In gennaio, quando le notizie sullo scoppio dell’epidemia di coronavirus a Wuhan, la più importante e popolosa città della Cina centrale, hanno cominciato a fare il giro del mondo, in America non è stato solo il presidente Donald Trump a evitare di utilizzare toni allarmanti. Inizialmente, anche l’establishment del Partito democratico e la stampa americana hanno avuto la tendenza a ridimensionare quella che allora era considerata alla stregua di un’influenza, scandalizzandosi al massimo per la decisione del presidente, a fine gennaio, di chiudere le frontiere agli stranieri che venivano dalla Cina, un gesto tacciato di “sinofobia” o populismo.
Non tutti però hanno preso la minaccia sotto gamba. Tra i pochi a lanciare l’allarme già in gennaio c’è una figura molto importante della destra americana: Steve Bannon, uno dei principali artefici del successo di Donald Trump nel 2016 e ora ideologo dell’internazionale populista.
In meno di tre mesi l’ex capo stratega di Trump – allontanato dalla Casa bianca nel 2017 ma rimato sempre in contatto con la Casa Bianca – ha dedicato alla pandemia più di cento episodi della sua “War Room”, il personalissimo bollettino quotidiano con cui fa il punto sulla situazione politica americana.
Un’intuizione che ha assunto fin dai primi giorni i caratteri di un’ossessione. Come mai? L’ipotesi più plausibile è che Bannon abbia fiutato nell’epidemia di coronavirus una ghiotta occasione per ridefinire i contorni del campo conservatore, epurandolo da ogni elemento riconducibile all’internazionalismo liberale o a un sostegno del processo di globalizzazione. È lo stesso piano con cui ha aiutato Trump a diventare presidente.
Da questo punto di vista, il coronavirus in pochi mesi è riuscito a realizzare quello che negli ultimi anni i nazionalisti di tutto il mondo non sono riusciti a fare: ha bloccato il movimento di persone e in alcuni casi anche di merci, spingendo a un ripensamento dell’economia mondiale in chiave autarchica.

È un passo avanti verso l’“America first” di Trump o il “prima gli italiani” dei leghisti nostrani. Bannon lo sa bene e per questo ha cominciato a gridare alla pandemia quando in America tutta l’attenzione dei media era ancora rivolta alle primarie del Partito democratico. I toni usati dall’eminenza grigia del sovranismo internazionale la dicono lunga sulla sua strategia: fin dall’inizio ha puntato il dito contro il Partito comunista cinese, che descrive regolarmente come “demoniaco” o “satanico”, ed è arrivato a paragonare l’epidemia a una Chernobyl cinese.
Secondo Bannon, le autorità di Pechino andrebbero ritenute pienamente responsabili per aver trasformato la pandemia in una metastasi, con il loro tentativo iniziale di insabbiare la crisi, che portò anche all’arresto del primo medico che diede l’allarme.
Un discorso che si inserisce nello scambio di accuse che sono rimbalzate da una parte all’altra del Pacifico, con funzionari del Partito comunista cinese che hanno fatto circolare la teoria secondo cui il virus sarebbe stato prodotto negli Stati Uniti o comunque sarebbe opera dell’esercito americano, e l’amministrazione Trump impegnata a ribattere per bocca dello stesso presidente, specificando la provenienza cinese del virus, definito in conferenza stampa “the Chinese virus”, il virus cinese.
È solo l’inizio di una escalation che negli ultimi giorni ha portato vari esponenti del Partito repubblicano ad affermare che Pechino dovrebbe pagare, anche cancellando parte del debito americano che detiene, per la crisi sanitaria mondiale partita da Wuhan. La strategia del Partito repubblicano si appiattisce così ora su quella di Bannon: andare allo scontro frontale con Pechino e presentare Trump, in vista del confronto elettorale di novembre, come il miglior candidato per farla pagare ai cinesi.
La destra americana non è però così unita come potrebbe apparire. Per capire il perché è necessario fare un passo indietro, ai mesi di gennaio e febbraio. In questo periodo, il presidente ha ripetutamente sottovalutato la minaccia, arrivando a prevedere, il 26 febbraio, che il numero di casi di persone infette si sarebbe presto “avvicinato allo zero”.
Ora che il coronavirus ha travolto l’America nessuno osa più sottostimarne la pericolosità. Da gennaio fino a metà marzo, invece, i fedelissimi di Trump erano ancora divisi in maniera molto interessante.
Da un lato c’erano quelli che sostengono Trump a oltranza “solo” perché è il leader dello schieramento repubblicano e farebbero la stessa cosa con qualunque altro presidente conservatore. Essi hanno prima ignorato il problema e poi fatto propria la retorica “non allarmista” del presidente. Due esempi: il 10 marzo Sean Hannity, commentatore politico di Fox News, network tradizionalmente vicino ai conservatori, sosteneva ancora che
le persone sane, solitamente, nel novantanove per cento dei casi, si riprendono molto velocemente.
Il giorno dopo il noto conduttore radiofonico Rush Limbaugh, anche lui megafono dei repubblicani, ribadiva che
il virus è un raffreddore.
Dall’altro lato, in maniera speculare, c’erano i trumpisti della prima ora: Steve Bannon, ma anche il conduttore conservatore Tucker Carlson o Mike Cernovich, inquietante teorico della cospirazione che riscuote particolare successo tra l’alt-right, la destra alternativa, che già il 25 febbraio definiva il Covid-19 la “Katrina di Trump”, con riferimento all’uragano che nel 2005 mise in ginocchio l’America e l’amministrazione Bush. Questi sono stati tra i primi a lanciare l’allarme.
Perché? Se sei un trumpista della prima ora, allora il coronavirus è la conferma di tutto quello che hai sempre sostenuto, ovvero che la globalizzazione è un problema, che le filiere sono troppo lunghe e sparse per il mondo (ad esempio, la Cina controlla il 40 per cento dei principi attivi dei farmaci americani), che bisogna riportare indietro la produzione dalla Cina agli Stati Uniti, farla finita con le delocalizzazioni e controllare le frontiere.

Viene da chiedersi come mai Trump abbia allora a lungo preferito minimizzare la minaccia, invece che cogliere la palla al balzo per attaccare la Cina. Un errore di valutazione? O forse il Trump di oggi non è lo stesso del 2016 ed e più vicino alle posizioni tradizionali dell’establishment repubblicano, attento al libero scambio e ai principi della globalizzazione? Quel che è certo è che ora lui e il suo partito si stanno riallineando con il disegno di Bannon, inquadrando la crisi come un’emergenza nazionale, che necessita peraltro l’identificazione di un colpevole, e non un dramma umanitario globale.
Da un punto di vista prettamente elettorale, fare così è nel loro interesse. Il disegno sovranista di Bannon è agile, sfugge agli schemi tradizionali della politica americana. Ciò permette anche a un presidente repubblicano di giustificare il ricorso in questo momento a politiche sociali costose per far fronte alla crisi, in barba all’ortodossia tradizionale del partito, incentrata sulla riduzione delle spese governative.
Per di più, con questo approccio assistenzialistico il sovranismo di destra strizza l’occhio anche a sacche della parte politica opposta. Non è una novità: negli ultimi anni abbiamo assistito a dinamiche di questo tipo anche qui da noi, un po’ in tutta Europa.
Ora però il sovranismo rischia di fare il salto di qualità. Nel breve termine, questo renderebbe più evidente quello spostamento di equilibri a cui si sta assistendo già da un po’ di tempo nel composito panorama delle forze conservatrici, in America e in Europa. È il prezzo del patto con il diavolo: i soggetti ancorati alla democrazia liberale e al libero mercato stanno cedendo il passo a favore dei nazionalisti, che adesso minacciano di approfittare del rancore che invade ampie fasce della popolazione per instaurare un “autoritarismo popolare”.
Ecco il rischio nel medio-lungo periodo. In Ungheria è già successo, con la decisione di Orbán di attribuirsi “pieni poteri”. Un’eventuale vittoria di Trump a novembre sarà un altro passo deciso in questa direzione. Verso il baratro della democrazia.

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