La venuta di un presidente turco in Italia rappresenta sempre un evento politico di rilievo. Innanzitutto per i temi che tradizionalmente vengono trattati negli incontri: in primis il rapporto economico bilaterale, aspetto storicamente rilevante e sempre attuale, ma anche per la gamma dei temi di politica estera tradizionalmente oggetto di colloqui, divenuta nel tempo sempre più ampia per il ruolo geopolitico che la Turchia è venuta assumendo negli ultimi quindici anni.
Oggi invece, a sorpresa, il significato politico più rilevante della venuta in Italia del presidente Erdoğan risiede nell’incontro avuto con papa Bergoglio in Vaticano.
Quanto avvenuto dopo, i colloqui con le autorità italiane, presidente della repubblica e presidente del consiglio, appaiono in questo quadro relativamente marginali, anche perché il nostro governo è un governo dimissionario e i turchi pongono molta attenzione a questi aspetti.
Perché Erdoğan ha voluto rendere visita al papa per parlare di Gerusalemme e di Medio Oriente interrompendo un’assenza di visite turche di livello alla Santa Sede durata più di mezzo secolo?
La sorpresa deriva anche dal fatto che i rapporti Turchia e Santa Sede non sono particolarmente positivi, tutt’altro: anni di ripetute incomprensioni hanno causato una prolungata fase di estrema freddezza diplomatica.
La visita di papa Bergoglio in Turchia nel novembre del 2014 avvenne in un clima di gelo e di quasi ostentata distanza e nel 2015 le parole del papa sulla questione armena, definita il primo genocidio del ventesimo secolo, innescarono una reazione durissima da parte turca che congelò di fatto i rapporti diplomatici tra Ankara e la Santa Sede.
La mossa di Erdoğan, l’incontro con il papa, sorprendente ma in linea con il carattere del personaggio, si inserisce in una precisa linea politica avviata anni fa: quella di cercare di porsi nei confronti del mondo islamico quale il campione, intransigente e indiscusso, della difesa dei diritti del popolo palestinese.
È un ruolo che gli è utile per rafforzare il consenso interno, ogni uscita filopalestinese accresce il suo ritorno di immagine e di autorevolezza nel paese.
Ma non solo, posizioni radicali e forti sul tema palestinese accrescono la sua autorevolezza in tutto il vasto mondo islamico, sempre estremamente sensibile al tema.
E, infine, affrontare di petto il delicatissimo tema di Gerusalemme, che riveste un altissimo valore simbolico, potrebbe essere una chiave per cercare di giocare un ruolo di protagonista in tutta l’aggrovigliata questione mediorientale e nell’intera regione.
Questa linea politica del presidente turco viene da lontano. Al Forum di Davos nel 2009 egli sorprese tutti con dichiarazioni durissime in favore del popolo palestinese e contro la politica del governo israeliano: al ritorno dalla Svizzera venne accolto come un eroe.
Successivamente nel 2010, la tragedia della flottiglia umanitaria che cercò di violare l’embargo marittimo di Gaza, causando nove morti, produsse l’interruzione dei rapporti con Israele e un crescendo di dichiarazioni radicali pro-palestinesi.
Pur nell’assenza di dichiarazioni pubbliche alla stampa, possiamo dire che è in corso una convergenza tra Turchia e Vaticano sul tema mediorientale o perlomeno sullo status di Gerusalemme?
Direi di no. Su Gerusalemme le posizioni di fondo di Erdogan e papa Bergoglio restano molto distanti.
Il primo vede nella zona est della Città Santa l’indiscutibile capitale dello stato palestinese, mentre il secondo, coerentemente, con quanto dichiarò Pio XII nel lontano 1949, pensa a qualcosa di molto diverso, un città sotto tutela internazionale che garantisca l’accesso ai fedeli di tutte le religioni.
Erdoğan e Bergoglio sono forse d’accordo su di un unico punto: difronte al recente passo compiuto da Trump, valutato da entrambi come destabilizzante, è preferibile il mantenimento dello status quo della Città Santa, in attesa di una ripresa di una auspicabile ma oggi poco prevedibile ripresa del negoziato mediorientale.
Ma vi è sullo sfondo un “macigno” che getta la sua ombra sui rapporti con l’Europa, l’Occidente e la Santa Sede.
Non solo l’intervento armato di Afrin contro i curdi, ma l’intera situazione interna turca caratterizzata da un crescendo di repressione, intolleranza e aggressività contro ogni dissenso, in un contesto di progressiva islamizzazione della società e delle istituzioni.
Su questi aspetti la voce dell’Europa e dei paesi europei è troppo debole e incerta, condizionata dagli interessi economici, energetici e da un infausto accordo migratorio.
Condizionamenti che la Santa Sede non ha e che potrebbero consentirle di svolgere un ruolo di richiamo a comuni valori di civiltà e democrazia non solo sul piano morale ma anche su quello politico.

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