La castrazione chimica. Solo a dirlo fa tremare le vene ai polsi. Eppure di questa orribile punizione, sì, si torna a parlare alla Camera: il deputato della Lega Nicola Molteni ha ripresentato, pari pari, una proposta già presentata (ma affogata ancor prima di essere discussa) nella precedente legislatura. Con lui, a sottoscriverla, altri sedici deputati leghisti tra cui quel Massimiliano Fedriga che nel quinquennio trascorso era il capogruppo e che, se il mercato delle poltrone andasse bene, dovrebbe passare dalla Camera, in cui è stato rieletto, al Friuli-Venezia Giulia come presidente della Regione. Cinquestelle e berlusconiani accetteranno mai di sostenere questa aberrante soluzione nei confronti di responsabili di reati di violenza sessuale? Lo si vedrà, ammesso che la proposta vada avanti, come pretende questo Molteni che ha mostrato tanta fretta di ripresentarla, forse proprio come aperta sfida agli alleati.
Intanto vediamo di che cosa si tratta esattamente.
Molteni & c. evitano accuratamente di mettere nero su bianco la parola castrazione: sarebbe una enormità, persino sul piano lessicale, che provocherebbe un rifiuto istintivo anche solo di avvicinarsi ad una questione così grave e provocatoria. Piuttosto essi, ipocritamente, propongono – cito testualmente il titolo della proposta depositata e che porta il numero 272 – la “Introduzione del trattamento farmacologico di blocco androgenico totale a carico dei condannati per delitti di violenza sessuale”. Come si vede, se non è zuppa è pan bagnato. E aggiungono, nella telegrafica presentazione dell’aberrante idea, che si tratta
oltre che di assicurare un’adeguata pena per chi commette tali efferati delitti, anche di eliminare la possibilità che coloro che se ne sono macchinati possano ripeterli. [Insomma] una misura nel contempo deterrente, preventiva e risolutiva.
Testuale.
Per intenderci, non si tratta di evirazione (come si usava una volta, ma per la chiesa cattolica sino ai primi del secolo scorso, come ricorderemo tra poco) ma di praticare un’iniezione di blocco totale che però – attenzione! – per essere efficace va ripetuta frequentemente sottoponendo la vittima a una via crucis non meno barbara, almeno sul piano psicologico, dell’asportazione delle gonadi.
La decisione della castrazione – “chimica” per carità – deve essere decisa da un giudice ma al magistrato s’impone “comunque l’adozione del trattamento nei casi di recidiva e qualora tali reati sino stati perpetrati ai danni di minori”. Insomma in questi ultimi casi il giudice ha le mani legate dalla legge (se mai la proposta diventerà legge) e non ha via di scampo: deve ordinare il “trattamento”. Che, comunque, può anche esser richiesto, “volontariamente”, dal condannato! Bontà loro, il deputato Molteni e i suoi compari prevedono che, in certi casi, la castrazione sia inserita “in un programma di recupero psicoterapeutico.
Un’osservazione non proprio minimale riguarda la specie giuridica del reato di violenza sessuale. È vero che la legge recentemente varata dal Parlamento in materia di violenza sessuale prevede una scala di “reati” (insomma c’è differenza sostanziale, anche di pena, tra una pacca nel sedere e la sodomizzazione di un fanciullo) ma spetta sempre al giudice valutare il carattere della violenza effettuata e subita. Si immaginino i sottili problemi che potrebbero sorgere in un’aula di giustizia.
Ma c’è di più e di peggio. La relazione cui si è già accennato sostiene che
il trattamento farmacologico è previsto anche in ordinamenti di altri Paesi, quali ad esempio Stati Uniti, Germania, Danimarca, Svezia, Francia e Spagna.
Ma a precise condizioni che, nel disegno di legge leghista, non esistono. Svezia e Germania, per esempio, prevedono limitazioni in base all’età minima: niente “trattamento” se il condannato ha meno di vent’anni (Svezia) o venticinque (Germania); in Danimarca e Germania solo se si può dimostrare che il violentatore potrebbe esser costretto a commettere altri atti analoghi a causa di istinti “incontrollabili”; la Svezia aggiunge un’altra condizione: la castrazione chimica
è strettamente volontaria, con l’obbligo che il soggetto sia pienamente informato di tutti i possibili effetti collaterali.
Simili condizioni restrittive esistono anche nelle legislazioni penali di Francia e Spagna: uso limitato, opzionale, subordinato al consenso del condannato. Ma di limitazioni analoghe all’obbligo della castrazione non c’è traccia nella proposta della Lega che dunque taglia corto: ovunque e comunque “trattamento” sia.
Si tornerebbe dunque, fatte le dovute proporzioni e le dovute differenze “tecniche”, al regime imposto dalla chiesa cattolica nel 1700 e durato non qualche anno ma quasi duecento anni. Dall’inizio del secolo XVIII, dunque, e con il diffondersi dei cori polifonici, c’era una sempre maggiore richiesta di quelle che venivano definite (e chiamiamo ancora) le voci bianche. Bene, anzi male: dal momento che una bolla pontificia vietava l’inserimento delle donne nei cori in chiesa (ma, nelle regioni italiane sotto il potere del “papa re”, anche nei teatri lirici e ovunque si tenessero pubbliche recite musicali), si preferiva castrare – non ancora chimicamente ma asportando chirurgicamente i testicoli – i fanciulli di otto, dieci anni per impedir loro la cosiddetta “muta vocale” e fare quindi in modo che mantenessero anche da adulti la capacità di cantare con voce femminile.
Gli storici hanno calcolato che ogni anno circa quattromila ragazzi europei venissero castrati, ovviamente soprattutto in Italia ma anche in altri paesi a maggioranza cattolica come Francia e Spagna che facevano tesoro degli ordini papali. Il più celebre tra i cantanti castrati è stato Carlo Maria Michelangelo Nicola Broschi, in arte Farinelli, dalla cui drammatica eppur per taluni esaltante storia di “voce regina” il regista belga Gérard Corbiau nel 1995 un film di qualche successo. Alessandro Moreschi, invece, fu l’ultimo evirato nella storia della musica: solista nell’ancor oggi celebre coro che si esibiva, come ora, nella Cappella Sistina, in Vaticano. Moreschi cantò anche al funerale di Umberto I di Savoia, fulminato nell’estate del ‘900 dall’anarchico Gaetano Bresci, “suicida” un anno dopo in una cella a Porto Azzurro. E fu pensionato nel 1913, undici anni dopo che la chiesa cattolica si era finalmente rimangiata la bolla papale del ‘700.
Da ultimo non si può dimenticare la tragedia della castrazione chimica del famoso matematico inglese Alan Turing, il padre dell’informatica teorica. Turing era stato condannato nel 1952 per omosessualità. Poco dopo, come narra anche un film sul suo terribile caso, morì suicida. In Gran Bretagna, dopo quella vicenda, la pena aggiuntiva della castrazione non fu mai più applicata, anche dopo la (tardiva) abolizione del reato di omosessualità.

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