Lo “Statuto dei lavoratori”, che fu varato il 20 maggio del 1970, fu l’inevitabile epilogo delle lotte operaie che avevano scosso gli anni Sessanta, fino all’autunno caldo del ’69. Il 1970 fu un anno di grazia: oltre alla legge 300, entrarono in scena il Divorzio, le Regioni, i Referendum. Tante altre riforme seguirono nel decennio: dalla casa, alla Rai, alla psichiatria, alla sanità, all’aborto, alle carceri e tutto questo sommovimento, che cambiò l’Italia, era accompagnato da una forte vitalità artistica e culturale che si manifestava con la diretta e fattiva partecipazione degli intellettuali a ogni passaggio della vita politica e sociale, saldando la loro azione alle lotte operaie e giovanili.
L’approvazione della Legge 300, che fu voluta fortemente dai socialisti, trovò la sinistra, sia politica che sindacale, tormentata e divisa.
Lo stesso Pci, scosso dalla possente vitalità di quella sua parte che diede vita al manifesto e che bollava di “riformismo povero” lo Statuto, indicandolo come uno “strumento che poteva far smarrire la centralità che avevano assunto le lotte operaie”, sbagliando, s’astenne perché lo voleva più completo e capace di estendere le tutele a una platea più ampia di lavoratrici e lavoratori, soprattutto quelli delle piccole imprese sotto i quindici dipendenti e capace di creare le condizioni per il superamento delle “gabbie salariali”.
Nel sindacato, nonostante l’unità forte tra socialisti e comunisti, unità che s’era rinsaldata ancor di più proprio sullo Statuto, esisteva un’ala malpancista rappresentata soprattutto della componente che faceva riferimento allo Psiup (che poi divenne Pdup-Manifesto) e a tutti quei comunisti che, pur rimanendo nel Pci, avevano orecchie sensibilissime per i forti segnali che provenivano dalla cosiddetta “sinistra extraparlamentare”.

Io, allora, ero alla Camera del Lavoro di Novara, che organizzava non solo i lavoratori del novarese e della bassa Valsesia ma anche quelli dell’intero Verbano, del Cusio e dell’Ossola, territori che negli anni Sessanta furono segnati da grandi lotte per la difesa del lavoro. Solo per citarne alcune: la Rhodiatoce di Pallanza, la Fonderia Pietra di Omegna, le industrie chimiche e siderurgiche dell’Ossola e le aziende tessili dell’intero novarese, tutte travolte dalle riorganizzazioni, compresa la Cartiera Burgo di Romagnano Sesia.
Queste lotte furono dirette dalle rappresentanze sindacali aziendali che, in alcuni casi, vedevano al loro interno una forte presenza della “sinistra extraparlamentare”, la quale non solo non accettava lo Statuto ma, alimentata da alcune storiche riviste operaiste, dava vita ad azioni di rifiuto caratterizzate da una pregiudiziale opposizione ideologica.

Infatti, dentro alla Camera del Lavoro Cgil dell’intera provincia di Novara il dibattito mise in evidenza un fenomeno che durò per molti anni: quello di una spaccatura tra i gruppi dirigenti sindacali che erano tormentati e divisi al loro interno e quello che accadeva nelle fabbriche nelle quali le assemblee di fabbrica sancivano, praticamente all’unanimità, l’approvazione dello Statuto.
Oggi tutti riconoscono quanto ha inciso la Legge 300 sulla tutela e sui diritti dei lavoratori, introducendo nelle fabbriche i diritti previsti dalla Carta costituzionale e aprendo l’era della partecipazione operaia, ma, soprattutto, proponendosi come la positiva condizione che avrebbe consentito la nascita dei Consigli di fabbrica.
Di fronte a tutto questo appare ancora più incomprensibile la posizione che assunse allora la “sinistra extraparlamentare”, posizione che evidenziò, ancora una volta, la loro caratteristica solo elitaria, portandoli così a ritenere che i loro rapporti con alcune ristrettissime minoranze, le quali però avevano uno spazio nei vertici sindacali di fabbrica, significassero avere un filo diretto con la base dei lavoratori e con il loro modo di pensare.
Ma la cosa che merita di essere sottolineata, e questo mi pare non sia fatto abbastanza, è che l’esperienza unitaria vissuta dalle fabbriche nella battaglia per l’approvazione della Legge 300 fu, alcuni anni dopo, la preziosissima condizione che consentì ai lavoratori di isolare, prima ancora che l’omicidio di Guido Rossa rompesse ogni legame ed emarginasse definitivamente il terrorismo, le spinte e le suggestioni volte a far penetrare l’ideologia pro-terroristica nei luoghi di lavoro. Spinte e suggestioni che, inizialmente, trovarono troppo consenso, a volte addirittura esplicito, in quegli stessi ambienti che non capirono il significato e la portata dello Statuto dei lavoratori.

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