Sovranismo regionale?

Il governo renderà noto il contenuto delle intese con le regioni il 15 febbraio (data che, sembra, slitterà). Quest'articolo, il primo di una serie, mette in luce criticità e opacità della nuova fase di estensione e di precisazione della riforma fortemente voluta da Veneto e Lombardia
ADRIANA VIGNERI
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Se c’è un tema da trattare con estrema prudenza, senza approssimazione e superficialità, e soprattutto senza fanatismi ideologici, è quello della nuova fase di estensione dell’autonomia regionale. Di cui non è ancora chiara la natura. Né esattamente la portata. Né se coinvolgerà poche regioni (le tre iniziali) o molte altre e quindi tutte. L’esposizione che segue non ha quindi nessuna pretesa esaustiva di un tema molto complesso, tanto più che siamo soltanto all’inizio di un percorso. Qui ci limiteremo ad introdurre l’argomento.

Per quanto sia desiderabile una migliore e più estesa autonomia regionale, non bisogna mai dimenticare che contemporaneamente sono in gioco la corretta attuazione della Costituzione, la tutela dell’unità nazionale, l’efficienza dell’azione amministrativa, la necessità di un forte governo centrale, senza il quale non esiste l’Italia.

La richiesta di maggiore autonomia regionale si fonda su di una norma, introdotta dalla legge costituzionale n. 3/2001 nell’art. 116 della Costituzione, negli ultimi mesi della legislatura nata con Prodi e conclusasi con Giuliano Amato dopo essere passata per i governi D’Alema uno e due. L’ art. 116 è quello che legittima l’esistenza di regioni a statuto speciale. Il nuovo comma 3 dello stesso articolo consente l’attribuzione ad altre regioni di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” in determinate materie.

È anche doveroso dire che il comma 3 dell’art. 116 nasce da una richiesta della Regione Veneto, che risale al 1998, di prendere in considerazione la possibilità che anche le regioni a statuto ordinario potessero avere un’autonomia “differenziata”, senza per questo diventare regioni a statuto speciale (per questo si richiederebbe una legge costituzionale). La richiesta era contenuta in una legge regionale che prevedeva un referendum consultivo. La legge è stata bocciata dalla Corte (CC 496/2000), ma ha costituito la base della modifica costituzionale dell’art. 116 introdotta con la riforma costituzionale del 2001.

Il comma 3 dell’art. 116 (in seguito lo chiameremo anche soltanto comma 3) è l’unica fonte normativa (di rango costituzionale) sulla quale si basano le richieste di maggiori competenze regionali. Fin qui infatti norme attuative non ne sono state emanate. È un testo breve che merita di essere conosciuto.

Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’art. 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere f), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre regioni con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’art. 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata.

È significativo che il comma 3 sia stato inserito nell’articolo che riguarda le regioni a statuto speciale: come dire, non si possono creare nuove regioni a statuto speciale, ma si può consentire che qualche regione abbia più poteri che la avvicinano (per competenze) allo statuto di quelle regioni.

Le materie cui il testo fa riferimento sono complessivamente ventitré, tre di esse incidono su competenze statali esclusive, le altre venti su competenze concorrenti tra Stato e regioni, cioè su competenze già ripartite (con legge) tra di loro.

Chi ha scritto e poi approvato quel testo non pensava che qualche regione avrebbe rivendicato contemporaneamente “tutte e subito” le ventitré materie. Si pensava che alcune regioni avrebbero chiesto più competenze in materie diverse, a seconda delle proprie esperienze, delle proprie caratteristiche, della propria struttura sociale ed economica. Sostanzialmente delle richieste limitate e diversificate. Tanto che si è parlato di “autonomia differenziata”. Chiedere subito, senza nessuna tappa intermedia, tutte e ventitré le materie, significa assumere una posizione politica, assolutamente legittima, ma che prescinde dalle proprie capacità amministrative e dalle proprie caratteristiche territoriali.

Sotto questo profilo è il Veneto che dichiaratamente ha tentato di utilizzare il comma 3 nella prospettiva di raggiungere uno status analogo ad una regione speciale, per la sua collocazione ai margini del Trentino Alto Adige da un lato e del Friuli Venezia Giulia dall’altro, due regioni a statuto speciale. La sua strategia infatti si è basata sull’indizione di una serie di referendum consultivi – previsti da due leggi regionali, la 15 e la 16 del 2014 – tesi a mobilitare la popolazione, l’uno sull’autonomia, l’altro sull’indipendenza del Veneto. Contemporaneamente si prevedevano anche referendum sulla trattenuta dell’ottanta per cento dei tributi, sull’eliminazione di vincoli sulle spese regionali, sulla trasformazione del Veneto in una regione a statuto speciale.

Tutti i previsti referendum sono stati dichiarati incostituzionali dalla Corte, tranne quello relativo all’autonomia differenziata, che la Corte ha ammesso perché corrispondente alla previsione costituzionale del 116, e perché collocato prima e al di fuori del procedimento previsto per l’introduzione dell’autonomia differenziata. Ha ammesso, la Corte, senza prestare troppa attenzione alla formulazione del quesito. Che era più generico e quindi più equivoco rispetto alla formula costituzionale.

La Lombardia ha seguito anch’essa il metodo del referendum, non ha potuto fare diversamente, ma lo inserito “nel quadro dell’unità nazionale”, e sfruttando come presupposto la propria forza economica, senza pretese indipendentiste.
Entrambe le regioni, Lombardia e Veneto, hanno richiesto nuove competenze in tutte e ventitré le materie in cui è possibile farlo.

L’Emilia Romagna ha seguito un percorso diverso. Ha costruito la propria richiesta insieme agli enti locali e ai portatori di interesse. La selezione delle materie per aree strategiche (Politiche del lavoro, Istruzione, Salute, Tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, Rapporti internazionali e con l’EU) è il prodotto di questo lavoro.
I rapporti con il governo che sono stati avviati nella scorsa legislatura si sono conclusi, nell’imminenza delle elezioni politiche, con delle “preintese” (28 febbraio 2018), sottoscritte separatamente con ciascuna delle tre regioni ma di quasi identico contenuto, che riguardano le cinque materie sopra citate.

È stata criticata la scelta di mettere nero su bianco il lavoro fatto, pur senza valore giuridico, e senza essere per molti aspetti conclusivo, da un governo in scadenza. Lo si può al contrario considerare un fatto positivo, che ha consentito di fare un primo approfondimento della materia senza vincoli per il successivo governo.

Attualmente, nei rapporti con il nuovo governo, Veneto e Lombardia hanno riproposto la richiesta che il trasferimento di funzioni, con le relative conseguenze, riguardi tutte e ventitré le materie in cui tali richieste sono astrattamente ammissibili. L’Emilia Romagna chiede competenze in quindici materie.

A fine luglio 2018 sono stati avviati colloqui con diverse regioni: alle tre apripista si sono aggiunte Toscana, Piemonte, Marche e Umbria, che hanno attivato un tavolo di confronto con il ministero affari regionali, mentre altre – quali la Liguria, il Molise e la Puglia – sono pronte a seguirne l’esempio. L’idea di autonomia “differenziata” sembra quindi destinata a trasformarsi in una autonomia generalizzata.

Il Veneto si presenta ancora una volta sulla procedura da seguire con una posizione differenziata: dopo la firma dell’intesa con il governo, non si dovrebbe approvare a maggioranza assoluta una legge che riprende i contenuti dell’intesa. Il Veneto intende presentare al parlamento un proprio disegno di legge (e fin qui, protagonismo politico), che non conterrebbe la nuova disciplina, bensì soltanto una delegazione legislativa al governo. Vale a dire una legge di soli principi e criteri direttivi, che lascerebbe poi in mano ad uno o più atti legislativi del governo il contenuto dettagliato delle competenze trasferite. Per ora non sappiamo che accoglienza abbia questa proposta.

Il governo ha soltanto dichiarato che il contenuto delle intese verrà reso noto il 15 febbraio, data ormai imminente. Che, sembra, slitterà.

Quali sono i problemi da affrontare nell’attuazione del comma 3? Ovvero, quali sono gli aspetti critici che possono farci passare da una Repubblica delle Autonomie che vuole poter funzionare meglio, ad una caricatura di Stato federale disgregante?
Si sarà già capito, grazie alle provocazioni del Veneto, che per prima cosa è importante la procedura con la quale si forma l’intesa e la si approva. L’intesa non può che essere conclusa nel rapporto tra regione e governo, dato che le singole materie richiedono una competenza ministeriale specifica, una specializzazione che non si può discutere in un’aula parlamentare. La fase essenziale è dunque quella in cui si raggiuge l’intesa regione/governo, tenuto conto che quest’ultima deve avere un contenuto preciso e dettagliato.

Raggiunta l’intesa, il governo la presenta alle camere con un suo atto di iniziativa legislativa. Potrebbe farlo anche la regione? È facile rispondere affermativamente, ma la differenza tra le due procedure è notevole: i disegni di legge governativi debbono essere autorizzati dal presidente della repubblica, quelli regionali no. In questo secondo caso verrebbe meno uno strumento di controllo del presidente.

Quale spazio di manovra ha il parlamento che riceve l’iniziativa legislativa rispecchiante l’intesa conclusa? In sede di preintesa (scorsa legislatura) si è convenuto che il parlamento possa approvare o respingere il testo dell’intesa, non modificarlo. In altri termini, se si proponessero modifiche, dovrebbe formarsi una nuova intesa. Se è giusto così, l’organo legislativo è costretto all’instaurazione di un sostanziale conflitto per ottenere qualche miglioramento del testo. È preferibile che la procedura sia più elastica.

La legge conclusiva deve essere approvata dalle due camere a maggioranza assoluta. Le due camere debbono cioè avere il controllo totale del testo. Ne deriva – ma il Veneto la pensa diversamente – che non è possibile utilizzare la delegazione legislativa, con la conseguenza che l’intesa si formerebbe su generiche finalità e criteri, rimettendosi tutto il restante al governo.

Infine, l’art. 116 richiede siano “sentiti gli enti locali”, ai quali spetterebbe poi – per regola costituzionale – il grosso delle nuove funzioni amministrative. Il parere richiesto agli enti locali deve intendersi come obbligatorio, costituendo requisito di legittimità costituzionale della successiva legge di attuazione. Ma debbono essere coinvolti fin dalla costruzione della richiesta, come nel caso dell’Emilia Romagna, oppure soltanto a valle del negoziato con il governo? È evidente la differenza sostanziale tra le due ipotesi.

Sono poi rilevantissime le materie, su cui torneremo in seguito. L’individuazione delle nuove competenze porrà problemi delicatissimi. Ad esempio, la materia “norme generali sull’istruzione”, oggi di competenza esclusiva statale, può essere oggetto di richieste regionali, insieme alla materia “istruzione”, oggi concorrente. Se venissero accolte le richieste delle regioni, quali saranno – se ve ne saranno – i poteri residui in capo allo Stato centrale?

Qui ci limitiamo a dire in generale che le funzioni regionali hanno certamente bisogno di essere integrate – per essere esercitate con efficacia e senza sovrapposizioni con funzioni di altri enti – con tutte quelle funzioni amministrative contigue che consentano alla regione di agire con efficienza. Detto in altre parole, il disegno autonomistico delle regioni dovrebbe avere per oggetto politiche settoriali e non soltanto singole “materie”.
Non è tuttavia credibile che le regioni, neppure il Veneto, siano già organizzate per esercitare tutte e ventitré le funzioni che richiedono. Tra l’altro, se si riproducesse nel trasferimento il modello ministeriale, avremmo una paradossale crescita del centralismo (a ragione paventato dal sindaco di Milano Sala), anche se in teoria le nuove funzioni amministrative dovrebbero essere svolte in misura preponderante dalle amministrazioni di area vasta e dai comuni.

Più ancora, sembra che non ci si renda conto che per ciascun ambito di funzioni coinvolto dallo spostamento di competenze serve un complesso progetto di riorganizzazione articolato su diversi livelli di governo: lo Stato, le regioni, gli enti locali. Le regioni dovrebbero predisporre per ciascuna nuova funzione che vogliono ricevere dallo Stato un progetto per rendere sostenibile il suo svolgimento sulla base dei loro differenti standard di organizzazione amministrativa. Anche lo Stato per continuare a svolgere con meno risorse quelle funzioni rispetto alle regioni che non utilizzeranno l’art. 116, co. 3 Cost., dovrà necessariamente puntare su un ripensamento dei propri apparati. La devoluzione differenziata – almeno per ora – se “presa sul serio” richiede la progettazione di un solido apparato di sostegno che consenta di guidare il trasferimento di competenze. Sarebbe consigliabile una devoluzione scaglionata nel tempo, come è stato suggerito, per materia e per regione, sulla base del grado di maturazione dei singoli progetti di riorganizzazione amministrativa.

Di tutto questo e altro non sappiamo nulla fin qui. Si prefigurano spostamenti di competenze con insostenibile leggerezza, o incoscienza, come si trattasse della conquista, o della perdita, di un proprio dominio, che arricchisce o impoverisce.

Da ultimo, l’aspetto forse più importante, quello delle modalità di determinazione della copertura finanziaria.

In teoria, dall’attuazione dei trasferimenti di competenze alle regioni a statuto ordinario a norma dell’articolo 116, 3° comma, della Costituzione non dovrebbero derivare nuovi oneri finanziari a carico della finanza pubblica, in quanto si tratterebbe del semplice trasferimento delle risorse impiegate nelle materie interessate dal bilancio dello Stato a quello della regione. In realtà non sarà così.

Già nella fase di svolgimento dei referendum indetti dalle Regioni Lombardia e Veneto si è fatto capire che la materia vera era l’incremento della spesa pubblica sul territorio, attraverso l’incremento della quota di compartecipazione ai grandi tributi erariali. Lo ha detto chiaramente il presidente del Veneto nella conferenza stampa subito successiva alla proclamazione dell’esito referendario. Non gli interessava la partita di giro: nuove funzioni, nuove spese, bensì la possibilità di avere più risorse, l’ottanta per cento come già previsto nel referendum respinto dalla Corte, anzi il novanta per cento dell’Irpef, dell’Ires e dell’IVA come richiesto nell’art. 2 del pdl statale n. 43 del 15/11/2017.

Tanto più importante dunque capire come le nuove risorse saranno calcolate.

L’art. 116 obbliga ad attuare il comma 3, oltre che nel rispetto delle regole costituzionali, in particolare nel rispetto dei principi dell’equilibrio di bilancio, dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento europeo; del finanziamento delle autonomie con risorse proprie o compartecipazioni; della copertura integrale delle funzioni pubbliche attribuite. Garantendo ai “territori con minore capacità fiscale per abitante”, un’integrazione attraverso quote di “un fondo perequativo”, assegnate senza vincoli di destinazione.

Non abbiamo idea di che cosa farà il nuovo governo. Possiamo soltanto esaminare che cosa è stato stabilito nelle preintese del precedente.

Quel testo ha avuto il merito di vincolare il calcolo delle risorse a quello dei fabbisogni standard, prima rilevanti soltanto nei confronti degli enti locali. Più precisamente, si è fatto riferimento alla spesa sostenuta dallo Stato nella regione per quelle funzioni (spesa storica, ma da superare) ma anche al metodo dei fabbisogni standard, che avrebbero dovuto essere determinati entro un anno dall’approvazione dell’intesa.

Un secondo merito appare più incerto. Si vincola da un lato la decorrenza dell’esercizio delle nuove funzioni alla determinazione dei fabbisogni standard e quindi dei relativi costi standard, per evitare che il criterio della spesa storica si applichi indefinitamente. Ma dall’altro si dice, contraddittoriamente, che progressivamente entro cinque anni i fabbisogni avrebbero dovuto costituire

il termine di riferimento, in relazione alla popolazione residente e al gettito dei tributi maturato nel territorio regionale in rapporto ai rispettivi valori nazionali, fatti salvi gli attuali livelli di erogazione dei servizi.

Un demerito certo è invece costituito dal riferimento al “gettito dei tributi maturato nel territorio”. È un parametro non rilevante, non previsto nel metodo di calcolo dei fabbisogni, già disciplinato (d. lgs. 216/2019), fortemente dannoso perché vorrebbe dire più servizi nei territori più ricchi, e in definitiva incostituzionale (semmai serve il contrario, ai sensi del 3, secondo comma, Cost.).

Come si orienterà il nuovo governo? Molto dipenderà dal fatto che accetti o no di discutere soltanto di alcune o di tutte le “materie” di possibile devoluzione. Anche sotto questo aspetto (entità delle risorse) si comprende perché il Veneto non possa che chiedere tutto il possibile, senza porsi alcun problema di organizzazione e di fattibilità (e la Lombardia non può che seguire a ruota).

Succederà quello che molti temono, che le regioni con meno capacità fiscale saranno svantaggiate? Il rischio diminuisce se i criteri saranno corretti, ma si deve aggiungere che molti elementi che possono incidere sono difficilmente preventivabili. Ad esempio, con un calcolo standard dei fabbisogni, sarà impossibile tener conto che nel Sud la classe insegnante è più anziana e quindi costa di più (Con la scuola regionale il Sud perde 1,5 miliardi, Il Mattino, 8 febbraio). Ulteriore esempio, basterà scrivere che la nuova organizzazione in tema di avviamento al lavoro deve adeguarsi ai migliori standard europei perché si possano pretendere risorse ulteriori.

Ma il dato ancora più rilevante a mio avviso è che una volta trasferite le competenze – e si tratta di vedere come formulate – non è affatto detto che la singola regione le eserciterà tutte. L’omissione è un ottimo metodo per acquisire consensi o almeno risparmiarsi dissensi. E per intanto risparmiare soldi, per spenderli altrimenti.

Ulteriori approfondimenti nella prossima puntata. Secondo i progressi che si registreranno.

Sovranismo regionale? ultima modifica: 2019-02-12T16:31:56+01:00 da ADRIANA VIGNERI
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