Enzo Ascoli, Gastone Ascoli, Renzo Ascoli, Gino Bassi, Renato Calabi, Vittorio Bruno Cevidalli, Aldo Coen Porto, Vittorio Coen Porto, Giuseppe Dalla Torre, Adriano Diena, Adolfo Errera, Luciano Fano, Marco Fano, Silvia Finzi, Renzo Franco, Giuseppe Grego, Amedeo Guetta, Raffaello Levi, Guido Levis, Cesare Magrini, Ludovico Minerbi, Alberto Musatti, Carlo Ottolenghi, Roberto Oreffice, Max Ravà, Cesare Gino Sacerdoti, Gustavo Sarfatti, Alberto Segre, Gino Segre, Mario Sonino, Ruggero Sonino, Angelo Sullam, Gino Sullam, Renzo Sullam, Marco Ettore Vitta.
Questi i nomi dei 35 avvocati veneziani impressi nella targa disvelata lo scorso 11 gennaio alla Cittadella della Giustizia, a Piazzale Roma, su iniziativa del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Venezia, per ricordare i colleghi cancellati dall’Albo per effetto delle leggi razziali del 1938.
Chi fossero, le loro vite, come reagirono a quell’atto scellerato, consumatosi nell’indifferenza quasi generale, nel silenzio assordante dell’avvocatura e della magistratura di allora e fino quasi ai giorni nostri, non è dato sapere.
Purtroppo, nella comunità veneziana, non ci sono testimoni viventi in grado di restituirci il racconto di quella tragedia, preludio dello sterminio del popolo ebraico che avrebbe avuto luogo negli anni a venire,
esordisce il presidente della Comunità ebraica di Venezia, Dario Calimani, al telefono con ytali.
La reazione fu di iniziale sgomento, molti non si capacitavano delle ragioni di tali disposizioni. Alcuni si chiesero di quali infamie si fossero macchiati, essendo stati fino ad allora convinti fascisti. I più accorti lasciarono subito il paese, ma i più non ne compresero la gravità o quando la compresero, era oramai troppo tardi.


Nel corso della cerimonia, si sono succeduti gli interventi del presidente della Corte d’appello di Venezia, Carlo Citterio, del presidente del Tribunale, Salvatore Laganà, del rabbino di Venezia, Rav. Alberto Avraham Sermoneta, la presidente dell’Ordine degli avvocati di Venezia, Federica Santinon, infine Paolo Romor, in rappresentanza del Comune di Venezia. Il presidente Citterio ha sottolineato il carattere “riparatorio” della cerimonia, mentre nelle brevi relazioni che sono seguite, si è fatto accenno alla situazione odierna, segnatamente a paesi dove il libero esercizio della professione trova vincoli e limiti, da cui il monito del Rabbino capo di Venezia a restare vigili e attenti, a non abbandonarsi all’indifferenza verso chi è oggetto di atti discriminatori.
L’introduzione di Santinon ha avuto il pregio di far comprendere, seppur molto sommariamente, le modalità attuative della legge 29 giugno 1939 n. 1054 (pubblicata sulla Gazzetta ufficiale n. 179 del 2 agosto 1939) con la quale il regime fascista intervenne, con grande rigore, vietando agli ebrei l’esercizio della professione di avvocato, procuratore e patrocinatore legale.


Molto efficace e completo è invece l’articolo di Carlo Brusco, già presidente di sezione della Corte di Cassazione, che su Questione Giustizia (rivista on line di Magistratura Democratica) ripercorre in dettaglio i vari passaggi legislativi. Ampia e articolata è anche la parte che attiene all’epurazione degli ebrei dall’Università e dalla Magistratura, ove si rimarca l’indifferenza e le mancate reazioni da parte dei giuristi dell’epoca ai provvedimenti discriminatori. Anzi, sottolinea l’autore testualmente:
Desolante è l’esame delle reazioni dei colleghi dei professori epurati; numerose furono le adesioni entusiaste alle leggi razziali da parte di alcuni di loro (parte dei quali beneficiò ovviamente dell’esclusione dalle cattedre degli epurati) ma la maggior parte furono costituite da espressioni di stima ambigue e ipocrite che si limitavano ad augurare agli epurati un futuro migliore. Ma, visto che espressioni di dissenso potevano avere gravi conseguenze sulle carriere future e sugli incarichi ricoperti o da ricoprire, la reazione prevalente fu quella del silenzio…
Analoga indifferenza e colpevole silenzio si sarebbe accompagnata, spiega l’autore, a proposito dell’epurazione dei giudici ebrei dispensati dal servizio, mentre il tema della legislazione razziale avrebbe trovato scarso riscontro nelle pagine delle riviste giuridiche italiane e dalla dottrina dell’epoca.
Per quanto attiene alle professioni, il processo di proscrizione degli iscritti di origine ebraica culminato con le leggi razziali, s’inserisce nel contesto della progressiva fascistizzazione degli enti e delle istituzioni,
a partire dal progressivo svuotamento dei poteri dei Consigli degli Ordini nel 1926, la loro soppressione definitiva e l’affidamento di tutte le funzioni ai sindacati fascisti, avvenuti nel 1933-1934.
Tuttavia all’indomani delle leggi antiebraiche del 1938 nulla era stato stabilito ancora sul destino dei professionisti in genere e quindi anche su quello degli avvocati italiani in particolare. Fu la circolare applicativa (n. 9270/Demografia e Razza), emanata il 22 novembre 1938. a porre il primo tassello delle future restrizioni, introducendo il divieto per le amministrazioni pubbliche (e assimilate) di affidare incarichi di alcuna specie ai cittadini ebrei. Sempre nel novembre del 1938, dai lavori del direttorio nazionale del Sindacato fascista avvocati e procuratori, fu autorevolmente prospettata la “possibilità che, sulla base di principii razziali, non si dia luogo all’ammissione degli ebrei agli albi”. La proposta “precorreva” di fatto i tempi della futura normativa.
Infatti, nel giugno dell’anno successivo (1939) sarebbe stata emanata la legge di “Disciplina dell’esercizio delle professioni da parte dei cittadini di razza ebraica” (L. n. 1054 del 29 giugno 1939). Sotto questo titolo e con un linguaggio apparentemente burocratico si intendeva nascondere in realtà la decisione di emarginare i professionisti ebrei dalla vita lavorativa e sociale del mondo cui fino ad allora erano appartenuti. La legge riguardò le professioni di giornalista, medico-chirurgo, farmacista, veterinario, ostetrica, avvocato, procuratore, patrocinatore legale, esercente in economia e commercio, ragioniere, ingegnere, architetto, chimico, agronomo, geometra, perito agrario, perito industriale (art.1); mentre fu preclusa in via assoluta l’esercizio della funzione di notaio (art. 2).
I professionisti erano obbligati a denunciare la propria appartenenza alla “razza ebraica” entro il termine di venti giorni dall’entrata in vigore della legge, un termine la cui inosservanza comportava l’arresto fino a un mese e l’ammenda fino a lire 3.000 (art. 6). Gli avvocati ebrei, al pari delle altre categorie, furono suddivisi in due gruppi, a seconda del possesso o meno del requisito della discriminazione, che poteva essere concesso agli appartenenti ad alcune categorie (e ai loro familiari) meritevoli di tutela in quanto “benemerite della Patria”, secondo il giudizio di commissioni distrettuali e di un organo centrale, e gli accertamenti compiuti dalla nuova Direzione generale per la demografia e la razza (“Demorazza” presso il Ministero dell’interno.
Il primo gruppo di professionisti era dunque formato da coloro che, avendo ottenuto la discriminazione, erano iscritti in “elenchi aggiunti” (che sarebbero stati istituiti in appendice agli albi) e avrebbero potuto, “salvo le limitazioni” che comunque sarebbero state loro imposte, continuare ad esercitare il proprio lavoro (art. 1 della l. n. 1054).
Nel secondo gruppo furono ricompresi invece i professionisti non discriminati, costretti a iscriversi in altri elenchi denominati “speciali” (art. 4) e che avrebbero potuto lavorare solo per clienti “appartenenti alla razza ebraica”, salvo casi di comprovata necessità e urgenza (art. 24). Inoltre, tutti i professionisti ebrei (senza distinzione questa volta tra le due categorie di discriminati e non) subirono il divieto (anticipato dalla circolare del 1938) di ricoprire incarichi che comportassero lo svolgimento di funzioni come pubblico ufficiale, né poterono più esercitare attività (anche di consulenza) per conto di “enti pubblici, fondazioni, associazioni e comitati di cui agli articoli 34 e 37 del codice civile e in locali da questi dipendenti.
Così prosegue nella sua attenta disamina Carlo Brusco:
Competenti a raccogliere la denuncia di appartenenza (cui erano tassativamente tenuti tutti i professionisti ebrei) furono gli organi professionali, che, in caso di mancata denuncia da parte degli interessati, dovevano procedere d’ufficio ai necessari accertamenti. Indipendentemente dalla richiesta di discriminazione, eventualmente avanzata da chi ne avesse avuto titolo, i sindacati fascisti delle diverse categorie (responsabili della tenuta degli albi) dovevano procedere direttamente alla cancellazione dei professionisti ebrei. Quindi, in attesa della discriminazione (vagliata dal Ministero dell’interno) e della (conseguente) iscrizione negli elenchi aggiunti per i discriminati, l’interessato, in quanto cancellato dall’albo, non poteva più esercitare alcuna attività professionale.
Inoltre, era data la possibilità al cliente non ebreo di revocare l’incarico al professionista non discriminato anche prima della cancellazione dall’albo (artt. 6 e 27). La scelta del regime di operare una distinzione, all’interno dei meccanismi della persecuzione, tra discriminati e non discriminati non può naturalmente celare il dato di fatto che ci si trovava di fronte a due forme – la seconda, certo, più grave della prima – di limitazione dei diritti e di emarginazione sociale. Anzi, la discriminazione con cui lo Stato spingeva alcuni a differenziarsi dagli altri, vantando le proprie benemerenze fasciste, costituì forse – come ha scritto Guido Alpa – “l’apice dell’abiezione” da parte del regime. In questa vicenda alcuni avvocati parteciparono convintamente all’esclusione dei propri colleghi dalla professione e si congratularono – come fecero i dirigenti del Sindacato di Milano sulla “Tribuna forense” – con il duce per le scelte del fascismo, che avrebbero restituito “piena dignità agli albi professionali”.
Ma vi furono altri, come l’avvocato Elio Vittorio Valobra, vicepresidente dell’Unione comunità israelitiche italiane, che contribuirono a far emigrare migliaia di persone. Su incarico dell’Unione, infatti, alla fine del 1939 insieme ad altri, avvocati (come Rolando Vigevani di Parma) e non, egli costituì la Delasem (Delegazione Assistenza Ebrei Migranti), con sede centrale a Genova e uffici a Roma, Milano e Trieste, che ebbe il compito, dapprima di aiutare i rifugiati da altri paesi e poi gli stessi ebrei italiani. Grazie a questa organizzazione dal 1939 al 1945 sarebbero stati salvati circa cinquemila ebrei.

Storie di viltà, di umane bassezze ma anche di eroismo che, tuttavia, secondo Dario Calimani, spesso non riceve l’attenzione che doverosamente merita. Emblematica la figura del Prof. Giuseppe Jona, cattedratico all’università di Padova, medico primario stimatissimo, filantropo e capo della Comunità ebraica nel 1943, a cui è dedicato l’omonimo padiglione all’interno dell’ospedale Civile di Venezia. Jona preferì il suicidio alla collaborazione con i nazisti, sottraendosi all’infame imposizione di identificare gli ebrei da consegnare alla deportazione.
È alla verità storica che si appella Calimani, non celando una vena polemica nei confronti di cerimonie reticenti sulle responsabilità dirette del regime fascista. Come per esempio la targa posta, vicino all’aula della Corte d’assise di Padova, a memoria dei quindici avvocati radiati dall’Ordine in seguito alle leggi antiebraiche nel 1939.
Sorprende come in queste targhe raramente si citi il fascismo. Si citano le vittime come se fossero state uccise da un evento naturale e non dall’infamia fascista”. “Ci si sorprende della strumentalizzazione che viene fatta di questo editto delle leggi razziali: si prende solo questo evento in considerazione. Ma queste leggi furono il prodromo alla deportazione. Hanno creato il clima nella società italiana per rendere indifferenti alla deportazione degli ebrei. Di questo non si parla. Si dice, ‘ci dispiace per le leggi razziali, ci distanziamo da esse’, ma non si cita il fascismo né il fatto che l’Italia consegnò i suoi ebrei ai campi di concentramento”. Questa assenza è per me la dimostrazione che la nazione italiana deve ancora fare un esame di coscienza. Non c’è stata riflessione né metabolizzazione di ciò che il fascismo è stato. Come italiani ci consideriamo vittime del nazismo e invece ne siamo stati i complici


Nell’associarci a tali affermazioni, ytali si fa portavoce di un appello ai suoi lettori:
Chi ha notizie, un parente, un testimone indiretto delle vicende e della vita dei professionisti che qui di seguito ricordiamo, ce ne racconti la storia. Per condividere insieme e far riaffiorare vicende che il pensiero dominante ha finora relegato nell’oblio.
Enzo Ascoli, Gastone Ascoli, Renzo Ascoli, Gino Bassi, Renato Calabi, Vittorio Bruno Cevidalli, Aldo Coen Porto, Vittorio Coen Porto, Giuseppe Dalla Torre, Adriano Diena, Adolfo Errera, Luciano Fano, Marco Fano, Silvia Finzi, Renzo Franco, Giuseppe Grego, Amedeo Guetta, Raffaello Levi, Guido Levis, Cesare Magrini, Ludovico Minerbi, Alberto Musatti, Carlo Ottolenghi, Roberto Oreffice, Max Ravà, Cesare Gino Sacerdoti, Gustavo Sarfatti, Alberto Segre, Gino Segre, Mario Sonino, Ruggero Sonino, Angelo Sullam, Gino Sullam, Renzo Sullam, Marco Ettore Vitta.

ytali ringrazia Lisa Finzi, autrice del servizio fotografico che illustra l’articolo.

Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!