A prima vista è una inusuale lite tra partiti comunisti, quello greco (KKE) e quello greco-cipriota (AKEL) sui negoziati in corso per giungere alla riunificazione di Cipro, l’isola in parte occupata dalle truppe di Ankara fin dall’invasione del 1974. Dietro le quinte però la divergenza tra “partiti fratelli” tradisce il crescente nervosismo verso l’ipotesi di accordo che portano avanti i negoziati in corso tra le due comunità dell’isola: quella greco-cipriota (maggioritaria col 82 per cento), rappresentata dal presidente conservatore Nikos Anastasiades e quella minoritaria (18 per cento) rappresentata dal leader turco- cipriota Mustafa Akıncı
Agli inizi di novembre il comitato centrale del KKE ha pubblicato una deliberazione in cui contestava l’ipotesi di un futuro assetto federalista della Repubblica, con “due stati costituenti”, uno per ogni comunità. Secondo i comunisti greci, si tratterebbe di una forma istituzionale che sancisce la “segregazione” tra greci e turchi, “alimenta gli elementi di divisione e di conflitto” e “mette a rischio l’esistenza stessa della Repubblica di Cipro”, paese membro dell’Unione Europea e dell’eurozona. Per i comunisti greci, Cipro deve essere una Repubblica unita con un’unica sovranità, una cittadinanza e un’unica personalità internazionale, in modo da non cadere preda dell’“espansionismo militarista turco” e preservare l’indipendenza “di tutto il popolo cipriota”.
Dura la risposta dell’AKEL, che a suo tempo era stato uno dei promotori della soluzione federale. In un editoriale del quotidiano di Nicosia Politis, chiaramente ispirato dai vertici del partito, si ricordava ai compagni di Grecia che i negoziati basati sulla soluzione federale vanno avanti dalla fine degli anni Settanta. Rivendicava inoltre il diritto dei ciprioti di decidere da soli il destino dell’isola e concludeva con un discutibile confronto tra l’AKEL, uno dei due maggiori partiti dell’isola, e il KKE, definito “un partito al limite della sparizione” dalla scena politica greca.
In effetti, mentre l’AKEL può vantare un presidente della repubblica, Dimitris Christofias, in carica fino al 2013, i comunisti greci a malapena riescono a sollevarsi oltre il cinque per cento. Apparentemente quindi non c’è partita e le critiche provenienti da Atene poco incidono sui negoziati in corso, sostenuti con forza dai comunisti ciprioti (pur essendo all’opposizione).
Ma non è così. Secondo Anastasiades, nelle trattative si sono raggiunte “convergenze significative” su una serie di questioni, come per esempio la forma di governo, con l’alternanza tra un presidente greco e uno turco. Rimangono, anche dopo la settimana di duro confronto tra i due leader nelle Alpi svizzere, importanti divergenze sull’estensione territoriale dello “stato costituente turco-cipriota”: ora la parte di Cipro in mano ai militari turchi copre il 37 per cento dell’isola, troppo. Ci sarà quindi una riduzione della sua estensione ma non si sa di quanto.
Però lo scontro riguarda soprattutto un altro punto di fondamentale importanza: quello della sicurezza.
La Costituzione della Repubblica di Cipro, sancita nel 1960, l’anno dell’indipendenza, prevede la presenza sull’isola di limitati contingenti militari (950 soldati greci e 650 turchi) ma soprattutto sancisce come “garanti” dell’indipendenza dell’isola la Grecia, la Turchia e la Gran Bretagna, che vi mantiene due importanti basi militari.
La proposta che aveva avanzato nel 2004 l’allora segretario generale dell’ONU Kofi Annan accettava in linea di principio il superamento del sistema delle garanzie e prevedeva una road map, dai quindici ai vent’anni, per il ritiro “graduale” delle truppe turche dalla parte nord dell’isola. Un periodo infinito che non convinse i greco-ciprioti: quando ci fu il relativo referendum, la proposta di Annan fu clamorosamente bocciata.
Anastasiades, che all’epoca era stato favorevole al piano Annan, sembra aver recepito il messaggio: nella nuova Cipro federale non ci devono essere né soldati stranieri né “garanzie” di stati stranieri, in grado, all’occorrenza di legittimare interventi militari. Londra si è dichiarata pronta a rinunciare al suo ruolo di garante e ha anche promesso di limitare l’estensione delle sue basi in caso di riunificazione. Anche Atene è pronta a rinunciarci. All’incontro tra Tsipras e il presidente cipriota il 16 novembre, il premier greco è andato anche oltre: se ci sarà la richiesta di una conferenza tra i paesi interessati per agevolare i negoziati tra le due comunità, la Grecia vi prenderà parte solo per deliberare la fine delle garanzie. In altre parole, Atene non sosterrà alcun accordo che preveda una presenza militare, effettiva o potenziale, della Turchia sull’isola.
Diametralmente opposta la posizione di Ankara. Recep Tayyip Erdoğan non ne vuole sapere di fare un passo indietro. Dal 1974 lo stato non riconosciuto che la Turchia ha fondato nel nord di Cipro funziona nei fatti come una colonia, con più di quindicimila militari a controllare la situazione, un massiccio trasferimento di coloni anatolici, gli impiegati pubblici che prendono lo stipendio in lire turche e l’ambasciatore nel ruolo di proconsole. Da quest’anno vigerà perfino l’orario turco, con un’ora di anticipo rispetto al resto dell’isola.
Nel suo libro “Profondità Strategica” l’ex premier Ahmet Davutoğlu aveva teorizzato la necessità che la Turchia avesse il controllo di Cipro “anche nel caso in cui non ci fosse neanche un turco né un musulmano”. Per ragioni geostrategiche, sostiene Davutoğlu, in modo da piantare una bandierina al centro del Mediterraneo orientale. Erdoğan può aver silurato dal governo il principale teorico del neo-ottomanesimo, ma segue le sue indicazioni, magari servite in salsa islamista. Akıncı, eletto nell’aprile del 2015 con un programma di forte differenziazione rispetto alla “madrepatria turca”, ora è costretto ad adeguarsi.

Le stazioni di polizia Onu (Unpol) presenti nell’isola, parte del contingente UNFICYP
Nel corso dei negoziati sono state esplorate diverse formule, come la smilitarizzazione totale dell’isola, il prolungamento sine die del corpo di caschi blu dell’ONU (UNFICYP) che già controllano la Linea del cessate il fuoco tra le due parti, un corpo formato da soldati europei e molte altre. Nulla da fare. Ankara non è disposta a cedere.
Il problema non riguarda solo Cipro, ma tutta l’area del Mediterraneo orientale, già sconvolta dalla crisi siriana. Finora i governi occidentali avevano sollecitato la composizione del problema cipriota evitando però di entrare nel merito. Le stesse Nazioni Unite, che per decenni hanno sponsorizzato i negoziati di pace, spesso hanno ceduto a sollecitazioni epidermiche, di pura facciata, giusto per mostrare vitalità e offrire risultati a un’opinione pubblica internazionale distratta e sfiduciata. Lo dimostra chiaramente la proposta di soluzione di Kofi Annan, una costruzione istituzionale farraginosa e disfunzionale, che anche nel caso di successo ai referendum sarebbe crollata dopo pochi anni. Quanto all’Unione Europea, malgrado i ripetuti appelli di Nicosia, non ha mai ritenuto di doversi occupare di questo problema cronicamente irrisolto, che, in fin dei conti, prevede l’occupazione di territorio europeo da parte di un paese non europeo, formalmente ancora “candidato”.
Ora le cose stanno rapidamente cambiando in peggio. Se nel 2004 Erdoğan aveva mostrato il suo volto civile e democratico, ora agita apertamente la bandiera degli ottomani e non esita a rivendicare Mosul, Aleppo, perfino Salonicco e le isole dell’Egeo.
La piccola Cipro, nel frattempo, spendendo con cura le sue carte, è riuscita a sfruttare le sue riserve di idrocarburi scoperte in fondo al mare, per creare un’area di cooperazione non solo energetica ma anche strategica con Israele e l’Egitto, aperta alla Giordania, al Libano, allo Stato palestinese, oltre che alla Grecia e all’Italia. Una zona di stabilità in un ambiente estremamente turbolento e infiammabile.
Ecco quindi il messaggio neanche troppo nascosto che i comunisti greci hanno voluto lanciare a nuora perché suocera intenda: non tanto, quindi, ai loro compagni ciprioti quanto all’Europa e agli Stati Uniti. Sappiamo che finora vi siete mossi per chiudere la questione cipriota in qualsiasi maniera, pur di sanare un potenziale focolaio di tensione in grado di destabilizzare il fianco sud della NATO. A causa di questa urgenza di chiudere, le vostre pressioni si sono rivolte prevalentemente verso la parte più debole dell’equazione, cioè i greco-ciprioti. Il rischio però è grande: se Erdoğan riesce a uscire vincitore da questo braccio di ferro, avremo uno stato autoritario e islamista, che dispone di grande potenza militare, che mette piede, da forza egemone, nel Mediterraneo orientale. L’Occidente non ha nulla da guadagnare da una situazione del genere. Al contrario, ha tutto da guadagnare ponendo forti argini alle velleità neo-ottomane dei turchi.