Ora che anche Abu Mazen ha fatto, saggiamente, marcia indietro sulle improvvide esternazioni sugli ebrei, ora che abbiamo assistito alla levata di scudi della destra oltranzista israeliana, quella che a ogni critica sulle politiche portate avanti contro i palestinesi risponde gridando all’antisemitismo. Ora che tutti hanno sparato ad alzo zero, è tempo di ragionare. E di porre al centro di un confronto, pacato nei toni, rispettoso delle motivazioni altrui ma forte nei contenuti, la “Questione israeliana”. Che non può essere analizzata solo come riflesso della “Questione palestinese”.
Su ytali questa problematica l’abbiamo posta da tempo. E da veri amici d’Israele, tali sono quelli che non avallano ogni scelta compiuta a Tel Aviv, abbiamo guardato con inquietudine all’affermarsi di una etnocrazia, vale a dire di una deriva etnico-identitaria del sistema democratico, che pone al centro l’essere ebreo all’essere israeliano; tralasciando, peraltro, il fatto che cittadini di Israele sono anche un milione e duecentomila arabi israeliani (oltre il venti per cento della popolazione complessiva).
Questa deriva, è bene sottolinearlo subito, è molto più pericolosa delle esternazioni del presidente palestinese, perché mina alle fondamenta uno dei pilastri del pensiero sionista: quello di fare d’Israele non solo il focolaio nazionale del popolo ebraico ma un modello sociale e politico inclusivo. In altri tempi, si sarebbe detto “socialista”.
L’etnocrazia è, in primo luogo, la sanzione della sconfitta del sionismo e il trionfo del revisionismo di Zeev Jabotinsky, non a caso il punto di riferimento ideologico della destra nazionalista israeliana. È di questo che dovremmo discutere, è su questo snodo cruciale che vale la pena, se è il caso, dividerci.

Cartolina postale che ritrae Zeev Jabotinsky
La “Questione israeliana” ingloba la vicenda palestinese ma non si esaurisce con essa, né può avere come unica chiave di lettura quella della sicurezza minacciata. Certo, quando il gioco si fa duro, i falchi etnocratici tirano fuori il loro evergreen: siamo un Paese circondato da nemici, gli arabi possono permettersi di perdere mille battaglie ma resteranno sempre in piedi. Israele, no. Se perde una guerra, rischia di scomparire dalla faccia della terra.
Ma ridurre i processi che negli ultimi cinquant’anni hanno trasformato profondamente, radicalmente Israele, al solo dilemma pace/guerra, sminuisce la portata di una “questione” che rimarrà in vita, ne sono convinto, anche il giorno in cui la “questione palestinese” avrà trovato finalmente una soluzione politica.
Se oggi Israele ha il governo più a destra dei suoi settant’anni di vita non è perché ci sono l’Iran, Hamas, Hezbollah. O, quanto meno, non è solo perché la destra – discorso che a ben vedere non vale solo per Israele – vince se impone in cima all’agenda politica nazionale il tema della sicurezza e di come far fronte alle minacce, vere o presunte, che sono sempre, in questa narrazione, mortali.
Prima che nelle urne, la vittoria della destra etnocratica in Israele è avvenuta sul piano culturale, plasmando la psicologia di una nazione a propria immagine e somiglianza. La destra ha vinto perché ha fatto prevalere, nella coscienza collettiva, Eretz Israel, la Terra d’Israele, su Medinat Israel, lo Stato d’Israele. In questa visione la Sacra Terra, proprio perché è tale, non è materia negoziabile e chi osa farlo finisce per essere un traditore che merita la morte.
Questo, un traditore sacrilego, è stato Yitzhak Rabin per la destra israeliana che ha armato ideologicamente la mano del giovane zelota, Yigal Amir, che mise fine alla vita del premier-generale che aveva osato stringere la mano al “capo dei criminali palestinesi”, Yasser Arafat, riconoscendo nel nemico di una vita un interlocutore di pace.

La stretta di mano tra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat.
Israele ha ottenuto successi straordinari in svariati campi dell’agire umano. È all’avanguardia mondiale quanto a startup, ha insegnato al mondo come rendere feconda anche la terra desertica, ha portato a compimento importanti scoperte nel campo della scienza, della medicina e dell’innovazione scientifica. Ma la modernizzazione sociale ed economica non ha mai interagito con la grande questione identitaria. Su questo terreno, la tradizione ha vinto e non ha fatto prigionieri.
I palestinesi, in questo, sono un incidente di percorso con cui occorre fare i conti ma che mai hanno rappresentato un elemento di riflessione su se stesso, su Israele. Sono ormai più di trent’anni, dal dicembre 1987, quando a Gaza si accese la miccia che portò alla prima Intifada, la “rivolta delle pietre”, che seguo il conflitto israelo-palestinese. Questi trent’anni mi hanno lasciato una convinzione, che vorrei riassumere con una voluta forzatura: Israele non ha mai negoziato con i palestinesi, ma con le sue varie anime. Ciò è evidente quando si tocca il nervo scoperto dei confini.
Una narrazione semplificata, e semplicistica, porta alla conclusione che Israele non ha mai inteso realizzare le condizioni per arrivare a una pace globale con i palestinesi fondata sul principio “due popoli, due Stati”. Si è detto e scritto che i governanti israeliani, di ogni colore politico, erano, in maniera più o meno consapevoli, rimasti ancorati alla famosa affermazione della “Madre d’Israele”, Golda Meir, secondo cui “la Palestina è una terra senza popolo per un popolo senza terra”. Il popolo d’Israele.
In una conversazione non più recente ma straordinariamente attuale avuta con David Grossman, il grande scrittore israeliano mi disse di aver maturato la convinzione che per Israele, per il popolo israeliano, sarebbe stato meno doloroso cedere dei territori (occupati) piuttosto che sottoporre a una revisione critica la propria storia, a partire dalla nascita dello Stato d’Israele, perché questa revisione avrebbe dovuto portare al riconoscimento dell’altro da sé come popolo, con una propria identità nazionale, con la propria storia che interrogavano la storia d’Israele.
Così è. L’etnocrazia, a ben vedere, è l’altra faccia del regime di apartheid instaurato di fatto nei Territori palestinesi occupati. L’etnocrazia crea identità, definisce una visione del ruolo del popolo ebraico nel mondo, indica una Missione da compiere. L’etnocrazia inizia quando Israele riflette sulla vittoriosa Guerra dei Sei Giorni. Nel corso di questi anni penso, e mi onoro di questo, di aver maturato un rapporto di confidenza e amicizia con diversi protagonisti della vita politica e culturale d’Israele. Tra questi, c’è Yael Dayan, la figlia di uno dei miti d’Israele, l’eroe della Guerra del ’67, il generale con una benda all’occhio, Moshe Dayan.

Yitzhak Rabin entra nella città vecchia di Gerusalemme durante la Guerra dei Sei Giorni insieme a Moshe Dayan e Uzi Narkiss.
Nel corso di un nostro incontro a Tel Aviv, Yael, allora parlamentare laburista, mi confidò i tormenti del padre subito dopo aver conquistato Gerusalemme e aver fatto sventolare la bandiera con la stella di David sul Muro del Pianto. Il generale Dayan, allora ministro della difesa con Yitzhak Rabin, capo di stato maggiore di Tsahal, avrebbe voluto ripiegare dai territori conquistati in ragione dell’interpretazione che si stava affermando su quella vittoria.
La vittoria, secondo i sostenitori del revisionismo sionista di Jabotinsky, non era dovuta alle capacità e al coraggio dei soldati e degli ufficiali di Tsahal: costoro erano solo gli strumenti di un disegno messianico che Dio aveva voluto per il popolo eletto. E un popolo eletto non poteva, non doveva “contaminarsi”. Ecco allora farsi avanti una verità spiazzante: oggi in Terrasanta, due “Stati” esistono già. C’è lo “Stato ufficiale”, quello d’Israele, e lo “Stato di fatto” consolidatosi in questi ultimi cinquant’anni: lo “Stato dei coloni” in Giudea e Samaria (i nomi biblici della West Bank).
Lo “Stato di fatto” ha le sue leggi, non scritte, che però scandiscono la quotidianità di oltre 400mila cittadini-coloni. Lo “Stato di Giudea e Samaria” è armato e si difende, e spesso si fa giustizia da sé contro i “terroristi palestinesi” che, in questa visione manichea, coincidono con l’intera popolazione della Cisgiordania. L’affermarsi di questo “Stato dei coloni” rappresenta la sconfitta storica del sionismo. Rifletteva in proposito Zeev Sternhell, il più grande storico israeliano:
Resto fermamente convinto che il sionismo ha il diritto di esistere solo se riconosce i diritti dei palestinesi. Chi vuole negare ai palestinesi l’esercizio di tali diritti non può rivendicarli per se stesso soltanto. Purtroppo, la realtà dei fatti, ultimo in ordine di tempo il moltiplicarsi dei piani di colonizzazione da parte del governo in carica, confermano quanto da me sostenuto in diversi saggi e articoli, vale a dire che gli insediamenti realizzati dopo la guerra del ’67 oltre la linea verde rappresentano la più grande catastrofe nella storia del sionismo, e questo perché hanno creato una situazione coloniale, proprio quello che il sionismo voleva evitare. Da questo punto di vista, per come è stata interpretata e per ciò che ha innescato, la Guerra dei Sei giorni è in rottura e non in continuazione con la Guerra del ’48. Quest’ultima fondò lo Stato d’Israele, quella del ’67 si trasformò, soprattutto per la destra ma non solo per essa, da risposta di difesa a un segno “divino” di una missione superiore da compiere: quella di edificare la Grande Israele.

Zeev Sternhell
Il 1967 come svolta, passaggio epocale, segnato dalla predominanza politico-ideologica della Nazione (ebraica) sullo Stato. È bene riconoscere che questa “metamorfosi” si è compiuta. E che l’Israele che si appresta a festeggiare i suoi settant’anni non si sente rappresentato, se non in una minima, anche se eroica, sua parte, degli scrittori più conosciuti e amati in Europa: Abraham Bet Yehoshua, Amos Oz, David Grossman…
Israele è orgoglioso di essere l’“unica democrazia in Medio Oriente”. È vero. Ma è solo una parte di verità. Quella più presentabile. L’altra, quella preponderante ma molto meno accattivante fuori dai confini d’Israele, si fonda sull’appartenenza etnica, sull’affermazione di una diversità che crea gerarchia, che al massimo può contemplare la tolleranza ma mai una piena inclusione.
La “Questione israeliana” non ha nulla di difensivo. A ben coglierla, è parte di quel sovranismo nazionalista che dagli Usa di Trump si proietta in tanta parte, statuale, dell’Europa. Con una specificità propria di Israele: la sua etnocrazia.

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