in altri Paesi europei. Questi processi, in Spagna in particolare, hanno portato allo spopolamento di una parte molto ampia del Paese contribuendo a creare una Spagna vuota, con una densità di popolazione bassissima, quasi desertica se si considera che in alcune zone ci sono circa 10 abitanti per chilometro quadrato. Quindi la prima dimensione è fisica e reale, si può osservare e visitare, e costituisce anche un fattore politico nel Paese, perché è fonte di disuguaglianze e di conflitto sociale. Poi c’è un’altra Spagna vuota molto più difficile da definire, che avete menzionato nella vostra domanda, «non un territorio né un paese, ma uno stato mentale». La Spagna vuota è dunque anche un insieme di mitologie che sono emerse da pregiudizi rurali che si sono sedimentati nelle grandi città spagnole quando masse di contadini emigrarono in pochissimi anni – stiamo parlando di un periodo di 15 anni più o meno dal ‘59 al ‘75 – una vera rivoluzione demografica. I protagonisti di questo esodo basavano la loro identità sul senso di appartenenza e sul rapporto con i loro luoghi d’origine. Una relazione molto intensa, importantissima per milioni di spagnoli, ma anche molto complessa, un insieme di identità, ricordi, mitologie. È quindi una dimensione che ha un grande peso nell’immaginario collettivo, nella cultura e nella società spagnola, che pone la memoria contadina al centro della discussione culturale, intellettuale e anche politica in Spagna. La seconda dimensione della Spagna vuota ha dunque a che vedere con la memoria sentimentale di un passato contadino che non c’è più, ma che persiste in una forma viva nelle famiglie che furono protagoniste di questo grande esodo. 

Nell’introduzione all’edizione italiana di La Spagna vuota lei scrive che «un’Italia vuota esiste, soprattutto al Sud». Effettivamente, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta si è verificata un’emigrazione massiccia dal Meridione verso il Nord (Lombardia in primis). Spagna e Italia sono due Paesi molto simili, ma allo stesso tempo diversi. Quali punti in comune lei vede e quali differenze?
Punti in comune ce ne sono sicuramente, e un esempio importante viene dal mondo della cinematografia. C’è un film che cito nel mio libro che si chiama Surcos di José Antonio Nieves Conde. La leggenda cinematografica dice che ispirò Luchino Visconti nell’elaborazione del film Rocco e i suoi fratelli. La storia è quasi la stessa, una famiglia che migra da una zona rurale a una grande città, nel caso del film italiano Milano, in quello spagnolo Madrid. Grandi città che distruggono i protagonisti, distruggono la loro purezza e innocenza contadina. C’è poi anche Accattone di Pier Paolo Pasolini, e generalmente parlando c’è tutto un immaginario cinematografico nel neorealismo e nel cinema italiano degli anni Cinquanta e Sessanta che è molto simile alla riflessione culturale che si stava facendo in Spagna in quegli anni. Il fenomeno dell’esodo contadino verso le grandi città è dunque stato simile in Italia e in Spagna. In Italia, però, ha avuto una dimensione geografica precisa, una direzione chiara da Sud a Nord, che ha diviso in due parti il Paese creando una barriera e un conflitto forte tra le due aree. Questa stessa dinamica si è sviluppata in maniera differente in Spagna, da diverse aree periferiche verso il centro, in modo più eterogeneo. Questo, quindi, non ha creato una divisione in due parti, non è esistita una direzione geografica precisa, né conseguenze culturali e politiche chiare, come ci furono in Italia.

C’è anche un altro tema importante che marca una differenza significativa tra i due casi. In Spagna il grande esodo si verificò durante il regime dittatoriale di Franco. Il dibattito attorno a questo processo fu dunque più silenzioso, con meno conseguenze politiche rispetto a quanto accaduto in Italia. L’Italia, con tutte le difficoltà di quel periodo, era una grande democrazia occidentale, con un dibattito pubblico aperto, intellettuali che potevano esprimere liberamente il loro pensiero critico, cosa che non poteva accadere in Spagna e portò a una reazione e a una lettura del fenomeno molto più apolitica. In Italia, dunque, ci fu una lettura politica sin dal primo momento, e si comprese che si trattava di un conflitto sociale, legato alla differenza tra le classi sociali, alle disuguaglianze. In Spagna questo non era possibile, non si poteva dire, si poteva solo insinuare, dunque il dibattito, la narrativa, i libri, gli articoli sui quotidiani, il cinema, che interpretarono questo fenomeno, furono molto più apolitici e sentimentali. La lettura politica del fenomeno in Spagna, a partire dalla fine degli anni Settanta, la fecero i figli dei protagonisti, e questo ha impedito in buona parte che il dibattito avesse una dimensione politica chiara. Per molto tempo non siamo riusciti a cogliere questa sfumatura, e forse solo più recentemente, anche grazie al dibattito scaturito dal mio libro, si è effettivamente presa coscienza in Spagna che questo fenomeno riguarda la politica, l’architettura istituzionale del Paese e i conflitti politici attuali. E questo come dicevo si spiega con il lungo regime dittatoriale che ha governato in Spagna. Non abbiamo potuto avere i Pier Paolo Pasolini che descrivevano il conflitto sociale, come nel caso degli scontri tra gli studenti figli dei borghesi, e i poliziotti, figli delle classi meno abbienti. Noi in Spagna non abbiamo avuto nulla di simile, quindi questa è la differenza principale tra i casi di Italia e Spagna, una visione, una narrativa, una lettura del fenomeno dell’emigrazione che è molto diversa a causa del sistema politico e istituzionale all’epoca vigente. Eppure, sono due casi molto simili, tra gli unici in Europa, per esempio in Francia e Germania non si sono verificati fenomeni di questo tipo. Quindi esistono sicuramente dei punti in comune, ma anche differenze significative. 

La copertina della Rivista Arel dedicata al XIX Foro di Dialogo Italia – Spagna

Centro e periferia, un altro grande tema del suo libro. A livello politico le periferie tornano ad avere un grande peso. In quasi tutti i Paesi europei abbiamo visto emergere una frattura elettorale tra città e aree interne. Più progressiste le prime, più conservatrici le seconde. Che interpretazione ne dà?
Credo sia una dinamica molto complessa, l’abbiamo vista anche in processi politici recenti, come Brexit e l’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti. Abbiamo osservato una reazione politica delle zone che si considerano più arretrate, che hanno radici contadine e che hanno subito questo processo di spopolamento nel tempo. Curiosamente, in Spagna questa dinamica non è ancora così marcata, non è ancora emersa una narrativa politica capace di capitalizzare questa dinamica. Esiste sicuramente una tendenza, le aree rurali storicamente hanno avuto una maggioranza di voti conservatori, ma non una maggioranza netta. Non emerge un disegno elettorale preciso. Non c’è un predominio assoluto delle forze conservatrici nelle zone rurali come in altri Paesi europei o occidentali. Quello che sta succedendo ora è che sta emergendo uno scontento popolare significativo da parte di persone che si sentono lasciate indietro dal progresso e dagli avanzamenti democratici. È quello che il geografo francese Cristophe Guilluy chiama “l’emergenza delle periferie”, parlando di periferie al plurale. Lui sostiene che la periferia non è solo un concetto geografico, ma anche comunitario, ci sono movimenti e collettivi di persone che si considerano escluse e ne traggono una risposta politica antisistema. Questo è un fenomeno che anche in Spagna si sta diffondendo molto. Il partito populista di estrema destra Vox, per esempio, ha sicuramente avuto successo in alcune zone rurali, ma non è stato in grado di capitalizzare completamente quel sentimento perché esistono altre forze politiche, sociali e civiche più ancorate alla sinistra che interpretano e articolano questo diffuso senso di malessere. Queste forze iniziano anche a essere rappresentate a livello locale, per esempio a Teruel e Soria, e stanno lavorando su un discorso politico più elaborato del populismo di Vox.

In Spagna non osserviamo una dinamica chiara che vede opposto il conservatorismo delle aree rurali e interne al progressismo delle città, ma piuttosto una reazione spesso viscerale e irrazionale contro l’esclusione dalla società e dalla democrazia. Ed è in questo spazio grigio che sorgono i populismi. Questo in parte si può osservare anche in altri Paesi, per esempio con i Gilet Gialli in Francia o con il nuovo Movimento civico- contadino in Olanda o in Italia, dove credo che Fratelli d’Italia abbia cavalcato questa onda. Ci sono molte forze politiche, dunque, in Spagna in particolare, non solo di destra, che stanno cercando di interpretare questo forte scontento tra le popolazioni delle periferie. 

Questo contrasto tra il centro e la periferia, a diversi livelli, è un concetto che si può estendere? Che può riguardare anche altri contesti, e magari non solo il rapporto tra città e campagne all’interno di un Paese, ma anche il rapporto tra Paesi a livello europeo?
Potrebbe, se esistesse una opinione pubblica europea, cosa che credo al momento non esista. La discussione politica in Europa è fondamentalmente nazionale. Siamo poco informati e interessati a ciò che accade negli Stati vicini. In ogni Paese si discute molto degli affari nazionali e ben poco di quelli europei. Non esiste un vero dibattito pubblico europeo fuori dalla bolla burocratica dell’UE. È quindi difficile estendere questa dialettica tra città e campagna all’interno dei Paesi verso l’esterno, e quindi tra Paesi, per esempio tra il Nord e il Sud dell’Europa. Questa dinamica esiste più come gioco diplomatico e di potere tra Paesi e tra governi, ma non vedo implicate le società e le opinioni pubbliche dei singoli Stati europei. Perché questo possa verificarsi occorrerebbe una maggiore coesione sociale a livello continentale, una vera popolazione europea unita che al momento non esiste. Non credo dunque che il concetto chiave del mio libro si possa estendere alla dimensione tra Paesi. Altra cosa è dire che questo concetto fa parte di una dinamica che riguarda tutto il mondo occidentale. Lo scontento sociale e politico assume forme diverse, ma in realtà origina da una dinamica di esclusione molto simile. Viviamo in un mondo globalizzato dove effetti e conseguenze dei problemi sono spesso condivisi. Il dibattito però rimane molto nazionale e quindi è difficile poter estendere il concetto chiave de La Spagna vuota alla relazione tra i Paesi a livello europeo o internazionale. 

Veniamo allora al rapporto e al sentimento sull’Europa. Lei scrive che la Spagna è europea ma con un “ma”. Il Presidente di IPSOS, un importante istituto di ricerca italiano, nella ricerca presentata al nostro Foro Italia-Spagna, ha dimostrato che il cinquanta per cento dei cittadini italiani e il 47 degli spagnoli non ha fiducia nell’Unione Europea, eppure entrambi non hanno un’immagine negativa dell’UE. Cosa ne pensa? Come si spiega questa contraddizione?
Penso che qualche anno fa l’identificazione europeista della Spagna era a livelli molto più alti di quanto non lo sia oggi. È noto che la Spagna è stato un Paese molto entusiasta dell’adesione all’UE, un Paese che ha messo la bandiera europea ovunque. Spesso girando per il Paese si vedono più bandiere dell’UE che della Spagna. Allo stesso tempo, oggi sta montando una certa disaffezione e una crescente sfiducia verso il progetto europeo. Credo che questa sia una dinamica generalmente diffusa in molti Stati europei perché il progetto europeo e l’europeismo stesso sono in un momento di seria difficoltà. Per noi europeisti in questa fase storica è difficile diffondere entusiasmo riguardo alla necessità di avanzare verso gli Stati Uniti d’Europa, temo che stiamo diventando una minoranza. Certamente, credo che gran parte della profonda trasformazione della Spagna negli ultimi trent’anni e i benefici che essa ha portato provengano dal processo di integrazione europea, e questo rimane chiaro nella memoria delle persone. Tuttavia, temo che piano piano abbia meno peso. L’europeismo ha avuto un picco in Spagna negli anni Ottanta mentre oggi una buona parte dei protagonisti del dibattito pubblico nazionale è meno legata a questa memoria e ha sempre meno chiara la relazione tra la prosperità del Paese e l’Unione Europea. Cresce, quindi, una visione cinica e di sfiducia verso l’Europa. Credo che questa sia una dinamica diffusa in tutta l’UE, e noi spagnoli non siamo diversi. Per quanto simile ad altri Paesi europei però, la Spagna ha le sue peculiarità e tende a rimanere ancorata all’idea di una maledizione che vede i problemi della Spagna non avere una soluzione, che vede il Paese come “l’eterno malato d’Europa”, una nazione che non riesce a omologarsi agli standard degli altri europei. C’è, per esempio, il tema della disoccupazione, che resta a livelli molto alti, intorno al 15%, una dinamica molto particolare nell’Europa di oggi. Credo però che questa sia una forma un po’ vittimista e fatalista di vedere le cose, che forse è presente anche in Italia. L’europeismo è dunque ancora forte in Europa e anche in Spagna, ma temo che stiamo osservando una dinamica regressiva che certamente preoccupa. 

Libri e film hanno trattato della Spagna vuota: forse la Spagna vuota non è poi così sola e dimenticata, almeno dalla cultura e dall’arte? Lo è di più dalla politica?
Sono questioni complesse radicate in processi storici di lungo corso. Sono questioni che hanno a che vedere con la storia spagnola, fatta di passaggi autoritari, di violenza, di repressione e di miseria. Una storia che ha accelerato con grande velocità in poco tempo, in quindici-venti anni dopo la fine del regime di Franco, osservando grandi progressi. La Spagna passò rapidamente dall’essere un Paese maledetto a essere una democrazia compiuta, avanzata e prospera. Nella rapidità di questi processi, però, diversi elementi sono stati lasciati indietro, e permangono molti problemi che non riusciamo a superare. Sicuramente c’è una tendenza a vedere il Paese in condizioni peggiori rispetto a quelle in cui è realmente. Come dicevo, anche nel racconto degli intellettuali, c’è questa tendenza a una narrativa fatalista, figlia della storia del nostro Paese. Osservo però che questa tendenza sta diminuendo, ci vorrà sicuramente tempo, diverse generazioni, ma su questo credo che nel lungo periodo saremo in grado di cambiare. 

Da La Spagna vuota del 2016 al Contro la Spagna vuota del 2021… un aggiornamento o un ripensamento?
Contro la Spagna vuota uscì cinque anni dopo il primo libro come tentativo di attualizzare la riflessione fatta nel 2016 e portarla su un piano più politico. In quei cinque anni in Spagna si era scatenato un grande dibattito sul tema dello spopolamento e della sua importanza politica. Negli ultimi anni sono emerse nuove forze politiche, il tema dello spopolamento è diventato una priorità per il governo, è stata istituita una vicepresidenza per affrontare la sfida demografica, tutte cose che non esistevano quando scrissi il primo libro nel 2016. Uno degli argomenti principali de La Spagna vuota era proprio che questi temi non erano presenti nel dibattito pubblico e nell’agenda politica. Si è quindi aperto un dibattito dinamico, con diversi spunti e punti di vista, molto interessante per me e che mi ha spinto ad attualizzare la riflessione con un nuovo libro. Divenne chiaro che la dialettica tra centro e periferia non riguardava solo chi ne soffriva le conseguenze negative, ma era un tema d’interesse per tutto il Paese e per tutti i cittadini. Questo dibattito però si trasformò presto in una riflessione di corto periodo, legato solo alle domande, per quanto legittime, delle aree interne in difficoltà. Io ho sempre pensato, invece, che questo tema sia molto più ampio e ho voluto scrivere Contro La Spagna vuota proprio per evidenziare alcuni aspetti del dibattito scaturito, con particolare riferimento al tema della coesione nazionale e a tutti quei cambiamenti che sono avvenuti velocemente, in pochi anni, attorno alla questione centro-periferia. Con un intento un po’ provocatorio ho voluto offrire la mia opinione su quel grande dibattito. 

La Spagna di oggi… I recenti risultati delle elezioni comunali e regionali in Spagna hanno sorpreso non solo per il successo del Partito Popolare, ma anche per la sua ampiezza e posizione geografica: questa volta città come Madrid, Valencia, Siviglia e Barcellona hanno voltato le spalle ai progressisti. Cos’è accaduto?
In realtà, non è stata una grande sorpresa dato che i sondaggi prevedevano già una notevole crescita del PP dovuta all’assorbimento dell’elettorato di Ciudadanos, un partito che sta scomparendo. Nel complesso, c’è stata una leggera oscillazione verso il voto conservatore (più intensa in luoghi come Madrid), con un vantaggio di meno di un milione di voti sul PSOE. Ciò che sta accadendo è che, in un Paese con maggioranze così ristrette tra blocchi di sinistra e di destra, ogni piccolo vantaggio equivale a uno spostamento di potere. La sinistra ha perso molto potere territoriale perché lo aveva con maggioranze risicate di uno o due parlamentari. Anche le nuove maggioranze conservatrici, tranne in alcuni casi, come quello di Madrid, sono molto deboli, il che ci permette di dedurre che la società spagnola si è leggermente spostata a destra. Il fatto che questo abbia portato a un enorme cambiamento nei governi regionali e comunali non significa che la sociologia elettorale del Paese sia cambiata molto. Semplicemente, è cresciuta una discreta maggioranza di conservatori, che riflette due tendenze: che una piccola parte (stiamo parlando di meno del 5%, ma sufficiente a essere influente) dell’elettorato di centro-sinistra che votava per il PSOE ora sostiene il PP e che il PSOE non è stato in grado di attrarre il voto dei partiti alla sua sinistra, che sono crollati, vittime della loro radicalizzazione e delle crisi interne. La divisione dell’elettorato spagnolo in due blocchi rimane più o meno la stessa di quattro anni fa, ma questa volta il vantaggio (lieve, ma sufficiente) va alla parte conservatrice. Fenomeni degni di nota sono la crescita del PP a Madrid, dovuta principalmente al carisma popolare di Isabel Díaz Ayuso, che è la più importante politica populista in Spagna ed è riuscita a neutralizzare tutti i suoi avversari in un fenomeno che molti considerano locale e difficilmente trasferibile al resto della Spagna, e l’ingresso dell’estrema destra di Vox nei consigli comunali catalani, che è indicativo della radicalizzazione dell’opinione pubblica spagnola in Catalogna, cosa peraltro prevedibile dopo cinque anni di crisi in cui i loro diritti politici sono stati minacciati. 

Pensa che la monarchia sia una forma di governo adeguata per una società democratica moderna?
Io sono repubblicano, e preferirei che la Spagna fosse una Repubblica, ma la monarchia non mi disturba. Penso che la monarchia, per come è stata disegnata nella Costituzione del 1978, è una monarchia “decorativa”, che non ha funzioni se non ornamentali e istituzionali e non ha alcun tipo di potere. Il sovrano è un signore che rappresenta lo Stato, una sorta di ambasciatore che va in giro per il mondo, che stringe le mani e poco più. Sarebbe più limpido, più corretto, e credo che molti spagnoli sarebbero più contenti e più a loro agio, avere una Repubblica, soprattutto quando il re precedente si è dimostrato corrotto e la monarchia è stata screditata. È possibile che entro dieci anni la monarchia sia sottoposta a una discussione intensa all’interno della Spagna come mai prima, però ho chiaro che non è detto che prevalga la scelta repubblicana. Non lo credo perché se il dibattito fra monarchia e repubblica dovesse manifestarsi in termini molto passionali e provocare conflitti politici gravi, molta gente preferirà metterlo da parte, come si è verificato nel 1978, quando venne accantonato e non si discusse della Repubblica, perché l’obiettivo era quello della conciliazione. Potrebbe accadere la stessa cosa, se si dovesse determinare un clima politico teso i cittadini potrebbero decidere di lasciare questo tema nel cassetto, di tenersi il re e basta. Quindi, sì, penso che si potrà arrivare a un dibattito, ma non ho chiaro se potrà arrivare alla Repubblica perché essa non è un progetto politico prioritario per la Spagna. 

Dove sta andando il suo paese? Come lo immagina tra dieci anni?
Ritengo che la Spagna nei prossimi anni potrà soffrire di una crescente instabilità politica, sempre maggiore e con un confronto sempre più aspro che metterà a rischio la stabilità istituzionale di buona parte degli apparati dello Stato. Credo che l’architettura statale spagnola sia abbastanza forte per far fronte a tutto questo senza che la democrazia ne risenta, ma penso che il paese abbia bisogno di riforme importanti che possono essere intraprese solo se c’è unità, se c’è un ampio consenso. Le riforme di cui abbiamo bisogno? Bisogna riformare la Costituzione – a parte la questione della monarchia, di cui si può discutere, ma che necessita di una unità che al momento non esiste – e la forma dello Stato. Lo Stato delle autonomie non funziona e ha dimostrato di essere una formula obsoleta che favorisce la corruzione, ha esaurito la sua funzione e il suo ruolo; la Spagna ha bisogno o di un nuovo modello federale o di un modello più unitario. Questo modello intermedio non funziona e per cambiarlo abbiamo bisogno di un consenso delle destre e delle sinistre, ma non pare che questo ci sia. Credo che da qui a dieci anni non avremo anni buoni, avremo anni di conflitto e di paralisi istituzionale. E dunque fare previsioni non sarà né facile né comodo, perché diventa sempre molto difficile anticipare il futuro. 

Che ne sarà delle dinamiche separatiste?
Da qui a dieci anni non credo che riprenderanno forza significativa. L’esperienza della sconfitta del processo del 2017 ha fiaccato e diviso il movimento e anche la società catalana. L’enorme paralisi creatasi nell’amministrazione e nelle istituzioni della Catalogna (non parlo del Paese Basco che va per conto suo…) ha indebolito molto la popolarità del movimento ed è molto difficile che esso possa nuovamente impegnarsi nella sfida allo Stato e nella ripresa del processo separatista. Inoltre il partito Esquerra Repubblicana sostiene il governo di Pedro Sánchez, quindi è anche coinvolto nella governabilità del Paese, non sembra probabile che nel giro di cinque-dieci anni tutto possa capovolgersi e tornare un conflitto come quello che abbiamo visto nel 2017. Tuttavia, permane un sentimento molto forte di indipendenza, che può sfociare in atteggiamenti reattivi. Il problema è serio, perché sappiamo che il 48-49% della popolazione della Catalogna conserva questo sentimento e quindi con l’altra metà può crearsi un conflitto forte. È quello che accadde nel 2017: una divisione della Catalogna in due, che a poco a poco si sta ricomponendo, a poco a poco, però. Tutto ciò ha creato grande disagio alla società catalana, che nella maggioranza, che sia conservatrice o progressista, chiede benessere e tranquillità. Non credo vorranno andare a mettersi in un’altra avventura. 

Immagine di copertina: Sergio del Molino nel 2017, di Lorena Otero; CC BY-SA 2.0; fonte

Gli autori dell’intervista: Mariantonietta Colimberti e, a destra, Tullio Ambrosone

Autonomie obsolete, serve un modello più federale o più unitario  ultima modifica: 2023-06-06T14:27:21+02:00 da MARIA ANTONIETTA COLIMBERTI TULLIO AMBROSONE
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