#Pci100anni. Dentro Botteghe oscure

Che succedeva dentro il palazzo emblema del Partito comunista italiano, la sede della Direzione nazionale del Pci? Il racconto di chi vi ha trascorso una parte importante della sua vita politica e professionale.
PIGI DE LAURO
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“Pigi, ehi Pigi… guarda che hai sbagliato, il partito non è più qui”. A ricordarmelo scherzosamente era un bravissimo collega, Maurizio Caprara, che mi beccò sul marciapiede davanti al n. 4 di via Botteghe Oscure dove avevo un appuntamento. Sì, la sede del glorioso Partito comunista italiano non era più lì, come del resto non c’era più il Pci. Non era più lì anche se qualche cosa era rimasto grazie alle Belle arti che avevano imposto ai nuovi affittuari, un megagalattico studio di avvocati americani che occupava sei piani del palazzo, di non rimuovere dall’ingresso l’opera di Giò Pomodoro, Parete di Misure, con il bancone di granito, la statua di Gramsci, la teca con la bandiera della Comune di Parigi e una falce e martello stilizzata. Non è rimasto altro se non i ricordi di tante persone. Non ho rimpianti per il passato ma, in effetti, ogni volta che ho occasione di passare davanti al “bottegone” costruito da Marchini non posso non andare con la memoria agli anni trascorsi là dentro. 

La mia militanza nel Pci è durata poco più di cinque anni, dall’84 (all’epoca segretario del partito era Alessandro Natta, eletto dopo la scomparsa di Enrico Berlinguer) fino al ’91. Pochi anni ma intensi culminati con la storica svolta della Bolognina di Achille Occhetto e il cambio del nome del partito: da Pci a Pds. Anni pieni di avvenimenti che forse vale la pena raccontare e che, anche da piccole cose, rendono chiari i cambiamenti avvenuti in quel partito ma anche quello che è rimasto, frutto di una lunga storia e di sedimentate ideologie.

Sono arrivato al Pci appunto nell’84 dopo l’esperienza come funzionario del Pdup, insieme, tra gli altri, a Sandro del Fattore, Paolo Mondani e Maurizio Marcelli. Al Pci ci accolsero, almeno sembrò a noi, con interesse e simpatia, probabilmente vedendo in noi quella ventata di novità e freschezza della quale il Pci aveva bisogno. I funzionari come me furono confermati e così cominciò la mia nuova avventura presso la Federazione romana del partito. L’accoglienza positiva nascondeva però anche una certa cautela, in fondo facevamo sempre parte del gruppo del manifesto, quelli che furono radiati nel 1969, e il ricordo era ancora vivo e presto constatammo che dovevamo abbattere qualche muro per entrare nelle “grazie” di molti.

Un esempio per tutti. Quando si doveva decidere l’ingresso di alcuni di noi nell’organismo dirigente della Federazione, il Comitato federale, questa diffidenza si palesò. Toccò a me fare da cavia. Quando si trattò di votare il mio ingresso, il relatore continuò a chiamarmi con il nome e cognome, come del resto credo fosse giusto, ma, come mi dissero poi, sotto c’era il trucco. Infatti, io dai più ero conosciuto con il mio soprannome, Pigi (che mi porto dietro ancora oggi). Insomma, con quel nome e cognome ero un emerito sconosciuto e non si capiva perché uno sconosciuto, appunto, dovesse entrare nel massimo organismo di direzione. Ma era palesemente un modo furbesco e subdolo per evitare che molti ex pduppini dirigessero la federazione.

L’inganno fu svelato grazie a un intervento del sindaco di Roma, Ugo Vetere, che mi conosceva anche con il mio vero nome dal momento che avevo partecipato con Lidia Menapace, eletta in quota Pdup, a numerose riunioni della maggioranza che sorreggeva la sua giunta. “Ma come – fu il suo simpatico appoggio che ruppe il clima un po’ teso– volete escludere l’unico comunista dal volto umano?”. 

Parete di misure, Giò Pomodoro, atrio della direzione del Pci, Roma

Fu così deciso il mio ingresso e, nonostante l’inizio stentato che, confermo, dimostrava a parer mio che era difficile abbandonare le vecchie abitudini, cominciarono un po’ tutti, dalla vigilanza in su, ad apprezzarmi. Come primo incarico, il segretario Sandro Morelli mi fece stilare il programma elettorale per un’iniziativa che si sarebbe tenuta a breve. Morelli mi disse anche che avrei lavorato con i compagni Scacchi e Dama. La cosa ovviamente mi fece ridere fino al punto di credere a uno scherzo e invece scoprii che i due cognomi erano reali e che con uno, Giuseppe Dama, segretario del Comitato centrale del partito, avrei collaborato in futuro con reciproca soddisfazione. 

Però fui destinato ad altro incarico: “costruire” un rapporto con la stampa, mettere su un vero ufficio stampa, cosa di cui la federazione romana era priva. C’era la stampa e propaganda ma era un’altra cosa. Quindi con Carlo Leoni, responsabile appunto della stampa e propaganda, con cui ho avuto sempre un ottimo rapporto, decidemmo che bisognava andare avanti. Non era facile, non c’era ancora la consapevolezza dell’importanza di una struttura del genere e i giornalisti non erano visti bene neppure allora, anche se, concedetemelo, erano più informati di adesso.

Bisognava andare con i piedi di piombo, far digerire piano piano la novità, come ci consigliò anche il segretario. Fu trovata la soluzione: abbinare il neonato ufficio stampa con l’ufficio già esistente che s’occupava di individuare gli oratori che dovevano intervenire alle varie iniziative delle sezioni, facendo pubblicare ogni giorno dall’Unità, in un’apposita rubrica, l’elenco delle iniziative. Avevamo trovato la quadratura del cerchio, come si dice.

L’aggancio fu il rapporto con il giornale del partito che, poi, si sarebbe esteso anche agli altri giornali, televisioni e agenzie.

È da sottolineare che anche mettere giù l’elenco delle iniziative aveva una sua precisa liturgia. L’elenco dei nomi aveva un suo ordine codificato: i primi dovevano essere i meno importanti e il più noto, il dirigente insomma, doveva chiudere l’elenco. Non si doveva sgarrare, ma se qualche volta succedeva, la telefonata del dirigente il giorno dopo era sicura al cento per cento. L’ufficio stampa prese piede e venne notevolmente apprezzato, caricandoci di molto lavoro. Malgrado questo fu però una battaglia persa riuscire a ottenere un fax e i comunicati li portavo ai vari giornali, con la mia vespa.

Enrico Berlinguer dal balcone di Botteghe oscure rivendica la vittoria alle elezioni regionali,
16 giugno 1975. Alla sua destra e alla sua sinistra ci sono vari dirigenti, tra cui Giuseppe Dama, Antonio Tatò, Giorgio Amendola, Gerardo Chiaromonte, Emanuele Macaluso e Ugo Pecchioli.

Fu comunque una bellissima esperienza che mi permise anche di fare un passo avanti: arrivare finalmente a Botteghe oscure. Lì l’ufficio stampa c’era da tempo ed era diretto da un mostro sacro, Tonino Tatò, il consigliere di Enrico Berlinguer, che successivamente passò il testimone a Walter Veltroni. Fu proprio Veltroni a chiamarmi al Bottegone. Era il 1986, ero entusiasta e, nello stesso tempo, intimorito ma orgoglioso perché quel palazzo era la mia meta ambita. Subito un aspetto mi colpì molto. Quel palazzo non era solo la sede di un grande partito: era uno Stato in miniatura. C’era di tutto. L’ambulatorio con la sala massaggi, c’erano le compagne della Colaser, la cooperativa delle pulizie, che, in caso di necessità, nel sottoscala ti stiravano i pantaloni, ti attaccavano i bottoni e così via. C’era anche una convenzione con i migliori medici e specialisti di varie patologie, e convenzioni con varie cliniche.

L’ingresso della direzione del Pci in via delle Botteghe Oscure

Il mio fu un inizio facilitato anche grazie a chi già lavorava in quell’ufficio: Altero Frigerio, anche lui ex Pdup, Raffaele Gorgoni, Antonella Clementi, Gloria Cingoli, Maurizio Aversa, Paola Silvestri e Roberta Lisi. I locali erano alla destra dell’ingresso in modo tale che la vigilanza potesse controllare eventuali ingressi, si trattava di un ufficio “aperto al pubblico” ma non lo era il palazzo, e si poteva salire ai piani solo se autorizzati e accompagnati.

Per inciso, con la storica Vigilanza ebbi da sempre un ottimo rapporto. Li stimavo e comprendevo, anche per un mio passato che non sto a raccontare, i rischi che comportava il loro lavoro.

Con Veltroni si lavorava dalle otto di mattina, quando Walter arrivava con i giornali già letti, ci salutava e ci invitava a salire nel suo ufficio al sesto piano per la consueta riunione. Il fatto che alle otto Veltroni avesse già letto i giornali mi mandava ai pazzi e all’inizio chiedevo agli altri: “ma Walter non dorme mai…?”. Quelli furono anni tranquilli se si può parlare di tranquillità nel maggior partito di opposizione. Il compito dell’ufficio stampa era prevalentemente di diffondere i comunicati con le dichiarazioni dei vari dirigenti rispettando le varie, diciamo così “sensibilità” politiche che ufficialmente non dovevano trasparire ma noi sapevamo che esistevano eccome.

Nilde iotti e Giorgio Frasca Polara

Ogni sabato inviavamo a tutti i giornali, televisioni agenzie, direttori compresi, gli editoriali di Rinascita che, a dire il vero, venivano puntualmente ripresi. Altro compito di alcuni di noi era quello di resocontare gli interventi nel corso delle riunioni del Comitato centrale, resoconti che il giorno dopo erano pubblicati su l’Unità. A decidere chi doveva resocontare gli interventi era il responsabile, Giorgio Frasca Polara, firma del giornale e portavoce della presidente della Camera Nilde Iotti. Era un lavoro delicato e impegnativo che, comunque, una volta fatto doveva passare al vaglio dell’interessato. All’ultimo arrivato, cioè a me, in una occasione fu dato, con un certo cinismo penso, il compito di riprendere il discorso di Giorgio Napolitano. Compito particolarmente complicato vista la proverbiale pignoleria del futuro presidente della repubblica. Concentrato, non persi una parola e, alla fine, presentai il mio lavoro a Napolitano. Lo lesse e, poi, senza dire nulla e senza nemmeno muovere appunti o critiche, prese un foglio e con la sua scrittura particolare riscrisse completamente il sunto e me lo consegnò con un sorriso. Da quella volta ero io a chiedere di resocontare Napolitano sapendo che alla fine se lo sarebbe scritto da solo.

Il segretario Natta non aveva un buon rapporto con i mezzi di informazione anche se, prima della nomina partecipava alle varie trasmissioni politiche ed era molto efficace ma poi, forse per il peso della responsabilità, si spense e perse incisività. Per noi dell’ufficio stampa non era un compito facile perché, ad esempio, dopo le riunioni importanti, dovevamo praticamente costringerlo a rilasciare le interviste ai mezzi di informazione. Tre Tg, tre giornali radio e poi s’aggiunse Mediaset. Dopo la terza intervista spazientito diceva: “ma questo me lo hanno già chiesto prima e io ho risposto”. No, non era facile. 

Il primo maggio del 1988, Natta ebbe un infarto e fu ricoverato all’ospedale di Perugia. Mi mandarono in missione e stetti lì parecchi giorni. Con la moglie di Natta alloggiavamo all’Hotel La Rosetta, e passavo intere giornate all’ospedale per dare le poche notizie ai giornalisti presenti. La procedura, che mi suscitò da subito molti interrogativi, sebbene non esplicitati, prevedeva che ogni bollettino medico, prima che il primario lo leggesse ai giornalisti, doveva essere visionato dal segretario regionale del Pci dell’Umbria che dava il suo consenso alla diffusione. Unico momento di vivacità fu rappresentato dalla visita di Achille Occhetto, del quale si parlava già come successore di Natta. Dall’incontro non trapelò nulla e non fu detto nulla anche a noi. La netta sensazione fu che non andò proprio bene. Comunque, non mi ricordo molto di quella circostanza tranne una sensazione di freddezza che aveva colpito quasi tutti.

Natta si dimise. E, dopo un accordo che Occhetto e D’Alema strinsero, così raccontarono le cronache politiche, nel garage di Botteghe Oscure, il 21 giugno del 1988 Achille Occhetto divenne il segretario del partito. Fu un momento di grandi cambiamenti anche nel Palazzo, In primo luogo quello più evidente e politicamente meno impegnativo, il cambiamento nell’arredamento. Fu rifatto l’ufficio del segretario, la lugubre sala del comitato centrale fu ristrutturata sostituendo le vecchie sedie di legno con sedie nuove e più comode soprattutto di legno chiaro. Anche la saletta dove si riuniva la segreteria e la direzione fu ristrutturata e arredata con un democratico tavolo rotondo e sempre chiaro. Anche il nostro ufficio fu trasferito in un’ala del palazzo vicino alla stupenda sala stampa e con ingresso autonomo in via dei Polacchi concedendoci un’autonomia forse insperata.

Ma i cambiamenti, ovviamente, non furono solo di immagine ma anche di sostanza. Uno di questi suscitò, soprattutto nei gruppi dirigenti, grande scalpore e contrarietà. Occhetto, oltre che degli organismi statutariamente eletti, decise di dotarsi di un gruppo di persone che riteneva a lui più vicine; il cosiddetto staff che non formalmente ma di fatto bypassava le altre strutture dirigenti e la cosa non piacque a molti. Tra queste persone sono da ricordare Iginio Ariemma, che sostituì all’ufficio stampa Veltroni chiamato ad altri incarichi, Antonello Falomi, Franco Ottolenghi e Claudio Petruccioli, il compagno che forse il segretario ascoltava di più, intelligente, non legato a vecchi schemi e liturgie e, la cosa non guasta, a mio modesto parere, anche simpatico.

Un altro piccolo, ma significativo cambiamento fu la decisione del neosegretario di permettere ai compagni dell’ufficio stampa di entrare liberamente, per validi motivi legati per esempio alle notizie importanti diffuse delle agenzie di stampa, nelle sale dove si tenevano le riunioni di vertice, segreteria e direzione. Novità, e c’era da aspettarselo, non sempre accolta con favore da alcuni dirigenti, soprattutto i più anziani, ma la cosa divenne una prassi.

Come dicevo, non ho particolari rimpianti per il passato ma il ricordo di quando entravo in quegli uffici e vedevo seduti intorno a un tavolo i pezzi da novanta del partito, Nilde Iotti, Gerardo Chiaromonte, Giorgio Napolitano, Pietro Ingrao, Aldo Tortorella, Alfredo Reichlin mi fa ancora oggi un certo effetto. Avevamo anche accesso all’ufficio del segretario, cosa fino a poco tempo prima impensabile. A guardia della porta sbarrata c’era la bravissima segretaria Stefania Fredda che prima dell’apertura impediva l’ingresso se non previa autorizzazione. Stefania non c’è più. Proveniva da una famiglia romana di comunisti doc, una sala della Camera del Lavoro di Roma si chiama Sala Fredda in onore del padre Angelo. Lei non voleva credere che Occhetto avrebbe cambiato il nome al partito. “Guarda che lo fa” le dicevo io. “No, tu non lo conosci come lo conosco io, non lo farà mai”. Dopo la Bolognina, ob torto collo si adeguò anche lei, era troppo legata al partito. Il segretario, il suo staff e alcuni membri della segreteria avevano i loro uffici al secondo piano al quale i comuni mortali potevano accedere da un grande ascensore, mentre un piccolo ascensore poteva essere usato quasi esclusivamente dai dirigenti.

In primo piano, con Occhetto, Giancarlo Farini, dietro Mario Giachini con gli occhiali, e Guido Quaranta, un altro compagno della vigilanza, spesso nella scorta del segretario (“Guidone” e Giancarlo sono morti nel 2017, a poca distanza di tempo l’uno dall’altro)

In quel piano c’erano anche gli uffici delle segretarie di segreteria, veri corpi scelti, selezionate per capacità e per curriculum. In fondo al lungo corridoio c’era una porta a grate, quasi sempre aperta controllata da compagni della vigilanza con tanto di scrivania il cui compito era di controllare chi entrava e chi usciva. Il più famoso era Teodoro Baccarlino, nome troppo lungo e difficile, per cui tutti era Bacca, un omone romano di una certa età, affabile ma deciso. Da lì si accedeva all’ufficio del segretario e agli uffici della sua segreteria e al famoso balcone che dava su Botteghe oscure e dal quale nelle occasioni importanti il leader parlava ai militanti radunati nella strada, il più delle volte per festeggiare una vittoria, non molte a dire il vero in quel periodo. Successe anche, ma questa è storia conosciuta, che là sotto si radunassero quelli che non erano d’accordo con la svolta di Occhetto, protestando e strappando le loro tessere.

La segreteria di Occhetto coincise con un periodo di particolare attivismo: decisamente il clima all’interno del palazzo, e nel partito, era cambiato. Occhetto aveva le idee chiare, voleva cambiare anche senza esplicitarlo ma con azioni concrete: i prodromi di quell’intenzione fu la famosa intervista all’Espresso sulla rivoluzione francese (“siamo figli dell’89”) che provocò non poche reazioni, soprattutto contrarie.

Fu il primo segretario comunista ad andare negli Stati Uniti, criticò duramente la Cina dopo i fatti di piazza Tienanmen in un comizio a Firenze. Senza dimenticare le polemiche, le risatine di quelli che lo stesso leader definì “vecchi babbioni del partito”, quando uscì sui giornali la foto con la moglie Aureliana Alberici, in un atteggiamento affettuoso: il famoso bacio di Capalbio. Foto che oggi nessuno criticherebbe, ma allora, e in quel partito dove erano ancora presenti vecchi pregiudizi, fu ritenuta inopportuna.

Achille Occhetto e Pigi De Lauro

Viaggiava molto e il più delle volte, e questa era un’altra novità che suscitò critiche, usando un aereo privato che gli permetteva spostamenti più liberi e veloci. Tra i viaggi prima e durante la svolta è interessante segnalarne alcuni. Io avevo il compito di seguirlo, ero tutt’uno con la vigilanza del partito e la scorta della polizia e, come inciso personale, in quelle occasioni ho mangiato nei migliori ristoranti d’Italia e dormito nei migliori alberghi, perché quando si trattava di ospitare il segretario non si badava a spese. Una di queste trasferte fu in Sicilia, nella sua amata Sicilia, la regione di cui era stato segretario regionale del Pci.

Infatti, per tradizione, i dirigenti del partito destinati a fare carriera venivano spediti in quella difficile regione per fare gavetta. In quell’occasione ebbi la netta sensazione, anzi la certezza che quel partito, che nell’immaginario collettivo era diverso dagli altri, si dimostrava essere come gli altri almeno nei suoi rappresentanti locali. Erano in corso le elezioni regionali che storicamente non sono mai state favorevoli al partito e Occhetto si buttò anima e corpo in quella competizione. Successe che, dopo una visita al Petrolchimico di Gela con uno dei candidati in quel collegio, Occhetto fu intervistato da alcune emittenti locali che in Sicilia erano parecchie. Una giornalista gli chiese un parere sul candidato e lui non poté che darne uno positivo.

Mentre ci allontanavamo, fui raggiunto da due persone, di cui uno era un altro candidato, che mi dissero che Occhetto avrebbe dovuto rimediare allo scorrettezza che aveva fatto. Io trasecolai, non capivo di cosa si parlasse, e risposi che il segretario aveva semplicemente e correttamente risposto a una domanda a bruciapelo dando quella risposta per il bene del partito in primo luogo. Pensavo che la cosa fosse finita lì ma non era così. Poco dopo era previsto un comizio in un grande salone. Appena entrammo mi si gelò il sangue: alle pareti c’erano almeno cinque video che trasmettevano l’intervista con l’endorsement di Occhetto per quel candidato. Apriti cielo, i due tornarono alla carica anche con un certo vigore e alla fine il segretario si convinse, anche se a fatica, che era il caso di rimediare. Lo fece in un’altra intervista ma non servì a nulla, quel candidato non venne eletto.

Un’altra missione da ricordare fu quella in Polonia. Viaggio che si svolse nel pieno del dibattito sulla svolta. Credo che Occhetto non fosse eccessivamente entusiasta anche perché ogni volta che si allontanava da Roma, soprattutto se andava all’estero, dal Bottegone partivano le bordate delle altre due mozioni contrarie, anche se con sfumature diverse, alla svolta. A quei tempi non c’erano strumenti che permettessero rapide comunicazioni, i telefonini non erano ancora in voga, per cui queste dichiarazioni arrivavano prima ai giornali che al diretto interessato. Ma quel viaggio fu significativo per almeno due motivi.

L’incontro con Lech Walesa, allora il massimo oppositore del regime polacco filo sovietico, che sottolineò ancora una volta il modo diverso di intendere la politica da parte del leader, altra occasione per far dire assai criticamente agli oppositori che lui voleva uscire dai binari storici e portare il partito verso altri lidi. Altra visita importante fu quella alla sede del Poup, nel centro di Varsavia. Il Partito unificato operaio polacco allora ancora al potere sebbene in modo un po’ traballante. Palazzo che, forse per la legge del contrappasso, attualmente ospita gli uffici della Borsa polacca. Lunghi corridoi completamente deserti, la maggior parte delle porte chiuse, sprangate. Insomma, una visione spettrale che fece dire a Occhetto, mentre salivamo in un ascensore che ci portava chissà dove, “Se finiamo così io mi ammazzo”. Poche parole dal sen fuggite che avevano in sé, io credo, la sua idea precisa del futuro.

E poi, il dibattito sulla svolta. Uno scontro interno al partito alla luce del sole come mai era successo. Nel Pci ci fu un cambiamento radicale, non più confronti/scontri nascosti dalla rituale formula “un dibattito franco e sincero”. Le differenze vennero finalmente alla luce senza infingimenti. Le riunioni del comitato centrale e della direzione erano il terreno di accesi, ma sempre corretti scontri. Nel partito ci si abituò e nel palazzo si accettò che tutte le cosiddette “mozioni” avessero i loro uffici, i loro addetti stampa e i loro spazi. Nelle sezioni, ma questo è stato più volte raccontato, non si erano mai visti tanti compagni e anche appassionati. Forse è bene ricordare quel fatidico 12 novembre 1989.

Nessuno sapeva, né poteva immaginare, cosa aveva in mente Occhetto e si è più volte raccontata la genesi di quella uscita alla Bolognina, chi l’ha vissuta da Roma può solo raccontare che nel tardo pomeriggio di quella giornata fredda e uggiosa ricevette una telefonata da Iginio Ariemma con la quale comunicava che Occhetto aveva detto “qualche cosa” alla Bolognina senza specificare cosa e che, però, bisognava comunque avvertire i giornalisti.

Ho sempre pensato che quella telefonata fu fatta per scaricare un po’ di responsabilità ma ad Ariemma, che oggi non c’è più, si perdona tutto. Non fu facile non avendo alcuna pezza d’appoggio ma la missione riuscì lo stesso. E così il giorno dopo i giornali uscirono con la notizia in bella evidenza, e si aprì una pagina storica nel più grande partito comunista dell’occidente e, perché no, anche nel paese. Quello che successe dopo è noto: riunioni su riunioni, congressi su congressi, un dibattito appassionato, amicizie perse e famiglie spaccate.

Di congressi se ne fecero ben due, uno a Bologna e l’ultimo a Rimini, che fu quello che sancì il passaggio, fu quello del liberatorio e umano pianto pubblico di Occhetto, anche in questo caso con il corollario di critiche e battute ciniche. Ma a Rimini successe anche che nei confronti dell’ideatore della svolta fu messo in atto un immeritato sgarbo politico e denso di significato: Occhetto non venne eletto segretario del nuovo partito, nomina che avvenne giorni dopo a Roma. Da allora nulla fu come prima perché non si poté più parlare del Pci ma di un’altra “cosa” (e il temine occhettiano non è usato a caso) che poi divenne Pds. Di anni ne sono passati parecchi, sparì il Pds per dare spazio ai Ds di dalemiana memoria e alla fine nacque il Pd, ma questa è una storia recente che qualcun altro racconterà.

#Pci100anni. Dentro Botteghe oscure ultima modifica: 2021-01-19T17:52:42+01:00 da PIGI DE LAURO
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