Tunisia, i “gelsomini” appassiscono

Nelle ultime settimane i giovani tunisini sono ritornati per le strade per protestare contro il carovita. E a centinaia sono stati arrestati. Viaggio nel paese “modello” della Primavera araba.
UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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I “gelsomini” non bastano per sfamare un popolo. I diritti non si mangiano. Una “rivoluzione” non si consolida se non riesce a dare un tetto, un lavoro, un futuro ad un popolo giovane. Vale per l’Iran, ma ancor di più per la Tunisia.

A sette anni dalla “rivoluzione dei gelsomini”, la Tunisia si riscopre inquieta, pervasa da un malessere sociale che investe tutti i settori della popolazione. Diplomati, laureati, professionisti: la protesta parte da lì. E dai ragazzi: un popolo sotto i trentacinque anni che si trova governato da un presidente della repubblica di ottantanove, da uno del parlamento di ottantadue, da un capo dell’opposizione di settantacinque, da un premier di sessantasette.

Quello esploso, dunque, è anche un conflitto generazionale. La cronaca racconta di scontri e disordini tra gruppi di giovani manifestanti e forze dell’ordine si sono verificati in varie città  tunisine fino a tarda notte di ieri: Thala, Kasserine, Sbeitla, Bouhajla, Oueslatia (Kairouan), Douz, Kebili, Gafsa, Tebourba e Citè Ettadhamen (Tunisi).

La protesta popolare era esplosa nei giorni scorsi a seguito dell’ondata di aumento dei prezzi per l’entrata in vigore della finanziaria 2018, che ha introdotto maggiorazioni per carburanti, assicurazioni, servizi, un aumento dell’iva dell’un per cento e altre misure adottate dal governo per cercare di contenere la spesa pubblica.

Il cuore della protesta è nell’area di Kasserine. Spiega Stefano M. Torelli, ISPI research fellow

Quest’area rappresenta in maniera emblematica le forti differenze interne che si registrano ancora oggi nel paese: qui il tasso di disoccupazione rasenta il trenta percento, a fronte di una media nazionale di circa il quindici; l’accesso all’acqua potabile è riservato al ventisette per cento della popolazione, contro una media nazionale di quasi il sessanta per cento; il tasso di analfabetismo supera il trentadue per cento (a Tunisi è del dodici per cento) e il tasso di abbandono scolastico è di più di dieci volte maggiore rispetto alle aree costiere dell’est. Sono cifre che rendono bene l’idea delle motivazioni alla radice dei nuovi scontri. E, a fronte di tale quadro, il governo appare come immobile, incapace di trovare soluzioni.

Quanto ai media, il quotidiano francofono Le Temps ha messo in guardia contro “un gennaio caldo, molto caldo”, nella misura in cui “la contestazione sociale prosegue e si estende”.

È come se fossimo ancora a fine 2010, inizio 2011. Kasserine è in fiamme, e le città vicine la sostengono, i manifestanti occupano le strade e le istituzioni pubbliche, la polizia fa uso della forza e interviene anche l’esercito

ha sottolineato da parte sua il quotidiano arabo Al Chourouk.

“Da Bouazizi a Yahyaoui, i motivi e i modi si ripetono. I risultati saranno gli stessi?” si interroga il quotidiano, alludendo a Mohamed Bouazizi, il venditore ambulante che si immolò dandosi fuoco il 17 dicembre 2010 a Sidi Bouzid, non lontano da Kasserine, dando il via alla “rivoluzione dei gelsomini”.

Secondo Le Quotidien,

Ovunque, il tasso di disoccupazione tra laureati e diplomati sta battendo ogni record. Le statistiche sono spaventose e confermano una minaccia per un’intera generazione che ha sudato (…) per raggiungere un livello di istruzione che si dimostra inutile e insufficiente per avere un lavoro degno.

Una crisi economica drammatica, che non risparmia i beni primari: tutto è caro, la carne rossa costa venticinque dinari al chilo, in tavola arriva se va bene una volta al mese. Senza contare che bisogna pagare l’affitto, le bollette, l’assistenza sanitaria, che non è più gratuita per nessuno, neanche per chi ne avrebbe diritto. Un dramma per un paese che ha la disoccupazione al trenta per cento e ben poche speranze di mobilità sociale.

E per ridare speranza non basta la nuova carta costituzionale, che pure ha rappresentato un importante passo in avanti quanto al consolidamento dei diritti civili, politici, di parità di genere.

Secondo Le Courrier International la nuova costituzione tunisina rappresenta

un indiscutibile successo, ma nulla è stato fatto per migliorare la vita quotidiana dei cittadini, soprattutto in campo socio-economico. Le autorità continuano a gestire questo settore vitale con un approccio antiquato che è stato all’origine stessa della rivoluzione. Nulla è stato fatto per dare speranza ai giovani che languono in condizioni di povertà, disoccupazione e frustrazione.

Tra i protagonisti della protesta i giovani attivisti del movimento #Fech_Nestanew (Cosa stiamo aspettando), che mira a denunciare l’aumento dei prezzi e la politica del governo.

Fech Nestanew è una campagna lanciata il 4 gennaio scorso da un gruppo di giovani, dei quali alcuni del sindacato studentesco Union Générale des étudiants tunisiens (Uget) e altri della società civile con l’obiettivo principale di protestare contro l’aumento dei prezzi entrati in vigore a seguito della finanziaria 2018.

Alcuni appartenenti al movimento sono stati arrestati dalle forze dell’ordine per qualche ora il 4 gennaio scorso per essere stati colti a scrivere slogan di protesta sui muri di una stazione del metro a Tunisi.

Il movimento che si autodefinisce trasversale e apolitico conta al suo interno anche attivisti del collettivo Manich Msameh (Io non perdono) e ambisce ad espandersi a livello nazionale.

Spiega  l’attivista Ouennas Rouissi al sito Réalités on line in occasione del suo fermo del 4 gennaio

La campagna è aperta a tutti i tunisini un modo per contestare le azioni dei responsabili della crisi attuale, la vecchia Troika, Nidaa Tounes, Ennahdha, l’Union Patriotique Libre (Upl) o ancora Afek Tounes

precisando che il movimento non nasce dalla volontà di alcun partito politico.

Alcuni partiti dell’opposizione, come il Fronte popolare, ci hanno sostenuti, così come alcuni deputati indipendenti, ma la nostra principale rivendicazione, rimane la sospensione dei lavori iniziati nell’ambito della legge finanziaria 2018.

conclude Rouissi.

Sul crescente malessere sociale fa leva la filiale nordafricana dello Stato islamico per rafforzare le proprie fila.

L’Isis fa proseliti in chi non ha lavoro e non riesce a immaginare il proprio futuro. Il miglioramento delle condizioni materiali di vita, il lavoro, l’istruzione, sono parte fondamentale della lotta al terrorismo, non meno dell’aspetto militare o di intelligence. Ed è per questo che ritengo fondamentale rilanciare la cooperazione fra l’Europa e i paesi della sponda sud del Mediterraneo, dando concretezza all’idea di un Piano Marshall. E all’amica Italia dico: se cade la Tunisia, non muore solo una speranza di cambiamento, ma il Mediterraneo sarà ancora più destabilizzato e l’emergenza migranti si farà ancor più drammatica.

annota Houcine Abassi, già Segretario generale dell’Ugtt (l’Union génèrale tunisienne du travail), premio Nobel per la pace nel 2015 come membro del “Quartetto per il dialogo” (la Ligue tunisienne pour la défense des droits de l’homme, l’Union générale tunisienne du travail, l’Ordre national des avocats de Tunisie e l’Union tunisienne de l’industrie, du commerce et de l’artisanat).

La Tunisia come modello di una stabilizzazione, che ha al proprio interno una grande contraddizione: la transizione è avanzata ma la “nuova Tunisia” è il paese che ha fornito più combattenti, foreign fighters, allo Stato islamico. Secondo le stime ufficiali, negli ultimi due anni sarebbero stati infatti almeno tremila i tunisini partiti per raggiungere le roccaforti dello Stato islamico in Siria e Iraq.

Senza dimenticare che alcuni degli attentati terroristici più cruenti rivendicati dall’Isis si sono verificati proprio in Tunisia (i due più eclatanti sono stati quelli del 2015 al Museo nazionale del Bardo e nella spiaggia di Sousse) e che il radicamento di Isis in Libia è stato reso possibile per il passaggio di migliaia di jihadisti proprio da questo paese.

Quello compiuto in questi sette anni non è stato un percorso lineare, la transizione democratica è ancora in atto e non potrà dirsi conclusa se non affronta la grande questione che resta irrisolta ed anzi tende ad aggravarsi. E quella grande questione si chiama malessere sociale.

rimarca Hocine.

L’ex capo del sindacato tunisino ne è assolutamente convinto:

La libertà non può dirsi realizzata se non hai un lavoro, se i giovani non possono costruire il loro futuro, avere una casa, diventare autonomi. In Tunisia, la rivoluzione del 2011 ha abbattuto un regime corrotto, la transizione ha consolidato le istituzioni, abbiamo una costituzione tra le più avanzate in questa parte di mondo, ma non basta, non può bastare. Perché sul piano sociale il bilancio è negativo: il tasso di disoccupazione è aumentato del quindici per cento a livello nazionale e raggiunto il venticinque per cento nelle regioni interne. Quello tunisino è un popolo giovane, e se ai giovani non dai una prospettiva concreta di realizzazione, il futuro è a rischio.

Un rischio che si fa presente.

I giovani hanno fatto la rivoluzione soprattutto nelle regioni marginalizzate, economicamente più deboli. Dopo sette anni avvertono che la situazione non è cambiata e continuano a manifestare il loro dissenso, a protestare. Li capisco. Però è il costo della transizione democratica che, alla fine, considero di successo anche comparandola al resto del mondo arabo

sottolinea Rachid Ghannouchi, il leader storico di Ennahda, il partito islamista che pur traendo alla sua origine ispirazione dalla Fratellanza musulmana egiziana, ha scelto il dialogo con la componente laica della società e della politica del paese, contribuendo alla stesura e all’approvazione della nuova costituzione tunisina, per molti versi, ad esempio sui diritti delle donne, la più avanzata nel mondo arabo e musulmano.

Ghannouchi rivendica i risultati ottenuti in questi anni di transizione, ma sa bene, e le proteste di questi giorni ne sono la riprova, che una democrazia rischia di risultare una parola vuota se un Paese è economicamente in ginocchio e i giovani senza un futuro.

In tanti, anche in Italia, hanno giustamente indicato nel “modello tunisino” un esempio per i paesi della sponda sud del Mediterraneo: un modello quanto alla crescita di una società civile organizzata, al ruolo dei corpi intermedi – sindacati, associazioni di categoria etc. – nello sviluppo del processo democratico.

Un modello per la possibile cooperazione tra l’islam politico e le forze laiche e progressiste. Ma questo modello entra in crisi se non riesce a dar rispetto a un diritto essenziale: quello sociale.

Senza lavoro non c’è futuro, e la crescita senza giustizia incrementa la faglia delle diseguaglianze. Vale per la Tunisia, ma anche per noi europei.

E che chiama in causa direttamente l’Italia impegnata in una missione sotto ombrello Nato che coinvolgerà sessanta persone, per una spesa di quasi cinque milioni di euro.

 

Ultimo aggiornamento: sono ottocento le persone arrestate in questi giorni dalle forze dell’ordine e i numeri cambiano di giorno in giorno.

Tunisia, i “gelsomini” appassiscono ultima modifica: 2018-01-12T17:30:07+01:00 da UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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