Giochi proibiti a Venezia

Il nuovo regolamento comunale in materia di sicurezza punta a punire piuttosto che a sorvegliare. Ma è questa la sua funzione?
YTALI
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Riceviamo e volentieri pubblichiamo la lettera di un nostro lettore, evidentemente ben informato sul tema, a proposito del recente regolamento di polizia urbana in materia di giochi di strada, su cui ytali è intervenuta con un articolo di Enzo Bon, a cui è seguita la replica, via Facebook, del comandante dei vigili Marco Agostini (che immediatamente abbiamo ripubblicato in appendice all’articolo di Bon).

Caro direttore, le querelle estive, si sa, servono a tenere impegnati i villeggianti sotto gli ombrelloni, di giorno e, nel tardo pomeriggio, nei locali più alla moda per l’aperitivo. La declinazione lagunare di questo fenomeno ha luogo non sotto l’ombrellone, ma in capanna e, più che con un cosmopolita aperitivo, con un campanilista spritz.

Ecco, allora, la disputa dell’estate veneziana: i giochi di strada in centro storico (ma anche in terraferma) sono vietati oppure no? Soggiaciono a limiti liberticidi oppure permettono a bambini e preadolescenti di esprimere la propria fantasia, creatività e capacità motoria?

I due contendenti di questa tenzone “online” sono, da un lato, Enzo Bon, giornalista che – proprio da ytali – lancia i suoi strali contro gli articoli del nuovo regolamento di polizia urbana in materia di giochi di strada e biciclette per bambini e, dall’altro lato, il comandante della polizia municipale, pardon locale, Marco Agostini il quale utilizza il suo profilo Facebook per rivendicare di aver esteso la possibilità di giocare ai giovani in città e sente risuonare nelle proprie orecchie addirittura gli echi di linguaggio da guerra fredda nel lirismo di Bon.

Wheels (fotoanjan58)

Ma, scendiamo nei dettagli. L’articolo di Enzo Bon racconta con accenni poetici la storia di Venezia, vale a dire di ciò che significava trenta, quaranta e cinquanta anni fa essere un bambino a Venezia, ovvero poter girare liberamente per la città o, meglio, per il sestiere, senza la paura di venire investito da un’auto o da un altro mezzo di trasporto e, in più, con la fortuna di poter condividere le proprie esperienze di giovane con bambini di diverse estrazioni sociali in quell’unica mescolanza di italiano e dialetto che è – da sempre – il linguaggio dei bambini del centro storico, in bilico tra l’etica della scuola che impone l’italiano e la realtà familiare e sociale che parla ed ascolta in dialetto.

A tutta questa grazia, fa da contraltare la modernizzazione che passa attraverso l’esigenza di modificare le fonti normative di secondo livello per spazzare via i pochi elementi di libertà diffusa in città.

Ed ecco che il dibattito sul nuovo regolamento comunale s’infiamma in consiglio con polemiche a botte di interventi per stabilire se l’età massima per i giochi di strada sia otto, dieci o unidici anni, tra i quali vale la pena di citare gli appassionati contributi della consigliera Tosi.

Anche la questione del “diritto al velocipede” del residente in centro storico diventa strategica: rappresenta un guadagno per il residente addentrarsi tra le calli, ben oltre le colonne d’Ercole della ferrovia e, se bambino, addirittura pedalare impunito per tutta la città o quasi?

Nei fatti entrambe le parti sembrano dimenticare o non voler raggiungere il sostrato della questione, nel senso che questi pochi elementi lasciano sempre sullo sfondo temi fondamentali per la sopravvivenza della città, come le scelte compiute o, in apparenza, non compiute da stato ed amministrazioni in materia di residenzialità.

Oltre, infatti, a definire regole per i giochi di strada in città, bisognerebbe anche sapere quanti bambini vivono davvero in città e, proprio in questo senso, molti divieti in città sembrano ridicoli, perché sembrano dimenticare quanto sia esiguo il numero dei residenti e se valga ancora la pena porre lacci e lacciuoli a coloro i quali riescono ancora a vivere in città, un po’ per scelta caparbia ed un po’ per capacità censitaria.

L’altro tema che rimane sullo sfondo, pur essendo molto importante, è la questione relativa ai modelli, ai riferimenti e all’organizzazione sociale cui questo nuovo regolamento si ispira.

Andando a raspollare tra la vigna del nuovo regolamento comunale, balza agli occhi il fatto che ha cambiato nome, non più “Regolamento di polizia urbana”, ma “Regolamento di polizia e sicurezza urbana”, dove il bisogno di sicurezza percepita sembra prevalere sulla necessità di individuare delle fattispecie da sanzionare nel caso di comportamenti capaci di minare la tranquilla convivenza tra gli abitanti.

Insomma, il precedente regolamento sembrava più che una legge penale speciale, quella di un supercondominio denominato Comune di Venezia, allo scopo di ridurre atti di maleducazione e prevaricazione tra vicini e tra residenti e turisti.

Venice, 2013 (foto di Eric Parker)

Ora, questo regolamento impostato sulla parola “sicurezza” attinge a un altro orizzonte categoriale. Qualcuno vocifera che il riferimento alla sicurezza stabilisca un legame con i numerosi interventi in materia di sicurezza urbana compiuti per conto dell’amministrazione cittadina, ma questo importa abbastanza poco ai fini di questa discussione.

Un enorme peso, per mettere in luce questo nuovo approccio normativo, ha il ruolo – ad esempio – del sindaco e degli assessori della Giunta che dirigono e non si limitano più ad impartire gli indirizzi (vecchio retaggio della legge Bassanini); oppure tutte le comunicazioni che devono passare attraverso il comando della polizia locale, tra le quali spicca anche la comunicazione del mancato funzionamento dei servizi igienici nei pubblici esercizi, pena sanzione amministrativa; o, ancora, le norme rigorosissime per l’occupazione di suolo pubblico nel caso di manifestazioni, banchetti o altri eventi di natura politica.

Su tutte, però, emerge il capitolo legato alla tossicodipendenza. Il nuovo regolamento di polizia e sicurezza urbana, infatti, supera l’ambito di azione individuato in passato che giungeva – al massimo – alle norme in materia di contrasto della prostituzione, ma arriva a irrogare tutta una serie di sanzioni amministrative anche ai consumatori di stupefacenti.

Si assiste, quindi, a una crescita della normazione di dettaglio di secondo livello da un lato e, dall’altro lato, a una declinazione anche di natura amministrativa e locale in materie di grande importanza e affidate, da sempre, alla normazione nazionale con l’esito di soffermarsi su questioni marginali, da un lato e, dall’altro lato, di nutrire la pretesa di contribuire a operazioni di più ampio respiro.

Venice, 2014 (foto di Eric Parker)

Si dimentica così che il buon funzionamento di qualsiasi pubblica amministrazione sta nella netta distinzione delle competenze in capo a ciascun soggetto, senza ragionare sempre in termini di gerarchia, dove temi apparentemente marginali come quello dei giochi sulla pubblica via sembrano più un vezzo da perdigiorno o da fifoni in confronto a una qualsivoglia postilla in materie di grande impatto come stupefacenti e prostituzione.

Ecco, quindi, che l’argomento iniziale ritorna con l’attenzione che merita: i giochi sulla pubblica via, la volontà di affrontare questo tema per non avventurarsi in un pelago con una barca troppo piccola, la volontà di punire anziché sorvegliare perché quest’organizzazione sociale, questo ente esprimono gravi carenze, a tal punto che semplice correttivo della “polizia urbana” non è più sufficiente, ma occorre ben altro approccio militaresco?

Il dibattito in capanna può continuare anche oltre Redentore.

L’immagine di copertina è Giocare a Venezia, in campo San Polo di Mazzaq-Mauro Mazzacurati.

Giochi proibiti a Venezia ultima modifica: 2019-07-10T11:29:57+02:00 da YTALI
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1 commento

BÄRBEL SCHMIDT 10 Luglio 2019 a 19:39

Ha ragione su almeno un paio di punti, il lettore/autore della bella lettera che avete pubblicato: tanto rumore per i quattro gatti di bambini che rimangono? La fine delle differenze delle competenze tra i corpi di polizia (fin troppi) che ha il Comune di Venezia. Il modello imposto da Gigio [Brugnaro] con il piegarsi a 90 gradi del Vigile alle sue paranoie, corrisponde al desiderio del sovrano di avere il suo piccolo esercito per non sfigurare. Lecito quando si occupa di sanzioni amministrative e abusi, spesso edilizi, ridicolo quando impegna uomini a sequestrare mezzo etto di Maria che un legislatore meno idiota avrebbe già depenalizzato da secoli, proprio per poter concentrare le forze contro il vero spaccio“.

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