Bella trovata, quella di Aldo Garzia, di dedicare qui un bel pezzo alla “sinistra tennistica”. Come dire che può essere un capitolo di una carrellata sul privato del politico: la sinistra gastronomica, la sinistra in motorino, la sinistra velica, la sinistra musicale… Alt, questo capitolo lo scrivo io non solo in quanto modesto melomane e addirittura, qualche decennio fa, uno dei tanti “vice” della critica musicale dell’Unità, ma anche per la ventura che mi è capitata spesso di parlare appunto di musica cosiddetta seria, e non, con molti della sinistra.
A cominciare da Enrico Berlinguer, per qualche tempo il mio interlocutore più frequente, più impegnato, più colto. Ci fu infatti un periodo, a cavallo degli anni Settanta-Ottanta, in cui dovetti sostituire a lungo l’infortunato (in uno spaventoso incidente d’auto) Ugo Baduel, grande giornalista politico anche lui troppo presto scomparso, che era e restò sino alla morte di Enrico il resocontista di fiducia del segretario. Fu deciso dunque che fossi io a sostituire Ugo: non per mio merito specifico ma solo perché ero il responsabile della squadra dei resocontisti del Comitato centrale del Pci e in quanto tale considerato adatto o quanto meno allenato ad una bisogna così delicata.
Quando dunque eravamo liberi dal lavoro – la laboriosa, attenta preparazione notturna di un discorso, in un tête-à-tête tra Enrico e il suo portavoce Tonino Tatò – uno degli argomenti preferiti di discussione era l’opera. Lui era un appassionato, profondo conoscitore di Wagner: il ciclo dell’”Anello” era per lui uno dei vertici della storia della musica seria. Ma Berlinguer – come mi raccontò una volta Renzo Trivelli, successore di Enrico alla segreteria della Fgci – aveva un cruccio: pensando a come e quanto Wagner e in particolare le sue ouvertures fossero state sfruttate da Hitler e dal nazismo, si chiedeva se quella sua preferenza non fosse in contrasto con la cultura marxista e la coscienza socialista.
Ne parlavamo talvolta tra il serio e il faceto, aggiungeva Renzo. Un giorno, con un lieve sorriso disse che anche Togliatti era un poco wagneriano e che, parlandone con lui, avevano convenuto che c’era piena autonomia tra piacere estetico e pensiero razionale. Il caso era dunque risolto.

Enrico Berlinguer
In realtà la passione di Enrico Berlinguer per Wagner era tutt’altro che una semplice cotta giovanile. E quanto più, in campo operistico, ero (e sono rimasto) tendenzialmente di gusti assai diversi, tanto più Enrico, con il suo tono piano, quasi sommesso, sottolineava, a ragione, il valore di Wagner anche sul piano “tecnico”: la straordinaria inventiva nell’orchestrazione, il ruolo così accorto delle voci, la simbiosi tra partiture e libretti anch’essi del resto scritti dal compositore tedesco.
Questa storia dei libretti saltò fuori una notte quando, passeggiando non ricordo per quale città, notammo la locandina di una recita del “Trovatore”, libretto del solito, spesso insopportabile Salvatore Cammarano. Allora, pensando proprio alla trama notoriamente pasticciata dell’opera verdiana, Berlinguer fece un paragone bruciante e sacrosanto: “Ecco un esempio calzante! Ti immagini un Cammarano per Wagner?”. Inutile replicare di fronte ad un dato incontrovertibile. Ma tirai fuori, per come mi aiutava la memoria, la mia arma segreta: quella divertente pagina dei “Buddenbrook” in cui il maestro di musica della casa, l’organista signor Edmund Pfuhl, pregato di suonare qualche battuta della riduzione per piano del “Tristano e Isotta” (considerata, allora, “musica moderna”), oppose un rifiuto secco, mostrando il più profondo ribrezzo press’a poco così: questa roba non la suono… questo è il caos, è demagogia, bestemmia, demenza, la fine di ogni morale nell’arte! Enrico mi replicò mostrando non solo di aver letto il capolavoro di Thomas Mann, il che era scontato, ma di conoscerlo assai meglio di me. Già – mi domandò –, ma cosa risponde Gerda Buddenbrook al signor Pfuhl, nostalgico di chi aveva preceduto Wagner? Risponde press’a poco così: ma già Beethoven sconcertò i suoi contemporanei educati all’antica… E Bach? Non gli rimproveravano forse la mancanza di armonia e di chiarezza? Mi tacqui, e mi pare che non toccai più l’argomento, anche se restai (e resto) verdiano quanto Cofferati, ma fedele anche a Bellini, e soprattutto a Mozart.
Se Berlinguer conosceva, amava e ascoltava la musica non solo operistica ma anche sinfonica e da camera, anche Giorgio Napolitano è un autentico intenditore e frequentava teatri e auditorium, ma da presidente della Repubblica andava solo, perché in veste ufficiale, all’inaugurazione delle stagioni del Costanzi e della Scala. Nient’altro: per non disturbare il pubblico con la sua presenza. Semmai andava talora, quasi in incognito, solo ai concerti cameristici domenicali promossi da RadioRai3 nella Cappella Paolina al Quirinale.

Giorgio Napolitano con il maestro Daniele Gatti, il direttore milanese allora 51enne che dirige “La Traviata”, 8 dicembre 2013 – foto Brescia/Amisano © Teatro alla Scala
Passati i nove anni da capo dello Stato, è tornato a frequentare talora l’Auditorium, per quanto gli consente l’età e la salute. Ma ha una gran risorsa nella musica riprodotta, che ascolta con attenzione da un apparecchio assai sofisticato con cui ripercorre tappe fondamentali della sua cultura dell’antico e del più moderno repertorio, fermo restando tra gli autori del secolo breve l’ammirazione e lo straordinario rapporto anche personale che ha avuto per Luigi (“Gigi”) Nono. Ha il palato fine, Napolitano: tra i tenori, tanto per dire, non c’è traccia nella sua discoteca di Andrea Bocelli… C’è, piuttosto, e ci tiene molto, la targa del Dan David Prize, il premio che ogni anno è conferito (a lui nel 2010), dalla fondazione che ne ha dato il nome e dall’Università di Tel Aviv, a tre personalità che si sono distinti nel campo delle scienze o della cultura. Premio assai ricco (non solo di targa), che Napolitano destinò, non a caso, alla West Eastern Divan, l’orchestra israelo-palestinese allora appena fondata e diretta da Daniel Baremboin.

Pietro Ingrao
A proposito di riproduttori assai sofisticati, uno toccò in dono (da parte di Rina Gagliardi e di Aldo Garzia, a nome della redazione del manifesto) a Pietro Ingrao quando compì ottant’anni. Pietro era un altro cultore della musica, anzi nel suo caso, delle musiche. Capitò infatti, alla metà degli Anni Ottanta, che sentisse parlare di Patti Smith, quest’antidiva cantatrice e poetessa. Sempre curioso, Pietro voleva capire, voleva capirla.
Portatemi qualche disco, desidero conoscere il personaggio, voglio capire qual è la canzone che è un po’ il succo della sua poesia,
chiese ad Aldo e al suo storico collaboratore Carmelo Ursino. Curiosità soddisfatta, e Pietro ne trasse, all’ascolto, motivo di riflessioni non negative sull’evoluzione della cultura, non solo musicale.

Renato Zangheri
Ancor più interessato alla musica rock è stato Renato Zangheri, storico, sindaco di Bologna, presidente dei deputati comunisti, uno dei candidati alla successione di Berlinguer alla segreteria del Pci che fu assunta invece da Alessandro Natta. (Da sindaco, aveva voluto chiamare, contro il parere del suo partito, ma con l’appoggio di Sandro Pertini, per il primo anniversario della spaventosa strage del 2 agosto ’80, nientemeno che Carmelo Bene. Che incantò diecine e diecine di migliaia di bolognesi interpretando dal’alto della Torre degli Asinelli il XXXIII canto dell’Inferno dantesco, protagonista assoluto il Conte Ugolino.)

Carmelo Bene recita Dante dalla torre Asinelli – 2 agosto 1981 (http://simonarinaldi-kolonistuga.com)
Ma restiamo in tema rock: ancora da sindaco organizzò alla fine degli Anni Settanta, nientemeno che in piazza Maggiore, un concertone dei Clash, un gruppo tra i più acclamati in quella straordinaria stagione del punk rock britannico. Scelta in realtà non solo musicale, quella di Zangheri (che pure aveva una conoscenza tutt’altro che superficiale di quel fenomeno), ma anche fortemente politica: per un almeno parziale recupero della storica protesta studentesca bolognese del’77 che aveva Bifo (Franco Berardi) come protagonista della sua ala “creativa”.

Sergio Cofferati
Un altro ex sindaco di Bologna, poi segretario generale della Cgil e poi tante altre cose, Sergio Cofferati, ha un grande e riconosciuto merito in campo musicale: non solo ama l’Opera e quella italiana dell’800 in particolare, ma alla fine degli Anni ’80 l’ha spiegata e fatta ascoltare attraverso una sua trasmissione settimanale a Italia Radio (l’unica emittente gestita dal Pci: scomparsa, come tutte le altre iniziative editoriali del partito che fu) che era diventata popolare anche e proprio per l’originalità e la passione del commentatore in primis di Giuseppe Verdi. E infatti un giorno Cofferati rivelò:
Ho conosciuto prima Rigoletto di Cappuccetto rosso, e a quattro anni ascoltavo rapito Bella figlia dall’amore.
Anche se non disdegnava (e presumo non disdegni tuttora) altre forme musicali:
Sono innamorato del rock, specie di quello di Springsteen e dei primi U2.
Ma Cofferati non è solo un melomane appassionato: contesta il paradosso che nella patria del melodramma non si insegni la musica nelle scuole:
Noi soffriamo della non obbligatorietà dello studio della musica: non viene considerata per quello che è, uno straordinario linguaggio di conoscenza.
E, in fondo in fondo, non gli dispiacerebbe tornare a “insegnare” l’Opera (“mi manca una radio…”):
Mi sono sempre detto che se anche uno dei ragazzi che mi stavano a sentire, dopo avere ascoltato le voci che gli proponevo o le opere che gli raccontavo fosse stato preso dalla curiosità di andare a vedere un melodramma, ecco, il mio scopo era già raggiunto. Quando – qualche volta capita – mi si chiede di parlare di musica o di opera, lo faccio con questo spirito.
C’è stato invece chi, per la politica (e per il più alto giornalismo politico) ha sacrificato non tanto la musica ma una vera e propria vocazione per la musica. È il caso – denso di emozioni anche per me che ne scrivo – di Luigi Pintor che, dopo una vita all’Unità, ne trascorse un’altra, ancora più pugnace, al manifesto. Luigi amava il pianoforte, e probabilmente sarebbe potuto diventare un grande pianista come il suo più giovane idolo Maurizio Pollini con cui condivideva l’amatissimo Chopin.
Ma ci fu una svolta improvvisa, nella vita di Luigi. Ce n’è traccia evidente, e dolorosissima, nella lettera che suo fratello Giaime gli aveva scritto tre giorni prima della morte (dilaniato da una mina tedesca il 1°dicembre ’43 a Castelnuovo sul Volturno) mentre tentava di attraversare il fronte per partecipare all’organizzazione della lotta partigiana nel Lazio. La lettera è un forte richiamo, per se stesso e il fratello, all’impegno totale nella Resistenza. E c’è, in quelle righe, un passaggio-fotografia:
Musicisti e scrittori dobbiamo rinunciare ai nostri privilegi per contribuire alla liberazione di tutti…
Musicisti e scrittori, chiarissimo riferimento a Luigi, appassionato pianista, e a sé, germanista e collaboratore di casa Einaudi. Quando riceve la lettera, questa è diventata un testamento. Luigi entra nei Gap (Gruppi di azione patriottica) sino a quando per la spiata di un traditore non finisce prima nelle mani torturatrici della banda Koch e poi a Regina Coeli. Alla Liberazione entra al giornale del Pci, poi è il successo giornalistico e televisivo (straordinarie le sue partecipazioni alle Tribune politiche), quindi la radiazione e la milizia nel manifesto sino alla morte. Il pianoforte? Solo per i compagni e gli amici più stretti, in privato, prima nella casa a Trastevere che lascia dopo la morte di Marina, e poi nella soffitta sopra la casa di Luca Trevisani, ex-caporedattore dell’Unità. “Per tutta la vita, confessava Pintor, mi sono tirato dietro, di casa in casa, un pianoforte”.
Ma di musica, e non solo di questa, certo, Luigi avrebbe avuto modo di parlare quasi ogni giorno per cinque anni, tra il 1987 e il 1992, quando tornò alla Camera come deputato della Sinistra indipendente (la prima volta era stato eletto nelle liste del Pci, tra il ’68 e il 72). Gli è che questa seconda volta accanto a lui sedeva – le coincidenze della vita – quel poeta e cantautore straordinario di Gino Paoli, anche lui eletto nella Sinistra indipendente. Ho intensa memoria visiva, dall’alto della tribuna stampa, delle loro intense chiacchierate: sedersi accanto e restarci per l’intera legislatura non fu naturalmente casuale. Chissà quali e quante cose avevano da dirsi l’autore di “Servabo”, quella straordinaria, bellissima memoria di fine secolo, e l’autore di rime e musiche (Il cielo in una stanza, Senza fine…) altrettanto straordinarie, bellissime.
Come Napolitano, anche Nilde Iotti amava andare spesso all’Opera e ai concerti (soprattutto quand’era ancora in vita Togliatti) ma, come fu eletta presidente della Camera, s’acconciò di buona grazia ad ascoltare solo musica riprodotta:
Non è giusto scocciare la gente con una presenza involontariamente ingombrante
(ne approfittarono a lungo i suoi più stretti collaboratori, dividendosi opere, concerti e solisti secondo preferenze). E, per tenersi aggiornata, non solo leggeva attentamente critiche e saggi, ma era felice quando poteva incontrare o ricevere artisti del livello di Claudio Abbado o di Carla Fracci, e discutere con loro delle novità, delle registrazioni più riuscite, delle future tournée.
Non amava invece niente Gian Carlo Pajetta, che anzi letteralmente ignorava la musica. Sempre caustico, Gian Carlo confessò la sua ignoranza musicale in una lettera a Francesco Malfatti, a lungo deputato comunista e musicofilo di tutto rispetto. Malfatti ricordava ogni mi bemolle di Maria Callas ed era in grado didistinguere dieci diverse direzioni della Sesta di Beethoven, ma non riuscì mai a ricordare l’antefatto di uno scambio di opinioni, probabilmente assai vivace, con Pajetta. Certo è che Gian Carlo chiuse la polemica con una lettera a Malfatti nell’estate del 1978, di cui vale riferire per due ragioni: per l’ammissione divertita di non avere proprio orecchio, e per il rammarico di non averlo. Pajetta si definiva “sordo”, e sottolineò questa parola con forza; di più, si riconosceva come uno che “considera come una delle cose che gli mancano di più l’impossibilità di sentire e di capire un pezzo”, altri verbi sottolineati. Poi la immancabile battuta da vecchio comunista e una seria considerazione:
Dico sempre che so soltanto distinguere l’Internazionale da Giovinezza. È già qualcosa, ma è proprio poco. Anche Luigi Longo come Benedetto Croce – aggiungeva a mo’ di difesa – diceva che la musica è un rumore ma, più rispettosamente, aggiungeva: che non dà fastidio. So che mi manca una cosa che nei secoli è stata importante per gli uomini.

Giancarlo Pajetta e Walter Veltroni, 1988
Chi ha conosciuto Gian Carlo, sa del suo sarcasmo, spesso feroce. Ma può apprezzarne un aspetto assai meno noto: la capacità di un umanissimo rammarico.
Ama i classici Fabio Mussi (“Beethoven è un grande, ma Mozart ha visto Dio”). E li ama Walter Veltroni, ma mettendo Mozart e Beethoven sullo stesso piano dei Beatles (“corrente Paul McCartney”) che ascolta molto spesso: “Siamo ai massimi livelli della musica del nostro tempo”. Una volta gli hanno chiesto quale colonna sonora sceglierebbe per descrivere il presente della politica italiana.
Punterei sul jazz di Keith Jarret, musica destrutturata perfetta per un tempo destrutturato come questo: il Paese è smarrito, ha paura, è inquieto, incattivito, c’è timore per il futuro.
Ma quando deve realizzare una compilation, ecco il ricorso a iTunes, “una delle più grandi scoperte della storia dell’umanità. Già, le compilation:
Ne avevo già fatta una chiamata Noi, che serviva da sottofondo mentre scrivevo il libro [stesso titolo, Rizzoli ed., 2009]. Le mie sono compilation al’insegna della contaminazione totale.
E infatti, se gli chiedi del suo più grande sogno musicale, ti risponde:
Vedere sullo stesso palco Paul McCartney, Ringo Starr e i figli di John e George: dulia Lennon e Dhani Harrison.

Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!