Un’Europa a due velocità per arrivare all’Europa di tutti. Incontro con Romano Prodi

INCONTRO CONDOTTO DA FABIO MARTINI
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La parola chiave del prossimo numero della rivista Arel è Eredità. La prima parte contiene un’ampia serie di articoli sui temi al centro delle quattro giornate della Summer School della Scuola di Politiche Cesenatico, 14-17 settembre 2023. Qui di seguito abbiamo il piacere di pubblicare in anteprima il resoconto dell’incontro, nella cornice della Summer School, con Romano Prodi.
Di questa gradita cortesia ringraziamo la direzione e la redazione di Arel , rinnovando una ormai consolidata collaborazione tra le due riviste
La Rivista sarà presto disponibile in versione web e a breve arriverà anche la versione cartacea, acquistabile online e nelle librerie Feltrinelli di Milano Duomo e di Largo Argentina a Roma.

Nell’ambito dei “Sassoli Dialogues” della Summer School di Scuola di Politiche, si è svolto, il 16 settembre scorso, l’incontro degli allievi convenuti a Cesenatico con Romano Prodi. L’evento, aperto e condotto da Fabio Martini, è stato particolarmente apprezzato dai giovani presenti che hanno potuto porre le loro domande a tutto campo, in un dialogo che è proseguito anche successivamente, in una dimensione più conviviale.
Si è qui scelto di mantenere l’andamento informale degli interventi e dei dialoghi, conservandone la freschezza, la sincerità e l’immediatezza.

Enrico Letta introduce il dibattito

FABIO MARTINI. La giornata di oggi, già così ricca, si conclude con un incontro che si preannuncia molto interessante per tante ragioni, ma soprattutto per una: il bagaglio di esperienze professionali e politiche di Romano Prodi è così esteso che egli sarà in grado di coinvolgere i diversi interessi di voi giovani, che avete avuto l’opportunità di partecipare alla migliore delle scuole politiche esistenti in Italia, un vero e proprio modello sul quale sono nate altre scuole, non altrettanto riuscite, anche tenendo conto del fatto che questa non è una scuola di partito, ma vuole essere, ed è, indipendente, pur avendo, ovviamente, una sua visione del mondo.
Noi tutti viviamo una stagione nella quale siamo “bombardati” da informazioni, ma anche da opinioni spesso poco argomentate. La discussione pubblica è affollata di sentenze, non c’è più l’onere della prova di quello che si afferma, si cerca solo chi la pensa alla stessa maniera, in una discussione pubblica polarizzata e faziosa. Quindi anche chi di mestiere fa informazione, fatica a costruire un proprio palinsesto. Le informazioni sono tante, manca una gerarchia per ordinarle e i media parteggiano prima d’informare, mentre dai media si deve pretendere prima informazione e poi opinione. Ecco perché quando si incontra chi, come Romano Prodi, ha visione e conoscenza dei fatti, cosa rarissima, si deve essere in grado di riconoscerlo e interpellarlo. Del resto, che il Prof. Prodi sia largamente apprezzato lo dimostrano anche le innumerevoli lauree honoris causa che ha ricevuto in tutto il mondo, almeno dal 1996, quando come giornalista ho iniziato a seguirlo e lui non era ancora Presidente del Consiglio. Lauree di cui si è perso il conto e nessuno conosce, dettaglio non da poco, perché si tratta di riconoscimenti che hanno un valore in sé e non serve pubblicizzarli, mentre ormai la politica è costante ricerca del consenso effimero, con i risultati che sappiamo. Mai come adesso ci sono leadership che salgono in maniera rapidissima e altrettanto rapidamente precipitano.

Siamo stati invitati a parlare di “Europa”, termine che cercheremo di rendere concreto, partendo da una prima domanda: negli anni Sessanta l’Europa che cos’era? Un’utopia? Un obiettivo?

ROMANO PRODI. Quando ero giovane come i ragazzi qui oggi frequentavo l’Università Cattolica a Milano e avevo l’idea che Milano fosse come New York. Erano gli anni dal 1957 al 1961 e noi vivevamo in un tale ottimismo che eravamo convinti di poter essere all’avanguardia nel mondo.

Mi sono laureato in Giurisprudenza, dopo aver già studiato Economia, e ricordo che a me e agli altri miei compagni, appena laureati, arrivarono dieci offerte di lavoro. Ci siamo potuti permettere il lusso di non prenderle in considerazione.

Credo che un Paese come il nostro debba ritrovare il senso di ottimismo che avevamo allora, altrimenti semplicemente non si esiste. Oggi mi preoccupa che i genitori, in particolare della borghesia meridionale, in modo certo comprensibile, preparino i figli ad andar via dall’Italia. Lo stesso vale per quelle analisi secondo le quali su 10 laureati in economia aziendale, 8 sono già all’estero: qui c’è tutto il senso di una società che non ha più fiducia in sé stessa.

Ritrovare questa fiducia, invece, è la cosa più importante; trovare un gruppo che dica «ce la faccio» è quello che manca all’Italia ormai da parecchi anni. Il vero problema è che siamo vittime dello scetticismo, della certezza che “tanto perdo”.

Naturalmente questo deriva anche dalla nostra storia. Siamo un Paese nato da tanti Stati e manca il senso dell’establishment, dell’appartenenza, del poter fare squadra. Questa mancanza è deleteria. Si riesce a fare squadra al massimo a livello regionale o locale, a livello nazionale no. Proprio questo sarebbe necessario ricostruire oggi in Italia, dove i valori individuali sono straordinari, come dimostra il fatto che chi va all’estero fa carriere eccezionali, grazie alle nostre università che, mediamente, sono molto qualificate e forniscono un’ottima preparazione. Il problema che ho sempre cercato di affrontare in politica, e anche oggi, è quello del fare squadra. Se non ci si riesce si perde sempre.

F.M. L’espressione Milano ci sembrava New York è memorabile.. 

R.P. Ma io lo pensavo davvero! Credevamo realmente di poter fare questo paragone, dato che c’erano grande entusiasmo e grandi speranze. Oggi è diverso, esiste una gerarchia che ci vede in basso.

Questo è anche un discorso europeo. Il mio approccio con l’Europa stava nell’idea che essa fosse la costruzione del “nuovo”; questo vale ancora oggi, ma allora eravamo convinti che quella costruzione avrebbe cambiato il mondo. Questo secondo punto oggi non vale. E in corso una guerra quasi mondiale – è locale ma con influenze planetarie – e non c’è stata alcuna mediazione europea, nessun momento di autonomia europea. Ci sono stati i viaggi di Olaf Scholz, di Emmanuel Macron, di rappresentanti di singoli Paesi che non hanno portato alcun risultato, ma almeno i singoli si sono mossi. L’Europa in quanto tale no. Lidea che l’Europa non abbia una forza mediatrice e che quel poco di mediazione venga lasciato alla Turchia è un’umiliazione impressionante. Lo stesso possiamo dire delle Nazioni Unite. Il mondo si è scomposto e l’ONU è sparita. Bisogna allora ripensare a quello che è successo: le strutture multinazionali sono uscite dal gioco, ci sono ora G20 e Brics, in uno specifico e grande cambiamento. L’Europa ha perso la grande occasione di ottenere una leadership mondiale. Naturalmente, la situazione oggi è più difficile che in passato, quando essa aveva il 12% della popolazione mondiale, mentre oggi è circa al 7%. Nonostante questo, è necessario recuperare la convinzione che insieme possiamo cercare di promuovere la pace almeno nel nostro continente, oppure tutto diventerà estremamente grave e preoccupante. Ammettere, come sono costretto a fare, che la pace potrà realizzarsi solo se americani e cinesi si metteranno d’accordo, è sconfortante. E io non solo sono un ex Presidente della Commissione europea, ma sono un innamorato dell’Europa, tanto da averne l’inno come suoneria del telefono. Ammettere che solo Cina e Stati Uniti possono arrivare alla pace è ammettere che l’Europa ha fatto un grave passo indietro.

F.M. Ricordo che questa riflessione fu fatta da te in un’intervista già pochi giorni dopo l’invasione russa. È un concetto importante.

R.P. Vedrete che senza accordo tra cinesi e americani non vi potrà essere nessuna pace. Vi potrà certamente essere la mediazione di altri soggetti, ma senza l’accordo sino-americano nulla di decisivo accadrà. Quando mi hai chiesto di cosa pensassi da ragazzo, non avrei mai potuto rispondere che immaginavo la realtà odierna. Per noi l’Europa era una co-protagonista del mondo.

F.M. Occorre riconoscere anche gli enormi passi avanti che l’Europa come Unione ha realizzato.
Ad esempio, quando tu eri Presidente della Commissione Europea si compì un evento epocale, l’allargamento a Est dell’UE. Fu una scelta assai controversa, perché c’era chi non riteneva quei Paesi maturi. Alla luce della brutale invasione della Russia nei confronti dell’Ucraina, possiamo dire che l’allargamento ha costituito uno scudo democratico per quei Paesi e per l’Europa stessa?

R.P. Certamente. Quel che dici non mi era riconosciuto alcuni anni fa, quando ci si rimproverava di aver fatto entrare la Romania con i suoi bassi costi del lavoro, e altre criticità. Ma oggi si è compreso che, ad esempio, se la Polonia fosse stata fuori dall’UE come l’Ucraina, la situazione sarebbe stata ancora peggiore dell’attuale. L’allargamento era necessario. Entrarono dieci nuovi Stati membri, otto dei quali erano stati nel Patto di Varsavia, sotto controllo sovietico. In quel momento era inevitabile confrontarsi con Vladimir Putin, un vicino così forte e potente. Per Putin non vi erano problemi con l’Unione Europea, però non voleva in alcun modo la NATO ai confini russi. Aveva una sorta di ossessione per la NATO, ma non contro la UE. È chiaro che sono stati commessi dei grandi errori: perché, come ha detto Kissinger, se esistono tre potenze nucleari, lasciamo che due si alleino tra loro?

Come Unione Europea avevamo un rapporto con la Russia di collaborazione attiva. Negli anni nei quali sono stato Presidente della Commissione (2000-2005) si è sempre svolto il vertice tra la UE e la Russia. Durante l’ultimo anno della mia Presidenza, un giornalista russo chiese a Putin e a me quando la Russia sarebbe diventata membro della UE. Ripeto: quando, non se. Risposi che era impossibile, viste le dimensioni della Russia, perché vi sarebbero state due Capitali (Mosca e Bruxelles) difficilmente compatibili, ma si sarebbe comunque continuato a collaborare. Dissi, con una battuta, che in fondo eravamo come whisky e soda, e Putin replicò che eravamo vodka e caviale! Racconto questo per farvi comprendere quale fosse l’atmosfera.

Prima, tra il 1997 e il 1998, si era addirittura svolto un vertice tra NATO e Russia cui presi parte.

Presidente in Russia era Boris Eltsin, un uomo non in grado di reggere il peso di ciò che doveva gestire.

Racconterò un aneddoto. Solitamente, in questi vertici, prima si chiacchiera, poi si chiude la porta e ci si siede attorno al tavolo. Quella volta – eravamo a Parigi – Jacques Chirac ci accoglie con una certa prosopopea citando grandi scrittori russi: «Benvenuti a questo Vertice NATO-Russia. Io amo la Russia… la mia gioventù, la mia cultura, la mia infanzia… Tolstoj, Dostoevskij, Puskin…». Si alza Eltsin e risponde allo stesso modo elogiando la cultura francese, e citando dieci nomi: nemmeno uno era francese! Cose di questo genere rendono evidente che un personaggio di questo tipo non è all’altezza di reggere un Paese come la Russia. 

Vi racconterò un altro episodio (gli aneddoti servono a capire come nella politica i cambiamenti siano frequenti). Dopo un paio d’anni da questo incontro mi telefona Michail Gorbacev e mi avverte che in Russia sta prendendo forza un uomo che ha «un brutto curriculum per gli europei, essendo tutto KGB, ma è l’unico che può tenere unita la Russia e tenerla amica dell’Europa: si chiama Vladimir Putin!». Come si passa da una situazione che era di possibile cooperazione a una situazione drammatica, a questa guerra che giustamente hai definito «orrenda»?

Con errori progressivi. Ho capito che si era su una brutta china quando il Patriarca di Costantinopoli ha sancito la divisione tra Chiesa ortodossa russa e ucraina. Cosa c’entra? L’unione delle due Chiese era il legame che teneva ancora insieme le due società. La divisione ha fatto sì che tutte le frizioni diventassero più aspre, feroci.

La Russia è un grande Paese, con un grande sapere, ma incapace di tradurre la sapienza in prodotto, al contrario della Corea del Sud, che sa trasformare tutto in prodotto e che è leader nella fabbricazione di televisioni, di elettrodomestici, di navi specializzate, di centrali nucleari, e così via, pur avendo solo 50 milioni di abitanti. Parlando con Putin avevo avuto la rassicurazione che la Russia non avrebbe venduto nemmeno un metro cubo di gas alla

Cina. Sappiamo quale sia la situazione ora. La cosa che più mi turba è pensare alla follia della mancata comprensione dei grandi fenomeni. E questo si sta ripetendo oggi relativamente ai nuovi Paesi, quelli del “Grande Sud”.

F.M. Avrete apprezzato questa straordinaria testimonianza che ci ha portato a vedere personaggi della storia in maniera molto profonda, ma anche con quella leggerezza necessaria a capire che nella storia e nella politica grande importanza ha il fattore umano, costantemente sottovalutato dalla politologia, in particolare italiana. La storia la fanno gli uomini.
Naturalmente, non si può ridurre tutto a una forma di psicologismo, ma bisogna tener conto del fattore umano: gli episodi raccontati da Prodi non sono aneddoti di colore, ma sostanza.

R.P. La gente pensa che la politica sia pura razionalità. Non è vero! La politica è passione. Dicevi del fattore umano; è così. Ricordo che con Chirac, centro-destra francese, avevo una perfetta intesa; abbiamo lavorato assieme in Albania, in Libano, eccetera. Non così con Nicolas Sarkozy, uomo dello stesso partito e dello stesso Paese. Sono cose che ancora oggi mi fanno pensare. Perché la politica è vita. Poi, ovviamente, ci sono gli interessi. Spesso si giudica facendo riferimento solo ai “freddi interessi. Ma la politica è interesse caldo! Non freddo! In tal senso, l’uomo politico migliore che abbia incontrato per la capacità di unire razionalità e passione, capendo sempre chi avesse davanti, è stato Bill Clinton.

F.M. Questa è davvero una lezione, un insegnamento importante: nella lettura della politica il fattore umano va tenuto presente. Naturalmente, vale pure il contrario: a volte c’è un eccesso di enfasi e di emotività mentre sarebbe necessaria più freddezza. Ma il fattore umano, che è coinvolgimento, ma anche capacità di controllo quando l’emotività prevale, è da tener presente sempre quando si parla di politica.
Vorrei affrontare ora un altro argomento. Cito una frase della Presidente del Consiglio, passata quasi sotto silenzio dai media, ma che è forse la più infelice da lei pronunciata in dieci mesi di governo. Ha detto: «Chiedo che il Commissario all’Economia Paolo Gentiloni abbia un occhio di riguardo per l’Italia»; e ha ripetuto il concerto quando è stato annunciato che Mario Draghi avrebbe avuto un incarico europeo, dicendosi certa che l’ex Presidente del Consiglio avrebbe certamente avuto un «occhio di riguardo per il nostro Paese».
Attenzione, quando un esponente politico di qualunque nazionalità assume un incarico a livello europeo “perde” la propria nazionalità, lavora per l’Europa, e i trattati lo sottolineano: i Commissari e il Presidente della Commissione devono avere indipendenza e non devono essere suggestionati dagli interessi dei Paesi di provenienza. Poi, informalmente, possono esserci delle situazioni particolari, ma dire quello che ha detto Meloni pubblicamente è fuori luogo. Allora, chiedo: quando eri Presidente della Commissione, Presidente del Consiglio era Silvio Berlusconi. Ha mai detto pubblicamente che il Presidente Prodi doveva avere un occhio di riguardo per l’Italia?

R.P. No. Però c’è anche un problema che riguarda l’indebolimento delle strutture europee.

Quando ho iniziato la mia Presidenza della Commissione Europea ho giurato fedeltà all’Europa e non all’Italia, anche se mi sento italiano fino in fondo. In Commissione poi, mai una parola d’italiano mentre, nel Parlamento Europeo, solo italiano. Ma oggi il potere in Europa è cambiato e questo spiega, non giustifica, le frasi della Meloni. Ai miei tempi la Commissione aveva un potere molto forte. L’allargamento della UE lo abbiamo realizzato noi in Commissione, così come la stessa riforma della Commissione, così come l’applicazione dell’euro, con tutte le discussioni collegate. Ora il potere è passato al Consiglio Europeo, che è composto dai singoli Paesi della UE. Quindi, è un errore enorme quello che ha commesso la Presidente del Consiglio, perché si riferiva alla Commissione, però stride meno di quanto sarebbe accaduto nel passato, perché il potere è ora alle nazioni e non più alla Commissione. La Meloni crede che anche la Commissione debba schierarsi con le nazioni, mentre i commissari giurano fedeltà all’Europa e non all’Italia. In politica, quando le cose cambiano di fatto, diventa plausibile anche sentire quella frase sbagliatissima, contro la quale nessuno insorge. Prima ricordavi che l’Europa ha fatto grandi cose. L’Europa ha fatto cose grandissime, essa stessa è la creazione più bella che sia stata realizzata politicamente. Ma non è completa! Uso ripetere che l’Europa è un buon pane, ma è mezzo cotto. Bisogna cuocerlo del tutto perché diventi buono davvero.

F.M. Mi ricollego a quest’ultima riflessione: effettivamente negli ultimi due anni sono accadute cose che il giovane Romano Prodi della Cattolica forse non avrebbe potuto immaginare: sul Covid è stata data una risposta unitaria, anche in termini sanitari, per la guerra in Ucraina l’Europa sicuramente non ha quella forza di cui tu parlavi prima, ma ha una posizione comunque unitaria e, soprattutto, sono stati messi in comune gli investimenti che hanno poi prodotto il PNRR.
Ricordiamoci sempre che la parte più importante di questi investimenti è stata conferita all’Italia.
Dunque, questi enormi passi avanti sono evidenti; cosa manca ancora all’Europa per diventare una protagonista politica?

R.P. Nel campo dell’economia l’Europa ha fatto passi in avanti grandiosi. Si pensi all’euro. Però, attenzione, il grande passo in avanti sull’euro è stato fatto quando non si è applicata l’unanimità, bensì una cooperazione rafforzata. Oggi, tutte le più importanti decisioni di politica estera e militare vengono prese solo all’unanimità. Qui sta la paralisi dell’Europa. Invece, laddove si decide a maggioranza, si ha un progresso continuo. La differenza è enorme. La politica estera purtroppo ha sempre comportato grandi divisioni. Ad esempio, la guerra in Iraq, che considero la prima grande tragedia, ha spaccato la Commissione e tutta l’Europa. È stata la prima grande rottura. Da allora non abbiamo più avuto una politica estera europea. L’Europa è sempre stata divisa: in Iraq, in Afghanistan, in Libia, laddove la Germania non ne ha voluto sapere nulla, al contrario di Francia, Gran Bretagna e, ahimè, Italia.

Ora, non voglio sminuire i progressi dell’Europa che sono stati grandiosi, ma se non c’è la politica estera comune, non si conta. Perché è Il che si prendono le decisioni. In Libia comandano la Russia e la Turchia: la Russia ha l’80% del PIL italiano e la Turchia 1’80% del PIL spagnolo. Dove sta il mondo? Si può anche avere una grande forza economica, che l’Europa ha e con la quale ha realizzato momenti di solidarietà straordinari, come la distribuzione dei vaccini, che ha impedito che i vari Paesi europei si scontrassero per ottenerli, con tentativi di accaparramento che avrebbero portato i prezzi alle stelle. Il PNRR non è meno importante, è un aiuto vero. Ma se si parla dello schema di potere mondiale, o si ha una politica estera comune o non si può intervenire.

DOMANDE DAL PUBBLICO

La mia domanda riguarda l’unione economica e monetaria: Lei è stato uno dei padri fondatori della moneta unica. Ormai sono passati 25 anni dal Consiglio Europeo del 1998, l’euro è una moneta giovane, ma che ha già affrontato i suoi primi e importanti stress test. È stato un esperimento senza precedenti. La moneta unica, comune per 20 Paesi, con condizioni economiche tra loro diverse. Mentre tutti gli studi ci dicono che la UE non era, e non è ancora oggi, un’area valutaria ottimale. La divergenza delle economie è stata ancora più evidente con la crisi dei debiti sovrani, dove la risposta della BCE è stata forse debole e sicuramente tardiva. Si è fatta una scommessa: quella secondo la quale l’unione monetaria avrebbe agito da leva per una futura unione politica, dove con questo termine probabilmente si intendeva “unione fiscale”. È stata rispettata la scommessa? Ci sono diverse voci in economia, tra le quali quella del Premio Nobel Stiglitz, che suggerirebbero alla UE di abbandonare la moneta unica. A che punto siamo dopo venticinque anni?

R.P. Lei ha detto una cosa che dicono in pochi, ossia che l’unione monetaria è stata fatta in una prospettiva di unione politica. Negli anni della mia Presidenza di svolgevano vertici UE-Cina, incontri ai quali si va con degli enormi dossier che contengono di tutto. Al Presidente cinese, però, interessava solo l’euro, e si meravigliava della prospettiva della sparizione di monete come quella tedesca o quella francese, e della nascita di un biglietto unico europeo.

Chiedeva se fosse possibile avere l’euro nelle riserve monetarie cinesi. Alla mia risposta positiva il Presidente cinese replicava che allora loro avrebbero avuto tra le riserve tanti dollari quanti euro, perché, se accanto al dollaro c’era l’euro, voleva dire che c’era posto anche per la moneta cinese. Qui si vede la finezza politica, la volontà di creare un mondo pluralistico. La Cina ha davvero incominciato questo processo, che si è fermato durante la crisi dei debiti sovrani. Ma in quel momento la situazione era cambiata, i singoli Paesi si erano divisi e, invece di avere l’unità, che era il presupposto dell’euro, ognuno era andato per sé, con le divisioni tra Nord e Sud, tra rigoristi e fautori di una spesa pubblica maggiore, eccetera. Così il sistema si è rotto ma, quando l’euro è stato creato, era chiarissima l’idea di un processo come quello ricordato. Attenzione, però: se non avessimo l’euro adesso saremmo in una situazione drammatica, perché la frammentazione non giova a nessuno, mentre l’idea che ci sia una moneta con una sua forza è importante. Oggi il 60% delle riserve è in dollari, e un 20% in euro. Si tratta certo di un dominio indiscutibile del dollaro, ma esiste una base comunque solida e, nel commercio internazionale, abbiamo fatto passi avanti.

La crisi dell’euro è avvenuta per la frammentazione politica che si è verificata con la crisi dei debiti sovrani. Forse si era presunto troppo quando si è fatto l’euro, però si è evitata una catastrofe ancora maggiore, anche se si è persa la grande occasione di essere co-protagonisti del mondo, assieme a Stati Uniti e Cina.

Fabio Martini ha fatto una giustissima osservazione: fortunatamente, durante la guerra in Ucraina, l’Europa ha mostrato una certa unione, ma senza capacità d’iniziativa. Un’unione obbediente, una politica economica che vede molto lontani gli interessi europei da quelli americani. Questo perché, quando non si fa politica assieme, non si gestisce tutto il processo. Ad esempio, i rapporti tra Stati Uniti ed Europa, essenziali per il nostro futuro, sono stati molto diversi negli ultimi tempi. George Bush non aveva le nostre stesse idee politiche, ma aveva anche i tic europei, una similitudine tra la famiglia Bush e l’Europa. Clinton questa similitudine non l’aveva, ma l’ha appresa. Barack Obama è stato un grande Presidente, ma per lui Singapore o Copenaghen non faceva grande differenza. Con Donald Trump siamo arrivati a un Presidente che vedeva nell’Europa il nemico, il concorrente. Ora Joe Biden sta facendo una sintesi molto intelligente: unità con l’Europa per quel che riguarda la politica estera e militare, ma in economia una politica incentrata sugli interessi americani. Una situazione, quindi, abbastanza complicata. Dal punto di vista economico, molte imprese europee, a causa del costo dell’energia, vogliono trasferirsi negli Stati Uniti, mentre PIRA (Inflation Reduction Act), che con l’inflazione non ha nulla a che vedere, è un sussidio di politica industriale massiccio, al quale corrisponde il sussidio cinese e in generale un mondo che la globalizzazione ha cambiato. Tutto questo mi spinge ancora a dire che, se l’Europa non ha una politica estera comune, diventa difficilissimo difendere anche la nostra politica economica. 

Dove la UE è stata carente nel momento del crollo dell’URSS? Dove è stata miope? Come avrebbe potuto arginare l’ascesa di Putin?

R.P. C’è stata un’evoluzione interna della Russia, con un progressivo allontanamento dall’Europa. Secondo me l’UE ha commesso tanti errori dovuti alle sue stesse divisioni. Ad esempio, pensate al grande problema della politica energetica legato ai gasdotti che stavano unendo fortemente l’Únione Europea alla Russia. I tedeschi ne hanno fatto qualcosa di strumentalmente tedesco: il gasdotto Nord Stream, che univa Russia e Germania, aggirando l’Ucraina, era il segnale di un Paese che si curava dei soli suoi interessi e non di quelli europei. Ho chiesto, pur non avendo alcun potere, il perché di questo caos sui gasdotti che saltavano l’Ucraina e ho proposto una società per azioni (1/3 europeo, 1/3 russo e 1/3 ucraino) che prendesse possesso dei tubi ucraini: la Russia avrebbe garantito la spedizione del gas, noi lo avremmo ricevuto e gli ucraini sarebbero stati pagati per il passaggio sul loro territorio. Ma né Germania né Russia hanno voluto attuare qualcosa di simile. Invece c’erano tante possibilità per avere rapporti migliori.

C’è da considerare, però, un grande interrogativo: nella politica estera l’obiettivo è quello di portare i nostri valori agli altri, la democrazia e i diritti, eventualmente anche con la guerra? Oppure, come disse in un discorso dimenticato ma bellissimo il Presidente John Kennedy, «noi non dobbiamo convertire nessuno»? Noi dobbiamo semplicemente creare le condizioni perché ci possa essere un rapporto tra le nostre diversità. La convivenza delle diversità.

Il mondo, se vuol fare la pace, deve scegliere questa seconda opzione. Non possiamo pensare di convertire alla religione, alla democrazia, o ad altro, perché si rischia di ottenere il risultato opposto.

Abbiamo provato a farlo e, negli ultimi quindici anni, l’autoritarismo nel mondo è aumentato, dalle Filippine alla Cina, alla Russia. Eravamo tutti contenti che in Africa ci fossero le elezioni. Dopo cinque o dieci anni, i leader eletti, che non potrebbero esserlo di nuovo a norma di Costituzione, rimangono al potere e divengono dittatori.

Attenzione quindi! Se il mondo vuol vivere nella pace e nello sviluppo, non può che cercare di trovare le regole per far convivere le diversità, mentre noi abbiamo veramente vissuto, e stiamo vivendo, un periodo di scontro ideologico. Non ci sarà mai la pace se c’è lo scontro ideologico, perché la teologia non è fatta per la convivenza.

Come ho ricordato prima, ho capito che lo scontro tra Russia e Ucraina, che già avevano avuto tensioni sempre maggiori, stava diventando inevitabile quando il Patriarca di Costantinopoli ha sancito la divisione tra Chiesa ortodossa russa e Chiesa ortodossa ucraina, rompendo così uno degli ultimi legami tra i due Paesi.

Il mondo di oggi viene riassunto dai politologi americani con la formula «West contro tutti». Se così è, lo scontro ci sarà sempre. Si deve cercare di capire come fare, quali regole creare tutti insieme, per far sì che West e East convivano. Non è facile perché, ad esempio, vediamo che in economia cinesi e americani sussidiano le loro imprese. La capacità di creare regole condivise è la politica estera, che deve gettare le basi per la convivenza e non cercare di imporre il prevalere di una dottrina.

Lei ha detto che la UE è come un pane a metà cottura. Cosa possiamo fare noi giovani, anche nella quotidianità, per la UE?

R.P. Pregare! Battute a parte, io conto molto sulla nuova generazione, che comprende questi argomenti più delle precedenti. Se guardate anche Brexit, si evidenzia una grande diversità di voto tra generazioni e per questo conto sul vostro senso di conoscenza e di comunità. Erasmus ha fatto molto per l’Europa. Queste cose non si misurano mai e io scherzando dico che Erasmus ha fatto più bambini che Premi Nobel! Ma è con i bambini che si fa l’Europa.

A mio parere la nuova generazione ritiene l’Europa irreversibile e questa è già una grande cosa, perché nel momento di tensione c’è sempre chi mette in discussione tutto. Non i giovani. Ecco, il problema sta nel non far scivolare i momenti che stiamo vivendo, ossia non provocare incidenti. La vostra generazione deve credere che il processo europeo possa andare avanti, nonostante tutte le critiche, anche brutali, che ho mosso prima. Non abbiamo alternativa. Questo è quanto la nuova generazione deve capire. Può esserci il momento nel quale qualcosa del sistema, o delle condizioni politiche o del Paese, salta, ma è molto più importante tenere insieme il rapporto con l’Europa e avere pazienza.

Molti criticano l’allargamento a Est, ma la democrazia è faticosa e lunga, e il sistema sta tenendo. Ci vorrebbe un “visionario della politica capace di prendere grandi decisioni. Al momento, solo la Francia può avere un ruolo del genere, ma i francesi sembrano non avere questa visione. Perché dico che non possono essere che loro?

Questa guerra sta causando grandi cambiamenti; il fatto che la Germania per settant’anni non abbia mai voluto impegnarsi per la Difesa (tutti i partiti d’accordo), e in un giorno solo il Governo tedesco abbia stanziato una somma che ha portato il bilancio della Difesa tedesca a più del doppio di quello francese e di quello russo, è fondamentale. La scelta della Germania non crea problemi oggi, ma, nella proiezione del domani, un’Europa che è andata avanti gestendosi in un equilibrio fra Germania e Francia, con un’Italia che ha sempre contato, pur non essendo mai stata il motore dell’Europa, ma sapendo determinare quale dei due motori potesse prevalere, si troverebbe improvvisamente sbilanciata. Tra sette-otto anni è possibile che vi sia un solo motore, la Germania appunto.

Gli esperti francesi ritengono impossibile il quadro che vi sto facendo, perché la Francia è molto più avanti, ad esempio, nell’aerospazio. È vero, ma se la Germania ha il doppio di bilancio della Difesa rispetto alla Francia non si può far finta di nulla. Adesso ci sono problemi nella coalizione di governo tedesca, ma nel lungo periodo è inevitabile un cambiamento in Europa dovuto al nuovo peso della Difesa tedesca. La nuova generazione deve riequilibrare questi scenari, deve realizzare al più presto possibile l’unità europea. Oggi il passo in avanti può essere fatto solo da Macron, qualora decidesse di mettere l’arma nucleare e il diritto di veto al Consiglio di Sicurezza al servizio dell’Europa e non della sola Francia. Questo farebbe fare un salto in avanti enorme alla stessa unità politica europea. Ma Macron non lo fa, perché gli ex imperi sono peggiori degli imperi, sono come uno che guida guardando solo lo specchietto retrovisore. E la Francia fa proprio questo. Può andare bene… ma anche male. 

Perché c’è stata la Brexit? Quando la Commissione andava a discutere con la Gran Bretagna non vi erano grandissime difficoltà per il fattore economico, ma il vero tema era «nessuno ha mai comandato su Londra! Non ci faremo comandare da Bruxelles». Ancora la prospettiva dell’ex impero. La Francia di oggi sta perdendo pezzo per pezzo l’Africa, ma non compie il grande passo verso l’Europa unita perché il popolo francese non vuole compierlo.

Ricordiamo che l’Europa è cambiata nel 2005, quando i francesi hanno bocciato la Costituzione europea, proprio perché cittadini di un ex impero. La nuova generazione, andando avanti, deve superare tutti questi ostacoli. È necessario avere sempre l’obiettivo di raggiungere quella unità che sarà la nostra sopravvivenza.

In virtù della Sua esperienza vorrei una previsione sulla durata del Governo Meloni. Lei, da ex Presidente del Consiglio, come vede le vicende politiche attuali?

R.P. Domanda complessa e risposta complessa. La Presidente del Consiglio ha capito che esistevano due binari obbligati e che se non li avesse seguiti, sarebbe rimasta al governo non più di dieci minuti. Per la politica estera ha messo un “ameriKano” con la Ke per la politica europea un “Europeo” con la E, così da tranquillizzare tutti. Il resto… mancia, con tutte le varie divisioni e con tutti i problemi. Il grande interrogativo complesso che questo governo ha sta nella scelta di quale Europa seguire: quella di Germania, Francia, nella quale ci dovrebbe essere anche l’Italia, o quella di Ungheria e Polonia? Ogni giorno c’è un amore per l’una o per l’altra Europa, con un atto concreto verso l’Europa “tradizionale” per poi passare ai grandi amori in Ungheria o con la destra spagnola. Questo è il grande problema di Giorgia Meloni: mentre nel definire il governo era chiaro che il binario era stretto e che perciò era necessario seguire le due linee che dicevo, nell’azione quotidiana ha di fronte una serie di divisioni e di questioni che riguardano la sua stessa storia, che la porterebbero in altra direzione rispetto a quei due binari obbligati. Tutto questo provoca problemi seri, perché la politica è fatta di tanti capitoli. La Meloni ha messo in sicurezza il governo con le due grandi alleanze – Stati Uniti ed Europa – ma il resto è in una generale paralisi. Questa è la risposta che posso dare, senza andare nelle analisi minute, che mi viene dall’osservazione.

Torno sull’argomento UE. Negli ultimi dicci anni, Lei ha ripetuto più volte della necessità di costruire un’Europa a 2 velocità per consentire un salto in avanti. Di questo ho parlato con compagni d’università della Repubblica Ceca, europeisti, avvertendo una specie d’indignazione. Ritiene sia possibile mettere in atto questo progetto nel futuro prossimo? E se si, come gestire, anche emotivamente, questo processo di diversificazione?

R.P. In questo momento ci sono Paesi che hanno sentimenti molto diversi, anche per la loro storia. Aver vissuto sotto dittature per tanto tempo cambia tutto. In questi giorni ero in Armenia e l’eredità del passato lì pesa tanto. In questo momento, quindi, c’è solo una cosa da fare: finirla con l’unanimità e prendere alcune decisioni a maggioranza. Poi si potrà fare come con l’euro, dove siamo partiti con dodici Paesi e siamo già a venti.

Questo è realismo; capisco che molti possano non apprezzare, ma è necessaria un’Europa a più velocità con uno schema diverso. Si deve essere molto chiari sui confini dell’Europa. lo sono per completare l’allargamento ammettendo l’Albania e i Paesi Balcanici della ex Jugoslavia, per poi riformare le istituzioni. Con l’attuale situazione, infatti, i Paesi sarebbero troppi e non sarebbe possibile governare. Inoltre, il diritto di veto rende “gigante” un Paese “nano”. Immaginiamo, per esempio, che Lussemburgo o Malta possano bloccare 400 milioni di persone. In casa potranno vantarsi del grande successo, ma in realtà avrebbero usato un’arma terribile. Se vogliamo progredire dobbiamo lavorare con la maggioranza qualificata: nove Paesi che rappresentino un certo numero di abitanti, e così via. Se si mettono assieme Francia, Germania, Italia e Spagna, il gioco è fatto: altri dieci arriveranno. Non c’è altra strada perché in questo momento il governo polacco in carica ha tutto l’interesse a tornare al nazionalismo, così come quello ungherese.

E domani potrebbe essere la Lettonia o un altro Stato. Quando si hanno interessi tanto particolari, basta poco e tutto salta in aria. Non possiamo andare avanti con l’unanimità. L’unanimità non è democratica, mentre l’Europa lo è.

Vorrei un Suo parere sulla eventuale responsabilità della NATO nell’attuale guerra in Ucraina, partendo anche da quanto ci ha detto prima su Putin e sull’ossessione che, già negli anni Duemila, aveva per la NATO.

R.P. Nel 2008, già dopo la sfiducia al mio governo, come ultimo atto votammo contro la proposta di George W. Bush di far entrare nella NATO Georgia e Ucraina. Votarono contro anche Germania e Francia. Ora si parla solo del “no” tedesco e francese, perché il mio governo era ormai alla fine, ma fu un voto che aveva una motivazione importante.

Sono cresciuto con la dottrina politica che afferma che, quando vi sono imperi forti, è necessario che vi siano dei cuscinetti. Adesso, alcuni politologi ritengono che sia stato un grande errore non ammettere Georgia e Ucraina, ma allora fu un compromesso importante, perché la posizione americana era molto forte. Si decise di non ammettere i due Stati, ma di prevedere che in futuro si potesse riaprire il discorso.

Oggi, come ho detto, alcuni affermano che sarebbe stato meglio ammettere nella NATO già allora Georgia e Ucraina, così che la Russia non avrebbe attaccato i due Paesi. Io ritengo, invece, che proprio per la dottrina cui ho fatto cenno fosse necessario un compromesso. La politica è compromesso: portare la NATO in quei due Paesi avrebbe accelerato la guerra, avvicinandola a noi. Non si tratta di colpa o meno, ma si è spaccato un certo tipo di rapporto, con l’errore rilevato da Kissinger cui facevo riferimento prima, ossia lasciare che le due potenze fossero a contatto.

Quando parlo di Stati Uniti e Cina come Paesi decisivi per le sorti della guerra, escludo anche la Russia. Ormai la disparità tra Cina e Russia è molto evidente. In questi giorni si registra una crisi economica in Cina, ma nel decennio precedente al Covid essa è cresciuta di una Russia all’anno. Mi pare un dato chiaro. Nell’ultimo vertice di Samarcanda tra Cina e Russia si vedeva l’enorme disparità tra i due Paesi: Putin tiene una grande conferenza stampa e parla mentre Xi tace e rifiuta di fare la “foto di famiglia”, atto tipico dei vertici. Non riesco a interpretare questa condotta, sin quando un mio collega siciliano, che insegnava a Pechino, mi dice: «Dopo quarant’anni che frequenti la Cina non hai ancora capito che i cinesi quando dissentono… tacciono. Come i siciliani».

Un’Europa a due velocità per arrivare all’Europa di tutti. Incontro con Romano Prodi ultima modifica: 2023-11-13T17:16:59+01:00 da INCONTRO CONDOTTO DA FABIO MARTINI
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