Meglio i Pasdaran che gli startupper

La decisione degli Stati Uniti di uscire unilateralmente dall’accordo sul nucleare non ha nulla di occasionale. C’è una logica economica, una visione, nell’idea che sia meglio scegliere come nemico l’ayatollah Ali Khamenei che il presidente riformatore Hassan Rouhani.
UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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Sullo scacchiere mondiale vince chi sceglie. Senza oscillazioni, ma con pragmatico cinismo. Un assunto che vale soprattutto in Medio Oriente. Vladimir Putin vince perché ha scelto di sostenere sin dal primo momento il rais di Damasco, Bashar al-Assad, a fronte di un Occidente balbettante, disegnatore di “red line” puntualmente attraversate, senza contraccolpi significativi, da Assad e dai suoi sponsor esterni, la Russia, l’Iran, Hezbollah. Lo schema “decisionista” si ripete ora sull’Iran.

La decisione degli Stati Uniti di uscire unilateralmente dall’accordo del 2015 con Teheran sul nucleare non ha nulla di tattico, di occasionale, ma risponde a una linea che può essere contestata, certo, ma non negata o sminuita. Donald Trump e il suo alleato principe in Medio Oriente, il premier israeliano Benjamin Netanyahu, hanno marcato il punto perché hanno deciso con chi stare nella partita interna, apertasi da lungo tempo, al regime di Teheran.

Disdettare l’accordo significa provare a spazzar via il presidente riformatore, ancorché chierico, Hassan Rouhani, che su quell’accordo aveva puntato tutte le sue carte, non solo per veder riconosciuto dall’America e dall’Europa, oltre che dalla Russia, all’Iran il ruolo di soggetto stabilizzatore nel Grande Medio Oriente, ma soprattutto per invogliare quegli investimenti occidentali di vitale importanza per rilanciare l’economia e realizzare quelle riforme in campo sociale su cui i riformatori di Teheran facevano affidamento per consolidare il proprio potere rispetto all’ala conservatrice del regime.

L’ala su cui Trump e Netanyahu hanno puntato è quella che ha a suo capo la Guida suprema della Repubblica islamica, l’ayatollah Ali Khamenei. Ed è su questo che Netanyahu è uscito vincente, rispetto agli iniziali tentennamenti presenti all’interno dell’amministrazione Trump. Per non scendere a compromessi, c’è bisogno del Nemico assoluto. Vale per l’Iran come per la Palestina. La prima vittima dello strappo trumpiano non è, come qualche stratega nostrano da salotto mediatico ha provato ad argomentare, l’Europa. La prima vittima si chiama Hassan Rouhani. Lo schiaffone inferto all’Europa da Trump (e Netanyahu) si può semmai derubricare a effetto collaterale.

La Guida suprema della Repubblica islamica, l’ayatollah Ali Khamenei e il presidente Hassan Rouhani.

L’uscita dall’accordo del 2015 non è l’anticamera di un’entrata a piedi uniti degli Usa nel pantano mediorientale. È vero il contrario. Sposando totalmente le tesi dell’“amico Bibi”, The Donald ha delegato a Israele la rappresentanza degli interessi Usa nella regione, con un’unica raccomandazione: far coincidere “Israel first” con “America first”. Di Netanyahu, l’inquilino della Casa Bianca ha sposato anzitutto la convinzione che la stabilità del Medio Oriente passa per un cambio di regime a Teheran.

Un cambio totale, radicale. Perché per Netanyahu l’Iran è ciò che per Ronald Reagan è stata, ai tempi degli euromissili, l’Urss, anche nella versione aperta di Michail Gorbaciov: un sistema irriformabile. E chi provava a dimostrare il contrario, non era e non è considerato un interlocutore affidabile bensì il più pericolo tra gli avversari. Valeva ieri per Gorbaciov, vale oggi per Rouhani.

Il nuovo presidente Hassan Rouhani è un fedele servitore del regime. Il suo predecessore, Ahmadinejad, era un lupo vestito da lupo, lui è un lupo vestito da agnello.

Così si espresse Netanyahu nel suo intervento all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, per poi aggiungere:

Mi vorrei fidare di lui, ma non posso.

Era il settembre del 2013.

Per forzare l’Iran a rinunciare al suo programma nucleare militare in maniera pacifica è fondamentale che la comunità internazionale non allenti la pressione su Teheran. Altrimenti Israele è pronto a difendersi da solo, se sarà costretto a farlo.

E ancora

Rouhani vuole certamente liberare il suo Paese dalle sanzioni internazionali ma non vuole in cambio rinunciare al programma nucleare militare iraniano: da quando è stato eletto, i “vasti” sforzi di Teheran per avere armi nucleari sono continuati (…) In Israele, la nostra speranza per il futuro è sfidata da un Iran con armi nucleari che vuole la nostra distruzione.

Cinque anni dopo, Netanyahu ha vinto. Ha vinto nella sua idea di guerra diretta e globale con l’Iran, dove quel globale sta per una guerra che va oltre il campo di battaglia e oltre la questione nucleare. Perché, per Israele, l’Iran non è solo una minaccia alla propria sicurezza, una potenza espansionista che vuole sancire l’affermarsi della mezzaluna sciita sulla direttrice Baghdad-Damasco-Beirut. L’Iran, per Israele, è un insidioso competitor anche e per certi versi, come ben documentato da ytali, in campi strategici dell’economia, a cominciare dall’innovazione tecnologica e scientifica, e in quello delle startup.

Un passo indietro nel tempo. Novembre 2017. Uno spazio dedicato alla diffusione dei libri e al sostegno (anche economico) agli autori; una piattaforma online di apprendimento della lingua persiana; un portale sul modello di Uber che assegna carichi a camion situati in aree e città diverse; e ancora, un marketplace per prodotti agricoli e alimentari – fra cui lo zafferano – realizzati secondo un modello che sia rispettoso dell’acqua, evitando sprechi o consumo eccessivo; e un’analoga realtà (virtuale) per i camionisti, le compagnie di trasporto e di carico. Sono queste alcune fra le 10 startup – scelte fra diverse centinaia di proposte di aspiranti innovatori – a essersi aggiudicate una menzione nel contesto della iniziativa Silk Road Startup.

Con l’iniziativa Silk Road Startup un team di imprenditori iraniani e internazionali, a bordo di un bus, ha toccato in dieci giorni sette diverse città, per un totale di oltre quattromila chilometri.

Un concorso lanciato nella seconda metà del 2017 in Iran (e il primo in assoluto nella storia del Paese), per valorizzare idee e progetti volti a migliorare la vita delle persone e favorire un nuovo modello di sviluppo. I migliori 10 progetti – recitano le cronache – verranno presentati nel contesto di una due giorni di conferenza che si è poi tenuta sull’isola di Kish, meglio conosciuta come “la perla del Golfo Persico”, nel febbraio dell’anno in corso. Di questi sono stati scelti i tre vincitori assoluti.

Un team di imprenditori iraniani e internazionali, a bordo di un bus, ha toccato in dieci giorni sette diverse città fra cui la capitale Teheran, Shiraz, Isfahan e Tabriz, per un totale di oltre quattromila chilometri. Il cammino attraverso il Paese della Silk Road Startup è iniziato lo scorso 22 ottobre e si è concluso il 31 del mese, coinvolgendo 150 partecipanti – il venti per cento dei quali donne – per un totale di cento startup. I progetti selezionati hanno ricevuto un premio in denaro per sviluppare l’idea, coperture sui principali media e l’incontro con potenziali investitori. L’evento è stato sostenuto con forza dal ministero iraniano per la Scienza e la tecnologia, dal Centro per l’innovazione e l’accelerazione, dalla Camera di commercio di Teheran e da diversi centri di ricerca sparsi per il Paese.

Del resto, spiegano gli esperti, una nazione con ottanta milioni di persone, di cui il sessantasei per cento ha meno di trentacinque anni, un numero di ingegneri che cresce di 230mila unità ogni anno e una forte crescita della telefonia mobile, rappresenta un mercato strategico da esplorare. Kiran Maverick, fondatore di I Am Tomorrow e The August Fest e uno dei membri della giuria internazionale di Silk Road Startup, si è detto “favorevolmente stupito” dalla “qualità” delle startup in Iran, una nazione pronta a fornire il suo contributo alle “innovazioni” nel settore.

Ho potuto verificare che in ogni città dell’Iran – ha aggiunto l’esperto – vi è un ecosistema di startup personale e rigoglioso, e gli imprenditori mirano a risolvere i problemi a livello locale.

Per favorire la crescita di ciascun ecosistema delle startup, conclude Maverick,

la cosa più importante è risolvere i problemi nel modo giusto e ho osservato che gli imprenditori iraniani stanno andando in questa direzione.

Le startup c’entrano, e molto, nella guerra diretta scatenata da Israele e benedetta da Trump. Perché la definizione dei nuovi equilibri di potenza su scala regionale passano da qui, dalla sfida dell’innovazione, e non soltanto dal confronto militare. La rincorsa che Teheran aveva preso dopo l’accordo sullo sviluppo nucleare con il gruppo dei 5+1 (Usa, Cina, Russia, Francia, Gran Bretagna e Germania) avrebbe potuto portare il Paese nel salotto buono dell’economia internazionale.

“L’Iran è il mercato più grande al mondo che aspetta di essere sfruttato”, sostiene Nasser Ghanemzadeh, giovane direttore dell’acceleratore Finnova, dove decine di startupper lavorano tutto il giorno per lanciare idee innovative. Quella rincorsa andava frenata, con ogni mezzo, a ogni costo. Perché la “via delle startup” poteva portare se non a un cambio di regime, a una sua profonda trasformazione interna nella direzione della modernizzazione e dell’apertura, concetti che sono stati alla base del vocabolario politico usato da Rouhani per far breccia nell’elettorato giovanile, nella borghesia colta, tra i colletti bianchi. Spezzare questa corsa è rimettere indietro le lancette della storia, ai giorni, ripetutisi subito dopo l’annuncio di Trump, nei quali nel parlamento iraniano si dava fuoco alle bandiere a stelle e strisce al grido “Morte all’America”.

Dopo l’annuncio di Trump del ritiro unilaterale Usa dall’accordo sul nucleare, questa è stata la risposta nel parlamento di Teheran.

D’altro canto, la guerra diretta rende ancor più dirimente il tema delle alleanze. Nel “risiko” mediorientale, lo Stato ebraico sa di poter contare sul sostegno, non solo politico ma di intelligence, del Regno Saud. Il passo indietro di Donald Trump sull’accordo sul nucleare riapre diversi scenari. Uno fra tutti, il possibile riavvio del programma atomico iraniano che impensierisce l’Arabia Saudita. Adel al-Jubayr, ministro degli esteri di Riyadh, durante un’intervista alla Cnn ha messo le mani avanti e mostrato i muscoli: “Siamo pronti a costruire armi nucleari”.

Secondo Al-Jubeir l’accordo sul programma nucleare iraniano, dal quale Trump ha annunciato il ritiro, è “difettoso” perché “non si occupa del programma di missili balistici iraniani, né si occupa del sostegno dell’Iran al terrorismo”. Dunque, spiega il ministro: “Faremo tutto il necessario per proteggere il nostro popolo. Abbiamo chiarito che se l’Iran acquisirà una capacità nucleare faremo il possibile per ottenere lo stesso risultato”, ha dichiarato al-Jubeir. Alla domanda se il regno lavorerà per acquisire una propria capacità nucleare, il capo della diplomazia saudita ha risposto: “Questo è quello che intendiamo fare”.

E così il “risiko mediorientale” diventa atomico. Un rischio dalle conseguenze incalcolabili, e tuttavia un rischio cercato, praticato sull’asse Usa-Israele-Arabia Saudita. C’è una logica, una visione, nell’idea che siano meglio i Pasdaran che gli startupper. C’è l’idea, huntingtoniana, che l’Islam non è solo incompatibile con la democrazia ma anche con la modernizzazione. E chiunque provi a dimostrare il contrario, scommettendo sulla possibilità di coniugare tradizione e modernità, non va trattato come un povero illuso bensì come un mestatore che scompagina paradigmi consolidati da “guerra di civiltà”.

In questo, l’Olocausto nucleare evocato dalla destra israeliana per legittimare moralmente, prim’ancora che politicamente e militarmente, la guerra diretta con l’Iran in Siria, serve solo per conquistare consensi interni e arruolare la diaspora ebraica, in primis quelle americana ed europea. Difendere quell’accordo è schierarsi. Con l’Iran degli startupper, contro quello dei Pasdaran.

Meglio i Pasdaran che gli startupper ultima modifica: 2018-05-12T20:35:54+02:00 da UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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