Mancano poche settimane alle elezioni nella Comunità autonoma catalana e, come sempre negli ultimi anni, il voto per il Parlament determinerà fibrillazione nel quadro politico e istituzionale della Spagna. Dimostrerà anche il gradimento del confronto politico, iniziato un anno fa, tra il governo di sinistra spagnolo sostenuto da tutte le forze politiche rappresentanti le minoranze nazionali e la presidenza della Generalitat catalana. Aiuta sicuramente a leggere la realtà istituzionale la raccolta di saggi curata da Fabio Marcelli, direttore dell’Istituto di Studi giuridici internazionali del CNR, dal titolo Il problema catalano tra diritto a decidere ed autodeterminazione.
Marcelli, nel costruire l’opera, ha seguito l’approccio multidisciplinare dell’Istitut d’estudi de l’autogovern, creato dal governo catalano, amalgamando campi di ricerca differenti: il diritto costituzionale, il diritto internazionale e la politologia. Studio che non poteva impostarsi diversamente essendo quella catalana una questione di democrazia, quindi una questione formale, giuridica, ma anche sostanziale, istituzionale.
Restano sullo sfondo il sostrato culturale e storico sul quale il catalanismo affonda: la lingua, derivazione della lingua d’oc, e il principato di Catalogna soppresso in quell’11 settembre 1714 a seguito del prevalere dei Borbone nella guerra di successione al trono spagnolo. La democrazia in queste comunità è, invece, un problema ultramoderno perché è risorta con la costituzione della Repubblica nell’ambito della Federazione delle Repubbliche iberiche del XX secolo e, attraversando la lotta senza quartiere al fascismo franchista, è giunta alla costituzione della rinata monarchia Borbone all’indomani della morte di Franco.

Costituzione del 1978 fondata su un compromesso, non su una soluzione di continuità netta con il regime precedente, pur essendo stata approvata a quasi tre anni dalla scomparsa del dittatore e avendo introdotto una nuova forma di Stato monarchico parlamentare. Forma di Stato non caratterizzata in senso federale, anzi profondamente accentratrice per quanto attiene lo Stato-apparato e, specialmente, la Guardia civil e l’amministrazione della giustizia civile, penale e amministrativa.
Accentramento istituzionale, retaggio del franchismo, spinto su tutta la penisola iberica fino al disarmo unilaterale del movimento politico per l’indipendenza dei Paesi Baschi nel 2011 dopo che, nel 2008, il Tribunale costituzionale vietò al parlamento basco di effettuare una consultazione popolare inerente a un dialogo politico con l’ETA.
La genealogia della questione catalana è enucleata nei saggi di Marcelli e di Jaume Lopez come processo di radicalizzazione di un movimento politico-istituzionale che si è visto conculcato in un diritto fondamentale: il diritto a decidere su quale forma di autogoverno darsi. Diritto a decidere esercitato attraverso referendum a partire dal 2006 con la consultazione confermativa del nuovo Statuto della Comunità autonoma che se applicato
avrebbe potuto stimolare uno sviluppo del sistema autonomista nel suo complesso, segnando l’avvio di una nuova tappa costituzionale per l’intera Spagna.

Proprio la trasformazione in un diritto azionabile la disposizione programmatica dello Statuto sintetizzata nello slogan “som una naciò i tenim el dret a decider” (“siamo una nazione e abbiamo diritto a decidere”, ndr) è stata una sfida perduta per l’ottusa chiusura delle istituzioni statali spagnole ma anche per la inidoneità delle fonti del diritto internazionale a annoverare il diritto a decidere come un diritto positivo. Conferma l’assunto la sentenza n. 31/2010 del Tribunale costituzionale che ha castrato l’autorità della Comunità catalana di convocare referendum non solo vincolanti, ma anche semplicemente riconosciuti nell’ordinamento giuridico del Regno.
Sentenza che ha sancito l’affermazione del secessionismo come alternativa politica a un autonomismo senza sbocchi e, sul piano istituzionale, la stagione dei referendum autogestiti e della proclamazione unilaterale d’indipendenza della Generalitat dallo lo Stato spagnolo. Secessione tema di approfondimento del costituzionalista napoletano Gennaro Ferraiuolo, categoria politica che la dottrina tradizionale colloca nella illegalità extra ordinem sulla scorta di un approccio statico del diritto. Lo Stato deve, dunque, risolvere il tentativo di secessione come problema di ordine pubblico o con la sentenza definitiva di condanna del Tribunale Supremo di Madrid per ribellione e sedizione ai sensi, rispettivamente, degli artt. 472 e 544 del codice penale, perché gli eletti della Comunità autonoma catalana avrebbero ordito un piano con “l’accettazione di prevedibili o altamente probabili episodi di violenza” (cit. sent. pag. 116). Violenza che, tuttavia, in Catalogna non c’è stata né è stata mai evocata da Puigdemont e compagni.
A tutt’altri risultati si potrebbe giungere relativizzando il ruolo degli stati nazionali nel contesto dell’ordinamento eurounitario perché gli organi dell’Ue – se avessero il coraggio di intervenire – potrebbero relegare il caso catalano a secessione interna in contrapposizione alla secessione esterna nel caso Brexit. Si potrebbe giungere a tutt’altri risultati anche mutuando categorie del costituzionalismo anglosassone, sia prendendo a ispirazione il referendum consultivo sull’indipendenza scozzese sia attualizzando la sentenza della Corte suprema canadese del 1998 sull’indipendenza del Quebec, che ammette la secessione come extrema ratio. Sentenza in cui si legge che il diritto non si configura esclusivamente quale limite esterno della decisione politica, ma deve al contempo “be capable of reflecting the aspiration of the people” (“essere capace di riflettere le aspirazioni del popolo”, ndr) anche in ordinamenti nazionalmente complessi. Come descrivere meglio il principio di autodeterminazione dei popoli in un contesto postcoloniale?


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