Pd, partito collegiale. A sua insaputa

Dal suo conclave nella splendida rocca di San Pastore esce come una comunità, con un gruppo dirigente plurimo e plurale, che esercita nel suo insieme la leadership. Il segretario, forse incosapevolmente, un vero team manager, ha realizzato la prima riforma del suo partito nuovo, rendendolo più simile e coerente alla cultura del networking che si vuole praticare.
MICHELE MEZZA
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Il Pd, dal suo conclave nella splendida rocca di San Pastore, nel Reatino, ne esce come una comunità, interrompendo anni di retorica e semplicismi sui partiti personali, dove si banalizzava con il carisma del leader la natura di un incipiente plebiscitarismo che solo ora si riconosce per quello che è, ossia una degenerazione della democrazia che attacca direttamente i partiti.

Una comunità nel senso algebrico del termine, senza sottintendimenti melensi sui buoni sentimenti che animano i suoi componenti. Un gruppo dirigente plurimo e plurale, che esercita nel suo insieme la leadership. Forse a sua insaputa il segretario, un vero team manager, ha realizzato la prima riforma del suo partito nuovo, rendendolo più simile e coerente alla cultura del networking che si vuole praticare.

I due giorni di seminario dei ministri e gruppi parlamentari del partito, allargato a quadri ed esperti interni, hanno messo in vetrina questo nuovo modo di funzionare del partito: integrando e combinando voci e posizioni. Se si guarda solo al segretario, come ancora la stampa mostra di fare, non si afferra la realtà dell’organizzazione. Diciamo che rispetto alla metafora togliattiana del partito giraffa, animale dal grande corpo e dal collo lunghissimo che permetteva all’agile testa di vedere molto lontano, il Pd di Zingaretti è un facocero: un animale tozzo ma non vulnerabile, con un collo ancora corto e muscoloso, che connette saldamente la testa a un corpo di taglia media. 

Un facocero che cerca compagnia, che vuole mettere su famiglia. Collegiale non solo nel funzionamento interno, ma nella sua strategia esterna, basata ora sulla ricerca di alleanze e integrazioni, sull’obiettivo di costruire federalmente una maggioranza coesa per governare. Senza iattanza o reminiscenze di vocazioni maggioritarie, che non reggono alla realtà sfaccettata della società italiana.

Bisogna tornare a essere “parte”, ha chiesto Gianni Cuperlo, ragionando sull’anima del partito che ha individuato nel conflitto: una politica senza conflitto è naturalmente di destra, e la sinistra ha regalato all’avversario molti anni senza negoziare né lottare. Una “parte” che costruisce l’“insieme”, ma esplicitamente parte dell’insieme. Sono termini che possono far pensare al travestimento di antiche nostalgie, dove “parte” significa classe e “insieme” egemonia, ma le parole hanno il senso della storia, e sanno bene in che contesti devono inquadrare. Non ci sono né malinconiche rimembranze del vecchio partito né richiami della foresta ai radicamenti nelle vecchie fabbriche.

Ma allora, conflitti su cosa? Qui il percorso si fa meno chiaro. Si continua a ondeggiare fra generici riferimenti a lavori e professioni cognitivi e la paura di un mondo che comunque sembra ostile, quale quello del calcolo. Nell’introduzione, Ilvo Diamanti aveva assolto al tradizionale ruolo dell’intellettuale organico, che spiega quello che la politica non capisce, dimostrando che oggi senza politica si comprende poco della realtà. I sondaggi e gli schemi del sociologo equivocano una predisposizione della base del Pd per la sfera pubblica (larghe maggioranze credono nell’Europa, nei partiti, nello stato e nei sindacati) per una generica tendenza a essere il partito della fiducia. Nel 2020, aggregare naturalmente coloro che credono nelle istituzioni di partecipazione pubblica significa rappresentare uno dei poli del conflitto sociale più moderno: quello fra comunità e monopoli del calcolo. Altro che essere identificati come generici buonisti che amano il prossimo.

Allora eccolo il vero conflitto che fatica ancora a essere riconosciuto. L’ha sfiorato Andrea Orlando quando ha parlato della riforma della pubblica amministrazione: come il vero motore per fare stato e società in Italia, selezionando linguaggi e sistemi cognitivi, rendendo sicuri ed esclusivi i dati sensibili degli italiani. S’è avvicinato Maurizio Martina, quando ha chiesto al Pd di essere un passo avanti rispetto al governo. L’ha toccato ancora Cuperlo quando ha avvertito che aprire il partito ai nuovi ceti sociali digitali, diventare rete significa cedere sovranità, mettere in palio primati e gerarchie che non saranno più dinasticamente assicurati ai titolari degli apparati.

Uno squarcio di conflitto moderno si è percepito nello scontro fra i sindaci: Giorgio Gori, il primo cittadino di Bergamo, ha lanciato una sorta di manifesto neo liberal, facendo il renziano senza Renzi, e rivendicando un realismo demografico, in cui l’Italia e l’Europa dovrebbero scegliersi i propri immigrati soppesando e valutandoli all’origine. Una sorta di mercantilismo dei talenti che assicurerebbe l’accoglienza solo a chi può vendere un brevetto. Opposta la ricetta del sindaco di Firenze Nardella, renziano quando c’era Renzi e oggi battitore libero che difende la collegialità di Zingaretti: che spiega come non ci possa essere sviluppo senza integrazione e armonica tutela dei meno avvantaggiati dalle dinamiche economiche. O come il capo dell’amministrazione di Bologna che, pragmaticamente, chiede case, risorse e infrastrutture per rendere la città una matrice d’inclusione e competizione sociale.

Nelle pieghe del dibattito, questo dei sindaci diventa l’altra faccia del conflitto: la città come soggetto negoziale, come lo fu ieri, con la rendita immobiliare, attraverso il piano regolatore urbanistico, e lo potrebbe essere oggi, nei confronti delle agenzie di profilazione predittiva come Google e Facebook, con un piano regolatore della connettività e delle intelligenze.

Siamo chiaramente all’inizio, dopo anni in cui anche la sinistra più grintosa lasciò campo libero ai padroni del software per pianificare le nostre vite. Zingaretti ha infatti nelle sue conclusioni acquisito il dato di un Pd vivo, che non s’appiattisce sul governo, che non vuole solo discutere a Palazzo Chigi, ma che ambisce a parlare al paese, sicuramente a pezzi di paese: ricerca, imprese, lavoro, accoglienza, terzo settore. Si percepisce il buco sui nuovi mondi computazionali, anche se la società della conoscenza è ancora intesa come un grande centro formativo e non un’arena dove, diceva un vecchio e desueto filosofo tedesco in un ingarbugliatissimo testo ancora considerato esoterico come i Grundrisse, il lavoro sarà misera cosa nella lotta del sapere. Ed è il senso comune che impone la struttura semantica del sapere, attraverso i dispositivi di calcolo, che determinano oggi i livelli di potere sociale. 

Uno scenario dove si materializzano le produzioni, e si pianificano i comportamenti, dove i distributori vincono rispetto ai produttori, e dove utenti e cittadini sono ancora alla mercé di algoritmi. In questo mondo non serve una grande impresa informatica italiana, una scorciatoia che ormai da trent’anni è fuori dal tempo, ma una grande politica che programmi i linguaggi e le relazioni sociali imponendo ai poteri diffusi degli algoritmi trasparenza, condivisibilità e negoziabilità. Esattamente i tre caratteri che sembrano crescere nel nuovo Pd. Ancora a insaputa di tutti.

Pd, partito collegiale. A sua insaputa ultima modifica: 2020-01-14T19:20:37+01:00 da MICHELE MEZZA
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1 commento

Vincenzo Robles 15 Gennaio 2020 a 10:03

Interessante e chiaro articolo

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