La variante Draghi e il mutismo della sinistra

Se il presidente del consiglio si propone come un certificatore delle soluzioni che di volta in volta sono definite al tavolo delle forze del governo, allora bisogna che a quel tavolo qualcuno parli con una voce più forte e non solo a titolo personale.
MICHELE MEZZA
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L’azione di questo governo è troppo seria per ridurla a un semplice ping pong con la memoria del precedente, come pateticamente il club Travaglio cerca di fare, per puro marketing editoriale. Il più grande regalo che si potrebbe fare al premier Draghi è proprio quello di confrontarlo con il suo predecessore. Basterebbe analizzare l’infrastruttura dei decreti attuativi che il fido ministro dell’economia Franco sta già perfezionando a tempo di record per chiudere la partita.

In realtà la comparazione, se proprio vogliamo procedere in questi termini, andrebbe fatto con il primo Conte, il premier della maggioranza giallo verde uscita dalle elezioni del 4 marzo del 2018. Quel governo, come ci spiegò un allora ringalluzzito Steve Bannon nelle sue scorrerie italiane, aveva il merito di aver congiunto il sovranismo di destra e di sinistra, creando un modello globale per la destra trumpiana.

Alla base di quell’operazione c’era la più pragmatica e sociologica constatazione dell’intreccio dei due elettorati, usciti vincenti dalle elezioni: la base leghista del Nord, cementata da lavoro autonomo e piccola e media impresa tributaria della Germania, e l’area del precariato assistito del Sud. 

Filo rosso che legava e motivava i due blocchi era l’illegalità fiscale.

Quella sorta di eversione antistatalista che legittimava pratiche ormai consolidate di evasione sistematica. Da quel blocco uscì poi il fronte del negazionismo, o comunque della resistenza, alla forza del virus che si oppone ancora a misure drastiche nel contrasto alla pandemia.

Il decreto che ieri Draghi ha disinvoltamente presentato nel suo battesimo del fuoco comunicativo sembrano sancire una specie di upgrading di questa strategia. Un’evoluzione in salsa inglese: un pudding di un mitigato sovranismo emergenziale.

Infatti i provvedimenti del nuovo governo, presi uno per uno, hanno indubbiamente una loro giustificazione. Visti nel loro insieme – come dovremmo sempre per un esecutivo che ha la responsabilità di fronteggiare la terribile congiuntura ma anche disegnare il percorso della ricostruzione – danno un messaggio allarmante. 

Più per quello che manca che per quello che viene annunciato. 

Il condono viene certo temperato e limitato a un reddito inferiore ai 30 mila euro, ma copre ben dieci anni dell’inefficienza della macchina statale, che non viene certo coinvolta in possibili aggiornamenti e apre la strada, come Salvini già fa sapere, a ulteriori progressioni della rottamazione. 

I finanziamenti a fondo perduto a professionisti e aziende si sommano ai ristori e aprono varchi a un’ulteriore amnistia fiscale, ma soprattutto raggiungono in maniera indifferenziata quel segmento che era sotto la lente d’osservazione per le dichiarazioni degli ultimi anni: l’area attorno ai 150 mila euro di dichiarazione che raccoglie un ventaglio vastissimo di terziario e segmenti professionali urbani. 

A difesa di questa pancia del paese si è ritrovata la vecchia maggioranza giallo verde del primo Conte, con il duo Giorgetti-Patuelli a brandire la spada della rivolta del ceto medio. 

Mentre la sinistra si è limitata a rafforzare l’ingessatura del blocco dei licenziamenti e il prolungamento sia della cassa integrazione ordinaria a fine giugno, e per quella straordinaria delle imprese più piccole fino a dicembre. 

Si tratta di capire cosa avverrà in questo periodo nelle strutture ingessate: i dati ci dicono che, anche per effetto dei titoli del Recovery Fund, le aziende stanno gia elaborando piano di riorganizzazione digitale, modificando il proprio perimetro produttivo e il modello di business. Le previsioni di un’impennata del Pil complessivo a fine anno al 4,1 per cento, superiore alla stessa Germania, ci dicono anche che la geografia economica è molto composita e articolata e vi convivono fenomeni diversi a volte nella stessa impresa.

Sarebbe utile che i finanziamenti dessero trasparenza a questi progetti prima della rimozione dell’ingessatura. Ma il vero imbarazzo della sinistra al tavolo di governo è dato da un sostanziale mutismo sull’insieme della manovra per una più evanescente percezione della propria base sociale. Mentre Lega e 5S hanno chiara ed evidente quali siano gli interessi da proteggere – e si comportano da sindacalisti delle corporazioni che hanno adottato – la sinistra si trova schiacciata sulla tradizionale difesa del comparto del lavoro industriale, che per altro in larghe zone del paese ormai vota chiaramente a destra, e invece non riesce a raccogliere e a esibire la diretta rappresentanza di aree intermedie, come il mondo delle università, della ricerca, della sanità, delle creatività culturali e multimediali, che appaiono più trascurate. 

Proprio la mancanza di questa consapevolezza penalizza l’intero governo che si vede sollecitato solo sul versante della sanatoria fiscale o del finanziamento a pioggia alle partite IVA. Su cui la sinistra, in mancanza di una strategia più ampia, rischia di diventare solo la rappresentante della Guardia di Finanza nel chiedere un generico rigore fiscale per tamponare l’esuberanza di lega e 5S. Mentre rimangono del tutto afoni i settori che la pandemia rende nodali come appunto sanità, ricerca e sistema delle narrazioni, che ricevono contributi solo per la spesa corrente dei vaccini o degli strumenti per la formazione a distanza. 

Su questi comparti invece proprio ora bisogna riversare, anche per la parte più emergenziale, risorse per attivare sistemi di controllo e sviluppo delle tecniche di contrasto al virus e aggiornare le infrastrutture sanitarie nell’assistenza territoriale e culturali nella tenuta delle città. 

C’era da aspettarsi un capitolo di finanziamento robusto per riorganizzare le reti di medici di base e farmacie per le vaccinazioni immediate e per consolidare sistemi sociali in vista di prossimi sbalzi epidemiologici, o per dare almeno una rete di protezione a circuiti dell’audiovisivo e delle attività culturali spiantati dalla paralisi permanente.

E forse il ricorso al MES mai come ora avrebbe avuto un suo senso, magari rinegoziato proprio alla luce dei nuovi tassi. Rimuoverlo come necessità, come ha dichiarato esplicitamente il premier, dopo che ci siamo svenati sull’opportunità di usarlo, e insieme parlare di una strategia autonoma dall’Europa e più vicina alla Russia per lo Sputnik, suona come una vera riabilitazione se non del Papeete sicuramente delle pulsioni che attraversavano la vecchia maggioranza sovranista.

Draghi rimane Draghi, un papa straniero, e sarebbe un errore chiedergli una riconversione.

In questa fase serve una figura affidabile a prescindere. E lui mostra di avere questo patrimonio carismatico da spendere. Ma proprio perché si propone come un certificatore delle soluzioni che di volta in volta sono definite al tavolo delle forze del governo, allora bisogna che a quel tavolo qualcuno parli con una voce più forte e non solo a titolo personale.

La variante Draghi e il mutismo della sinistra ultima modifica: 2021-03-20T12:58:10+01:00 da MICHELE MEZZA
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