L’Iran, il vero playmaker del Medio Oriente

Iraq, Siria e Yemen. Da Bush a Trump, passando per Obama, i presidenti americani disfano ciò che i loro predecessori fanno. E lentamente consegnano il Medio Oriente a Teheran.
RICCARDO CRISTIANO
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A forza di disfare quella del predecessore, la politica della Casa Bianca sembra paradossalmente aver seguito una linearità incredibile da quindici anni a questa parte: consegnare il Medio Oriente arabo all’Iran, sebbene sarebbe più giusto dire alla Persia, cioè al rinascente impero persiano, che passa da Ciro il Grande a Qassem (Soleimani, il capo della brigata al Quds dei Pasdaran) il Grande.

Vediamo.

Dopo aver armato fino ai denti Saddam Hussein – opera nella quale fu attivissimo Donald
Rumsfeld – quest’ultimo, George Bush junior e Dick Cheney elaborarono la grande idea di esportare la democrazia a cominciare proprio dall’Iraq, cioè da quello che lui e i suoi avevano fatto diventare il baluardo militare del contenimento dell’esecrato Iran. L’invasione, in sé non un male visto l’orrore del regime di Saddam, come tutti ricordiamo fu così studiata e pianificata che in breve si scoprì che i confini del paese non erano sorvegliati, chiunque poteva entrare o uscire a piacimento, l’esercito veniva disciolto con le conseguenze del caso, il proconsole tornò a casa dopo pochi mesi, e la consegna del potere all’astuto affarista (sciita) Chalabi (vice-primo ministro fino al 2006, soprannominato “il fabbricatore”) l’ultima perla. L’insurrezione sunnita e il boom di al Qaida costrinsero gli americani a fare sul serio, inviarono in loco il generale David Petraeus e al Qaida venne sconfitta.

 

Le Syrian Democratic Forces liberano Raqqa, in Iraq

Intanto però nelle galere nasceva quel patto omertoso tra ex baathisti e qaedisti
che avrebbe dato vita al mostro Isis. Grazie all’esportazione della democrazia, che purtroppo non ha voluto dire inclusività, governo delle complessità, ma semplicemente celebrazione di elezioni anche lì dove le uniche linee di demarcazione rimaste sono quelle tra appartenenze confessionali, i khomeinsisti si prendevano il potere.

Baghdad non è una città qualsiasi, è una sede califfale. E per i khomeinisti controllare Baghdad non equivale a controllare Bassora.

Barack Obama, arrivato al potere, pensò subito di disfare il disastro fatto dal suo predecessore, soprattuto per la necessità di contenere i costi, e questa scelta portò via con il male anche il “gran bene” fatto da Petraeus. Risultato: il triangolo sunnita fu abbandonato a sé stesso, le provocazioni del governo khomeinista di al-Maliki ridiedero fiato al qaedismo in una popolazione straziata ma indisponibile a subire le angherie delle milizie khomeiniste.

Incamminato sul nuovo sentiero, Obama ritenne di procedere con la politica delle “mani libere” abbandonando le opposizioni siriane (da lui definite “contadini e dentisti che mai vinceranno”) anche quando Assad varcò la famosa linea rossa tracciata dal presidente americano, gassando i suoi sudditi nella periferia damascena della Ghouta. Lì l’Isis costruì il suo patto con molte tribù sunnite terrorizzate dal revanscismo sciita.

Militari del People’s Protection Units (YPG), milizia curda, posano con una famiglia yazida a Raqqa

Poi arrivò il curioso accordo sul nucleare: curioso perché al fine di “ridurre la tensione regionale” taceva sugli sviluppi del conflitto territoriale in Siria, Iraq, Yemen, mentre distendeva sul nucleare con l’Iran in cambio di accordi positivi che garantivano però a Teheran anche danari utili per finanziare le costose imprese territoriali dei Pasdaran.

Donald Trump ora è preso dalla frenesia di smantellare la legacy obamiana, in particolare l’accordo con l’Iran, e così le milizie khomeiniste, guidate da Qassem Soleimani, entrano trionfalmente a Kirkuk, terrorizzano le popolazioni sunnite del triangolo iracheno, e lasciano presagire a tutti scenari tragici per il futuro. Perché?

Perché Trump, il presidente statunitense che per sconfiggere l’Isis si è alleato con i terroristi del Pkk in Siria e con i khomeinisti in Iraq, ora arma l’esercito iracheno, notoriamente legato all’Iran, ma non dà gli aiuti promessi ai curdi, che hanno fatto fuori l’Isis a Raqqa.

Dunque Trump conferma al popolo iraniano, sfilandosi senza violazioni da un accordo internazionale, che gli Stati Uniti sono inaffidabili: non sarebbe stato meglio restare e dichiarare, quali sono, terroristi i pasdaran? Non sarebbe stato così che si metteva in difficoltà il regime con una popolazione che già non lo sopporta?

Trump, come Obama, ha voluto fare di tutto per disfare la politica del suo predecessore, ma sembra proprio che concluda la politica di Bush portata avanti da Obama: e cioè consegnare il Medio Oriente arabo ai “persiani”.

Tutto sommato furono loro, gli americani, ad avviare negli anni Settanta il progetto nucleare iraniano, chiedendo poi verifiche e limitazioni in tutto simili a quelle che sono richieste oggi e facendo inalberare gli uomini dello scià, che volevano essere trattati da grande potenza regionale.

Le Syrian Democratic Forces liberano Raqqa, in Iraq

Ma è la diffusa indisponibilità a rendersi conto dell’enormità politica, religiosa e culturale della scelta, voluta o occasionale, di consegnare ai khomeinisti un impero informale che va da Teheran a Beirut, con Hezbollah pronta a diventare il braccio regionale dell’imperatore, comincia a fare spavento.

Soprattutto se si pensa che questo passa necessariamente attraverso il transfer forzato di milioni di sunniti iracheno-siriani.

Quale rabbia coverà sotto le ceneri che russi e iraniani hanno steso su intere città? Quale rabbia coverà tra i curdi, nuovamente abbandonati? Mai la fine di una guerra contro un nemico ritenuto da tutti il peggiore è stata più inquietante.

L’Iran, il vero playmaker del Medio Oriente ultima modifica: 2017-10-19T08:23:55+02:00 da RICCARDO CRISTIANO
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