
Recep Tayyp Erdoğan e l’immagine di Mustafa Kemal Atatürk
Oltre all’Europa, e in una prospettiva che potremmo definire “eurasiatica” (non “eurasiatista”, termine ideologico), esistono due grandi paesi sospesi tra i due continenti che sono asiatici per la maggior parte della loro storia e della loro estensione geografica, europei per antica o per recente scelta e al tempo stesso per estensione di una parte del suo territorio.
Sono paesi la storia dei quali è in certo senso parallela e che pure, da ormai quasi un mezzo millennio, sono tradizionalmente nemici tra loro per ragioni decisamente geostoriche. Sono la Russia e la Turchia, che rispetto all’Europa hanno fatto una scelta di approssimazione se non di convergenza identitaria mai perfetta, comunque decisa: la Russia dalla fine del XVII secolo con Pietro il Grande, al quale Putin per molti versi somiglia (anche se, dicono, attraverso la mediazione di Stalin), e la Turchia dalla fine del secondo decennio del secolo scorso con Mustafa Kemal al quale Recep Tayyp Erdoğan non somiglia affatto per quanto si ostini a farsi riprendere da telecamere e cinecamere accanto o sotto le onnipresenti effigi del ghazi fondatore della nuova Turchia “laica” ed europea.

Recep Tayyp Erdoğan, al centro col microfono. Accanto a lui, a sinistra, Binali Yıldırım e, a destra, Ahmet Davutoğlu
Ma, vista la politica dell’attuale presidente della repubblica turca, c’è da chiedersi fino a quando le effigi del ghazi resteranno onnipresenti nel territorio della repubblica turca, come ancor oggi e nonostante tutto sono. Con Mustafa Kemal, la tradizionale inimicizia fra Turchia e Russia venne meno: anche grazie all’intelligenza dell’Atatürk e al fatto che Stalin stava ben attento a non spingerlo troppo tra le braccia né d’inglesi e di francesi, né tantomeno di Hitler (tanto più che il ghazi non ci sarebbe comunque andato).
Con Erdoğan, siamo tornati al quadro geopolitico consueto: con l’aggravante però della complicazione dovuta al fatto che il presidente turco, se da una parte appoggia l’Occidente nel rinnovato clima odierno di “guerra fredda” ostacolando la politica mediterranea e vicino-orientale di Putin, dall’altra mostra di aver ormai perduto gran parte del suo primitivo interesse per facilitare al suo paese l’ingresso nell’Unione Europea. Difatti sta ricattando l’Europa con la minaccia di riversare sul continente un nuovo imponente flusso di profughi se essa non accetterà le sue condizioni mentre si dichiara indisponibile a mutare le sue misure a proposito di terrorismo insensibile al fatto che l’Europa può congelare la liberalizzazione dei visti d’ingresso per cittadini turchi, e ben pochi fra loro hanno un passaporto.
La tattica di Erdoğan sta evidentemente puntando a una stretta autoritaria nel paese. Le dimissioni da primo ministro di Ahmet Davutoğlu, che aveva sempre affermato di tenere all’autonomia dei suoi poteri garantita dalla costituzione, hanno un significato chiaro: a questo punto il nuovo primo ministro, Binali Yıldırım, sarà un “coordinatore” incaricato di eseguire la volontà del presidente.
Dove il presidente vuole arrivare, appare evidente: e l’ha dichiarato egli stesso fino dalla sua prima dichiarazione pubblica all’indomani delle dimissioni del primo ministro. La stabilità, l’ordine, la sicurezza del paese richiedono l’adozione di un sistema presidenziale: solo il presidenzialismo può mettere il paese al sicuro da nuove crisi politiche. E potrebbero essercene, visti i risultati delle due elezioni legislative dello scorso anno. Ma per riformare la costituzione occorre un referendum, e l’AKP non ha la forza parlamentare sufficiente a garantirsi i voti necessari alla convocazione referendaria.
Per rimuovere tale ostacolo, è probabile che Erdoğan punti a elezioni anticipate alla fine dell’estate o comunque entro il 2016. La sua AKP dispone già del cinquanta per cento circa dei voti: gliene mancano una dozzina per far quel che vuole in parlamento, e a questo fine il presidente conta sull’ostilità diffusa dell’opinione pubblica turca contro il PKK (gli indipendentisti comunisti curdi), mentre il Partito Democratico del Popolo (HDP), di sinistra e filocurdo, rischia di non superare lo sbarramento del dieci per cento e quindi di non aver ingresso nell’emiciclo parlamentare, mentre il partito nazionalista di destra MHP appare spaccato al suo interno da tensioni a carattere personalistico fra i dirigenti.

dall’account twitter di Recep Tayyip Erdoğan @RT_Erdogan
In queste condizioni, gli attentati a sfondo terroristico rischiano di rafforzare l’AKP che presenta Erdoğan come l’“uomo forte”: anche se la necessità di dimostrare che essi provengono non solo dai curdi, ma anche dall’ISIS, fa un po’ a pugni con la credibilità effettiva. Perché mai, al di là delle dichiarazioni ufficiali, l’ISIS dovrebbe colpire Erdoğan, che ha i suoi stessi nemici nei curdi, nel governo siriano di Assad e nell’Iran?
La futura Turchia di un Erdoğan padre-padrone di una repubblica presidenziale a partito quasi unico (lo chiamano già da tempo “sultano”) e quindi di quella che alcuni osservatori ingenuamente democratici chiamano “dittatura della maggioranza” (ma esistono, storicamente parlando, dittature che non siano “della maggioranza” o che in breve volger di tempo non lo divengano?) si troverà comunque dinanzi a un dilemma: o rinnegare ufficialmente la “laicità” kemalista o trasformarla in un “territorio interdetto”, sul quale non si discuterà mai ma che resterà lettera morta.
In altri termini, gli onnipresenti ritratti di Mustafà Kemal potrebbero presenziare con il cipiglio del ghazi allo spettacolo di un paese reislamizzato e avviato a una politica “neo-ottomana” di prestigio “imperiale” sul Vicino Oriente e sulle nazioni turco-mongole al di qua e al di là del Caspio: Azerbaigian, Turkmenistan, Kazakhstan, Uzbekistan, Kirghizistan, dove già esistono e sono in crescita gruppi sensibili al jihadismo islamista e al panturchismo, due forze usabili entrambi in senso tanto antirusso quanto, se necessario, antioccidentale.

İsmail Enver, noto anche come Enver Paşa o Ismail Pascià, capo dei Giovani turchi
Chissà che il futuro eroe nazionale turco non diventi Enver Pascià, il dittatore panturchista del tempo della prima guerra mondiale, il protagonista della rivolta dei “basmachi” dell’Asia centrale contro l’Armata Rossa fra 1920 e 1925. Sarebbe interessante; e anche divertente per quasi tutti, Putin escluso.

Franco Cardini

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