Coronavirus. Democrazia immunitaria

Nei prossimi giorni saremo sotto un continuo bombardamento da parte di chi vorrà usare l’epidemia come clava per fracassare le nostre interdipendenze e i nostri meticciati sociali e culturali. La risposta, per contestare questa visione, è solo una vera battaglia politica, che inevitabilmente sconterà momenti minoritari.
MICHELE MEZZA
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Il segretario del Pd, notoriamente tutt’altro che un esagitato e intemperante massimalista, ha rotto gli indugi nell’assemblea nazionale del suo partito chiedendo, fra gli applausi scroscianti, ad alta voce quello che da mesi unisce la cultura progressista e democratica del paese: via i decreti Salvini sull’immigrazione. Esattamente mentre sillabava l’ultimatum al governo le agenzie battevano la notizia della seconda vittima in Lombardia del Coronavirus. La relazione fra i due eventi si moltiplicherà nei prossimi giorni. 

Più s’allargherà anche in Italia il contagio e più la popolazione, senza distinzione politica, culturale o geografica, reclamerà una sicurezza blindata: curiamoci da soli. 

Non è stata solo sfortuna quella che rischia di rovesciare l’impennata del leader democratico in una clamorosa e intempestiva gaffe.

Oggi appare evidente che quella robusta e diffusa pratica di muscolare isolazionismo sovranista che in questi anni ha costruito il primato della destra più estrema a cui Salvini ha dato come brand lo slogan “Prima gli italiani” è qualcosa di estremamente serio, radicato e organico, che non può minimamente coincidere solo con la congiuntura politica della Lega. E, dunque, non può essere combattuta solo rovesciando pubblicamente approccio, atteggiamento e valori, ma deve essere rovesciata combattendo molecolarmente approcci, atteggiamenti e valori. Operazione non di breve lena.

In queste ore in Lombardia e Veneto ci si sta chiedendo cosa sacrificare alla propria sicurezza. Innanzitutto, è la prima risposta che è venuta dai governatori leghisti, i diritti universali: accesso ai servizi, riconoscimento di sanità fino a prova contraria, circolazione libera. Subito dopo il diffondersi del virus in Cina Zaia e Fontana proposero di applicare subito la quarantena a ogni bambino che in qualche modo aveva avuto esperienze o contatti con cinesi, sia per viaggi sia per relazioni. Era il segnale di come intendessero combattere l’emergenza: rafforzando la cosiddetta democrazia immunitaria. Si tratta, lo spiegavano domenica scorsa su la Lettura Donatella De Cesare, Mauro Bonazzi e Giuseppe Remuzzi di una distinzione che attraversa longitudinalmente il corpo sociale e individua la discriminante più attuale e moderna del conflitto politico, quella tra immunità e comunità, che sta all’origine dell’evoluzione del capitalismo. Quando individuo e patrimonio diventano una cosa sola, per cui la cittadinanza è esercitata attraverso il patrimonio e il conflitto sociale sulla proprietà tocca poi l’intangibilità del corpo umano, si forma una categoria antropologica che vede ogni persona proporzionalmente al proprio patrimonio identificarsi con la propria sicurezza. Sicurezza del patrimonio che diventa poi sicurezza dell’incolumità. 

Immunità dal diverso si sovrappone a incolumità personale.

Questo è stato il motore che ha disgregato l’egemonia culturale progressista nel mondo, prima in America, poi in Europa ed ora ovunque.

Una temperie sociale in cui la garanzia personale si è confusa con la libertà, e il benessere locale s’è intrecciato alla propria autodeterminazione singola.

La sostituzione dei legami sociali economici con quelli comunicativi ha guidato e determinato questa metamorfosi che ha individuato nella nazione la trincea e il sindacalista della propria sicurezza. Una cultura che addirittura stravolge valori sacri del capitalismo come la potenza della scienza e l’autorità degli esperti. I movimenti no vax, o no tax, oppure no tav, sono, con matrici e motivazioni diverse, figli di una demonizzazione della comunità statale a favore di una totalizzante visione dell’interesse individuale.

L’intervento del professore Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dello Spallanzani di Roma

Come scrivono nel loro articolo De Cesare, Bonazzi e Remuzzi

l’importante è che il processo di immunizzazione fa del corpo di ciascun cittadino una fortezza da proteggere e da isolare.

Non siamo distanti da quel colossale conflitto filosofico che negli anni Venti del secolo scorsi vide giganti della filosofia come Heidegger, Benjamin, Wittgenstein e Adorno contrapporsi sul tema proprio di modernità e individuo.

Anche allora si affermò una visione radicalmente immunitaria della storia, che, come scriveva Heidegger vedeva

l’essere umano trovarsi realmente nella propria casa ed risultare realmente autentico solo nella propria terra d’origine,

e di conseguenza questa terra non poteva né doveva essere condivisa o inquinata da stranieri. Solo uno stato protettore e tutore dell’autenticità di questa terra, concludeva l’autore dei Diari Neri, autenticità da preservare anche ecologicamente, poteva garantire il destino di ogni individuo. In fondo a questa visione Heidegger troverà i falò di Norimberga delle camicie brune. 

Viene da lì questa costante e permanente ansia d’immunità, di separazione del proprio benessere. Un’ansia che non può essere sconfitta con un semplice appello ai sentimenti. Fu riprogrammata nella seconda metà del Novecento da un possente movimento comunitario e socialista che legò benessere collettivo alla contaminazione sociale. Dissolta quell’identità, rimane oggi solo una generica cultura liberal che ripiega ogni volta che sale la temperatura dello scontro, come vediamo negli Stati Uniti. Vedere le regioni più economicamente avanzate e sicure accartocciarsi attorno a indifendibili confini, nonostante che in pochi giorni la pausa della Cina abbia già dimostrato come questo mondo non viva senza una globalizzazione socialmente negoziata, dimostra come lo scontro fra libertà e destino su cui naufragarono le speranze libertarie di Benjamin reclami oggi un’azione politica alta e forte, e soprattutto visibile e lucida.

Nei prossimi giorni saremo sotto un continuo bombardamento da parte di chi vorrà usare l’epidemia come clava per fracassare le nostre interdipendenze e i nostri meticciati sociali e culturali. 

Abbiamo un unico straordinario vantaggio: la società a rete indelebilmente rimane un grafo sociale iperconnesso. Infatti non è l’isolamento il nemico ma la separazione: la divisione fra paesi, regioni, città. Le mille brexit che illudono i brianzoli o i veneti, o perfino i quartieri residenziali di Napoli e Bari di potercela fare meglio senza zavorra. La vicenda del coronavirus da questo punto di vista sarà un’implacabile giustificazione. Separarsi dagli altri per sopravvivere meglio degli altri. Solo una vera battaglia politica, che inevitabilmente sconterà momenti minoritari potrebbe contestare questa visione.

Benessere, sviluppo e convivenza possono coesistere solo in una logica comunitaria, che renda la circolarità delle informazioni, dei capitali delle persone e dei diritti un tutt’uno. Abbiamo dinanzi a noi come modello esattamente quella società digitale che tanto ci incute paura.

L’Europa l’altro giorno ha varato una straordinaria strategia per l’intelligenza artificiale affermando, con coraggio, che non si vuole riprodurre i modelli americani, basato sui monopoli privati del calcolo, o cinese, segnato dell’algoritmo-nazione, ma si vuole imboccare la via più naturale dell’innovazione che vede coincidere trasparenza, condivisibilità e negoziabilità delle intelligenze e delle memorie con l’affidabilità, la sicurezza e l’efficienza dei dispositivi. Per la prima volta democrazia ed efficacia tecnologica sono sinonimi, non sprechiamo l’occasione. Così come radicalità delle proposte e senso comune delle persone. Non sprechiamo per prudenza inattuale l’occasione.

Coronavirus. Democrazia immunitaria ultima modifica: 2020-02-22T17:51:07+01:00 da MICHELE MEZZA
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