Bibi, da eroe a mentitore seriale

La scandalo che ha coinvolto Netanyahu può cambiare il corso degli eventi in Israele e non solo, come fece l’assassinio di Rabin o l’ictus che mise fuori gioco Sharon.
UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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Alla Conferenza di Monaco ha dato vita a uno show mediatico che ha attirato su di lui i riflettori internazionali: ha mostrato un frammento del drone iraniano abbattuto da caccia con la stella di David nello spazio aereo d’Israele.

Ha scomodato la storia, e che storia, accostando il regime teocratico-militare iraniano a quello nazista, e l’accordo del 2015 con Teheran sul nucleare alla conferenza di Monaco del 1937 nella quale le potenze democratiche europee si consegnarono al Terzo Reich.

Ha giocato con sapienza e cinismo, l’unica carta che gli è restata in mano: quella della sicurezza. Sicurezza contro corruzione. Lotterà fino alla fine. Griderà al complotto, chiamerà a raccolta i suoi fedelissimi, proverà anche a giocare la carta della guerra (Siria, Iran, Hezbollah), blandirà i suoi alleati di estrema destra.

Farà tutto questo e di più, Benjamin Netanyahu. Ma stavolta rischia grosso, come non è mai accaduto nella sua pur movimentata carriera politica. Riuscirà forse ad allungare i tempi della sua uscita di scena ma dopo l’incriminazione chiesta dalla polizia, per lui sembra davvero iniziato il conto alla rovescia.

C’è chi discute sul fatto che Israele sia l’unica democrazia in Medio Oriente, chiamando in causa l’occupazione dei territori palestinesi, le forzature unilaterali sugli insediamenti, l’eccesso dimostrato nell’esercitare il diritto alla difesa.

Ma se una democrazia si misura anche dall’autonomia della sua magistratura e dal coraggio della sua stampa, non vi è ombra di dubbio che Israele non è solo l’unica democrazia in Medio Oriente ma in questi due ambiti può dare molti punti anche a diversi paesi europei, Italia compresa.

Avichai Mendelblit

Gli analisti politici israeliani ritengono che il premier cercherà di guadagnare tempo sperando che il procuratore generale Avichai Mendelblit non dia seguito alle dure raccomandazioni della polizia e lo lasci sul suo scranno.

Netanyahu è un abile uomo di potere. In passato ha saputo districarsi in scandali che avevano riguardato uomini a lui vicini, ma stavolta la sua appare una “mission impossible”.

Perché le prove documentali, e le testimonianze, raccolte dalla polizia sono tali e tante da far emergere la figura di un primo ministro corrotto e mentitore, pronto a tutto pur di insabbiare le indagini, fino al punto di promettere al capo della polizia la promozione a numero uno dello Shin Bet, il potente servizio di sicurezza interno dello stato ebraico.

Stavolta, lo tsunami giudiziario è possente e lo investe direttamente.

Spesso, in Europa, si ha idea che in Israele le elezioni si vincano o si perdano sul tema della pace, o della guerra, della sicurezza e del sì o no agli insediamenti. Idea se non sbagliata, di certo parziale e come tale fuorviante.

Molto hanno pesato in passato le questioni sociali e oggi, come testimoniano recenti sondaggi, il tema più sentito dall’opinione pubblica, trasversalmente ai vari orientamenti politici, è quello della corruzione.

È questo, molto più che la pace, il dialogo con i palestinesi, il tema che ha mobilitato dal basso la società israeliano, che ha portato decine di migliaia di israeliani a manifestare in tutto il paese per chiedere che la polizia e la magistratura andassero avanti nella ricerca della verità senza fare sconti ad alcuno, a cominciare dal primo ministro.

In Israele, la magistratura non scherza. È molto lungo l’elenco di ex primi ministri, ex capi di stato, ministri in carica, che hanno visto la loro carriera politica spezzata, alcuni per vicende pubbliche che in Italia, sbagliando, farebbero sorridere. In Israele, no.

E lo stesso discorso vale per i media. Netanyahu ha cercato di intervenire a gamba tesa contro canali televisivi, pubblici, che avevano dato risalto all’inchiesta in corso, scavando a loro volta, sul modello del giornalismo anglosassone. Inevitabilmente, le vicende giudiziarie s’intrecceranno con quelle politiche.

Netanyahu alzerà ancor più la voce per gridare al complotto politico e chiederà il sostegno pieno ai partiti alleati di governo, rammentando loro che in caso di elezioni anticipate sarebbe alquanto improbabile un nuovo esecutivo più a destra di quello attuale.

E al tempo stesso dovrà serrare le fila all’interno del proprio partito, il Likud. Certo, “Bibi” chiamerà uno per uno i membri del gruppo parlamentare ricordando a ognuno, o quasi, di loro che se hanno un posto alla Knesset è grazie a lui.

Ma nel Likud è cresciuta una fronda critica nei confronti di Netanyahu, sia per le scelte compiute, ad esempio in materia di insediamenti, ritenute troppo estreme, sia per una concezione sempre più privatistica del Likud, cosa che, si lascia andare un vecchio dirigente del partito, “neanche Menachem Begin o Ariel Sharon si erano mai permessi”.

La componente moderata del Likud ha come suo punto di riferimento nell’attuale capo dello stato, Reuven “Rubi” Rivlin.

Figura storica del partito, con un trascorso da ministro e presidente della Knesset, Rivlin ha più volte criticato posizioni e uscite di Netanyahu, l’ultima volta due giorni fa, quando ha apertamente espresso la sua contrarietà all’ipotesi avanzata da Netanyahu di una annessione della West Bank (ipotesi che ha sollevato anche l’irritazione dell’amico americano di Netanyahu, il presidente Donald Trump che, spazientito, ha ammesso a mezza bocca che “forse il governo israeliano non ambisce così tanto alla pace”).

Reuven Rivlin

Rivlin non è tipo da alzare la voce ma quanto a difendere le proprie tesi è un osso davvero duro. Per tutti. Anche per “Bibi”.

Convivere ai vertici dello stato con un premier con cui non è nato mai un feeling è possibile, nell’ordine delle cose, ma con un primo ministro accusato di essere un corrotto e un mentitore, questo è qualcosa di più difficile da concedere.

Fin qui, abbiamo tralasciato la sinistra. Semplicemente perché non sarà un acciaccato partito laburista a determinare il futuro prossimo, semmai l’ambizioso leader centrista Yair Lapid.

La partita, quella vera, si giocherà nel campo delle destre. Tra la componente più moderata, “revliniana”, che non ha chiuso le porte a una soluzione “a due stati” e non si è lasciata cullare dal sogno della “grande Israele”, e quella più oltranzista, ideologica, moderna nella comunicazione quanto antica nei principi che incarna.

È la destra che ha nell’attuale ministro dell’educazione, il “tecno-colono” Naftali Bennet il suo leader. Quarantasei anni, grande affabulatore, determinato fino alla spietatezza, ambizioso senza nasconderlo, rappresenta oggi il più grande competitore di Benjamin Netanyahu.

L’uomo del “più uno”. Sugli insediamenti, sull’annessione della “Giudea e Samaria” (i nomi biblici della West Bank), sulle punizioni esemplari, fino al ripristino della pena di morte, per i terroristi palestinesi.

Fino a oggi, il leader di Habayit Hayehudi (“La casa ebraica”), ha esercitato, nella coalizione di governo, il ruolo di alleato-rivale di Netanyahu, radicalizzandone alcune scelte e proponendo il pugno duro laddove avvisava segni di “cedimento” nel primo ministro.

Ma un premier sotto botta giudiziaria, impegnato a difendersi da accuse pesanti, è un’occasione troppo ghiotta, forse irripetibile, per Bennett, per ergersi a leader dell’insieme delle forze di destra, il successore di “Bibi”.

Nel far questo, Bennett dovrà cercare una sponda importante in un altro protagonista della politica israeliana: Avigdor Lieberman, altro super falco, attuale ministro della difesa e capo incontrastato del partito russofono Yisrael Beiteinu.

Lieberman ha un rapporto di odio-amore con Netanyahu, e trascorsi burrascosi con la giustizia. Quanto a durezza, Lieberman non ha nulla da invidiare a Bennett: per lui i deputati arabi israeliani sono “conniventi con i terroristi palestinesi”, Gaza un “covo di jihadisti”, l’Iran “il Paese che sta preparando la Shoah nucleare”.

Resta il passato giudiziario: il 2 agosto 2009, la polizia israeliana aveva raccomandato al procuratore generale di stato, Menahem Mazuz, d’incriminare Lieberman per “riciclaggio di denaro”, “corruzione”, “frode”, “subornazione di testimoni” e “ostacolo della giustizia” nel quadro d’una inchiesta, aperta dieci anni prima, sul finanziamento di alcune campagne elettorali.

Naftali Bennet

La polizia si basava su tremilacinquecento documenti acquisiti nel corso di una perquisizione effettuata nello studio dell’avvocato di Lieberman, Yoav Many, e d’indagini condotte a Cipro o in società di comodo che s’incaricarono di assicurare che quei finanziamenti fossero acquisiti. Il 13 aprile 2011 l’azione legale viene avviata dalla procura generale di stato.

Il 15 dicembre 2012 Avigdor Lieberman si dimette dal governo. La corte di giustizia, composta da tre giudici, lo ha riconosciuto nel 2013 innocente, anche se la motivazione della sentenza parla di azioni improprie dell’imputato per non aver informato il ministero degli esteri dei suoi trascorsi con Ze’ev Ben Aryeh (già ambasciatore in Bielorussia che aveva favorito Lieberman in modo giudicato biasimevole dalla giustizia israeliana che lo ha infine condannato a quattro mesi di servizi sociali, per ostacolo alla giustizia) ma di non essersi reso conto della serietà delle circostanze, stabilendo che la nomina di Ben Aryeh non era stata una promozione per ringraziarlo in modo del tutto improprio e biasimevole.

Resta il fatto che Lieberman, una volta inquisito, rassegnò le sue dimissioni dal governo. Un precedente imbarazzante per Benjamin Netanyahu.

Rimane una considerazione da fare. Che guarda alla storia per una riflessione che chiama in causa la politica, nei suoi limiti più che altro. Se si guarda alla storia degli ultimi decenni d’Israele, aggiornandola alla vicenda legale che ha investito Netanyahu, emerge che i fatti che l’hanno davvero cambiata, la storia d’Israele e probabilmente del Medio Oriente, hanno impronte extrapolitiche.

Drammatiche, come l’assassinio di Yitzhak Rabin, il generale che aveva aperto un percorso di pace col nemico ritrovato alleato, Yasser Arafat, da parte di un giovane zelota dell’ultradestra israeliana, Yigal Amir, o come l’ictus che mise fuorigioco Ariel Sharon, l’uomo della destra, l’idolo dei coloni, che aveva comandato all’esercito di sgomberare gli insediamenti ebraici nella Striscia di Gaza, finendo, lui che ne era stato tra i fondatori, per spaccare il Likud e fondare un nuovo partito, Kadima.

Ora, può essere la magistratura a cambiare il corso degli eventi nello stato ebraico, portando il premier più longevo, nel ruolo, d’Israele, dall’altare della storia alla polvere di un’aula di tribunale.

Da eroe a mentitore seriale.

Per “Bibi” è un incubo che può divenire realtà.

Bibi, da eroe a mentitore seriale ultima modifica: 2018-02-19T16:21:42+01:00 da UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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