#LaCorsaAlVoto. Parla Stefano Draghi

Intervista con il “mago dei numeri” che rese celebre l’ufficio elettorale di Botteghe oscure, più efficiente e rapido del Viminale.
PIGI DE LAURO
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Del mitico ufficio elettorale di Botteghe oscure, famoso per precedere regolarmente e con largo anticipo il Viminale con proiezioni affidabili dei risultati elettorali e poi dei risultati elettorali stessi, fu responsabile da 1982 al 1989. Milanese, classe 1942, laurea in Economia alla Bocconi, Stefano Draghi ha studiato metodi quantitativi per la ricerca sociale e informatica per le scienze sociali presso l’Università del Michigan. Si è specializzato in analisi del comportamento elettorale seguendo corsi presso le Università di Essex (GB), Bergen (NO), Colonia (D) e Harvard (USA). È stato Visiting Fellow presso le Università di Wisconsin (Madison) e California (Santa Barbara). È stato assistente ordinario e professore incaricato di Metodologia della Ricerca Sociale e di Statistica Avanzata all’Università di Catania e dal 1978 professore associato di Metodologia della Ricerca Sociale e di Tecniche della Ricerca Sociale alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano. È in pensione dal 1° novembre 2012. Dal 1983 al 2017 ha insegnato Information, Communication Technology all’Università IULM, corso di laurea in Comunicazione, media e pubblicità e fino al 2020 ha tenuto il corso di Nuove Tecnologie Digitali presso la stessa Università. Dal 1983 al 1995 è stato direttore dell’Istituto Superiore di Sociologia presso l’Università degli Studi di Milano e dal 1996 al 2001 direttore scientifico dell’Istituto di ricerca Explorer (oggi Ipsos).

Il 25 settembre si andrà a votare per il rinnovo del Parlamento: si conclude così una legislatura travagliata che sembrava avesse trovato con il governo Draghi una conclusione meno traumatica. Lei pensa che poteva andare diversamente?
Certo si poteva arrivare alla fine naturale della legislatura, ma pochi mesi di differenza non avrebbero modificato più di tanto il posizionamento e i rapporti di forza tra partiti e schieramenti in vista della campagna elettorale e solo se il governo Draghi avesse conseguito risultati eccezionali, molto improbabili con quella composizione del governo e in una situazione di forti tensioni internazionali. In una competizione politica dominata dai media in regime di campagna quasi permanente, le posizioni ai nastri di partenza sono in primo luogo il prodotto di attività e di comunicazione politica di medio-lungo periodo, e non solo delle alchimie combinatorie dell’ultima ora. Per i partiti in calo di consenso continuare ad appoggiare il governo Draghi significava protrarre una lenta agonia, per chi stava all’opposizione è sembrato il momento di incassare la rendita di posizione. M5s e centro-destra avevano tutti “buoni motivi” per aprire la crisi. 

Si dà per certa una vittoria del centrodestra e, in particolare, di Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni e tutti i sondaggi finora diffusi vanno in questa direzione. A suo giudizio questo risultato è scontato?
In materia elettorale non c’è quasi nulla di scontato. Certo l’effetto band wagon – quello che fa vincere il favorito – è assai più frequente del suo opposto, l’effetto underdog che premia lo sfidante o l’outsider. E proprio su questo puntano i sondaggi pubblicati che, a differenza di quelli riservati, si propongono sempre più come razione quotidiana della campagna permanente e sempre meno come misurazione “obiettiva” (nonpartisan analysis à la Gallup) dell’opinione pubblica. Con la scomparsa dei partiti come soggetti dell’azione collettiva, la personalizzazione della politica e la presenza ingombrante di un quasi-monopolista della audience televisiva, i media determinano notorietà e gradimento dei “personaggi politici”, i sondaggi ne registrano la popolarità e la trasformano in intenzioni di voto. Le testate committenti danno grande risalto ai risultati che gradiscono e questo a sua volta “gonfia” i sondaggi successivi, in una spirale che è difficile interrompere.
Già Herbert Simon, Nobel dell’economia, quasi settant’anni fa, aveva messo in evidenza questo meccanismo. O da un altro punto di vista– come diceva Richard Nixon – buoni sondaggi non necessariamente prevedono la vittoria, ma certamente riempiono le casse del mio comitato elettorale e questo aiuta molto a vincere. Contrastare l’egemonia del centro-destra sui media tradizionali non è compito realizzabile in qualche settimana. Le tecnologie digitali sono oggi parte essenziale della comunicazione politica (si è visto come sono riuscite a esaltare e far votare uomini politici mediocri o insignificanti). Sinistra e centro-sinistra, che su quelle tecnologie avrebbero potuto e dovuto costruire l’alternativa alle reti tv e alle risorse economiche del Cavaliere (il collante del centro-destra), scontano oggi qualche decennio di ritardo.

Come si è arrivati a questo punto?
Difficile trovare una spiegazione. Il ritiro degli intellettuali dall’impegno politico attivo è stato probabilmente uno dei fattori che più hanno rallentato la messa in sintonia della politica con l’evoluzione del mondo digitale. E il deficit culturale che ne è derivato ha contribuito ad attenuare lo spirito critico e la capacità di elaborazione indispensabili di fronte all’affermarsi del capitalismo delle piattaforme e della sua destrezza nell’appropriarsi della vita quotidiana di miliardi di persone. Si sono lasciate deperire le forme tradizionali del partito e non se ne sono organizzate di nuove. Ricordo una battuta di qualche anno fa – forse di Giachetti – in occasione di un congresso del Pd: “nel 2019 un Partito o è digitale o semplicemente non è. Abbiamo undici anni di ritardo, è tempo di recuperare terreno”. Sono passati altri tre anni, ma non mi pare che sia successo nulla di significativo da questo punto di vista. Per innescare l’effetto underdog e ribaltare il vantaggio del centro-destra adesso mi pare più ragionevole sperare in qualche piccolo miracolo. Vedremo intanto se qualcosa si muove nei sondaggi delle prossime settimane.

Qualcuno, che forse pecca di ottimismo, ricorda un precedente: nel lontano 1994 si dava per scontata la vittoria della famosa “gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto ma la discesa in campo di Silvio Berlusconi cambiò le carte in tavola decretando la vittoria di Forza Italia e del centrodestra. Secondo lei è uno scenario possibile? Se si presentasse un partito di centro potrebbe cambiare la situazione?
Ma quello fu uno dei rari casi di vittoria dell’outsider che si è verificato in condizioni irripetibili e non paragonabili a quelle di oggi (Mani Pulite e la questione morale, la scomparsa di Dc, Psi e dei partiti satelliti, oltre il quaranta per cento degli elettori senza partito di riferimento). Oggi un partito di centro potrebbe cambiare la situazione, ma la probabilità che si costituisca, più che un partito, almeno una lista importante di centro, mi pare molto limitata. Per più di un motivo.

In Italia e in molti altri Paesi, l’elettorato si è ridotto numericamente e radicalizzato e il “centro elettorale” si è via via prosciugato. Il partito di centro è quindi sempre più una questione di ceto politico che non di orientamento politico degli elettori (i cosiddetti elettori moderati). Cadute le grandi contrapposizioni ideologiche del secolo scorso, è più facile anche per gli elettori moderati scegliere uno dei due schieramenti maggiori e non so se il successo del M5S degli scorsi anni e il trionfo del populismo abbiano interrotto o modificato questa tendenza. Le piccole formazioni che si contendono questo spazio politico sempre più esiguo sono partiti “personali” e come tali – per costituzione – poco propensi a confluire in organizzazioni più grandi. Per il momento registro che Calenda e +Europa stanno col centro-sinistra, Toti col centro-destra e solo Renzi è rimasto a presidiare la casella di centro. 

Ormai l’astensione tocca il trenta per cento. Qual è la ricetta perché almeno una parte di questi elettori possa ritornare alle urne? Cosa deve fare il centrosinistra, ad esempio, per farli tornare a votare?
La partecipazione elettorale in Italia diminuisce costantemente  da cinquant’anni. E così avviene in molti altri Paesi democratici. La politica tout court ha perso appeal e legittimità. Si potrà rallentare la discesa, più difficilmente invertire la tendenza. E anche qui fenomeni di così lungo periodo non possono essere affrontati con soluzioni occasionali o improvvisate, ma solo andando al cuore del problema. Che non è tanto o solo l’entità del fenomeno, ma il fatto che tendono a uscire dalla contesa elettorale proprio strati sociali – i più marginali – che avrebbero maggiormente bisogno di sostegno e tutela dalla politica. Penso che ci sia una sola strada: che i partiti tornino a svolgere la funzione essenziale di integrazione dei cittadini elettori nel sistema politico. Ma occorre per questo una nuova organizzazione e l’uso diffuso e intelligente delle nuove tecnologie per contrastare la tendenza alla disintermediazione propria dei social media.  Dopo il flop dei cosiddetti “partiti digitali” e i molti problemi del M5S con la piattaforma Rousseau, non mi pare che una simile prospettiva sia all’ordine del giorno degli attuali partiti.

Una domanda un po’ personale. È stato docente in molte università non solo italiane ma si è anche impegnato politicamente sia nel Pci, nel Pds e nel Pd ricoprendo incarichi importanti. Fra questi è stato il responsabile dell’Ufficio elettorale della direzione nazionale del Pci/Pds. Un ufficio il cui lavoro e i suoi risultati erano riconosciuti e apprezzati sia all’interno che all’esterno del partito. Mi può raccontare come funzionava?
Sono stato chiamato come esperto dalla Direzione Organizzazione del Pci ad avviare in via sperimentale un progetto di proiezioni elettorali da realizzare all’interno dell’Ufficio elettorale del Partito, allora diretto da Celso Ghini, a cui sono più tardi succeduto dopo la sua morte. Io contribuivo con il know-how  (il modello statistico di stima e le procedure informatiche), il Partito con la sua organizzazione capillare. L’operazione fu un successo e dimostrò che il Partito poteva, con più precisione e ancor prima delle istituzioni e della tv, farsi banditore dei risultati elettorali per l’intero Paese. Fu quello un modesto contributo alla crescita di prestigio dell’organizzazione del Pci e, dieci anni prima della Bolognina, un altro passo verso la piena legittimazione democratica del Partito. 

#LaCorsaAlVoto. Parla Stefano Draghi ultima modifica: 2022-08-06T20:56:12+02:00 da PIGI DE LAURO
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