Ma sopravviverà l’Inpgi fino al 2020? Non è una domanda solo provocatoria, ma semplicemente una preoccupazione impellente. In questa settimana decine di giornalisti sono stati licenziati o pre-pensionati. Da giornali locali, agenzie internazionali, grandi gruppi editoriali. quali la Città di Salerno, Reuters, Mondadori. Tra poco si discuteranno altri piani di esubero di testate quali la Repubblica, il Sole 24 ore, La Stampa, la Gazzetta dello Sport. Da lì verranno scaricati sull’istituto previdenziale dei giornalisti altre centinaia di pre-pensionamenti, rendendo ingovernabile un bilancio che già oggi è fuori controllo. Il 2019 si prepara a chiudere il suo esercizio con un deficit record di duecento milioni. Le riserve patrimoniali, essenzialmente fabbricati, a mala pena al momento coprono due anni e mezzo di attività, quando la legge impone un parametro minimo di cinque anni per rimanere in piedi. Solo un ridicolo codicillo di quella legge, che impone di rapportarsi ai costi del 1994, cioè di venticinque anni fa, permette ancora la finzione di un istituto funzionante e autonomo.
Il problema non è la gestione. Le varie amministrazioni succedutesi alla testa dell’istituto hanno dovuto fronteggiare terremoti senza alcuno strumento. Nessuno potrebbe gestire un bilancio in cui i costi diventano impareggiabilmente superiori agli introiti in maniera strutturale.
Il nodo è politico, anzi direi culturale. Il giornalismo s’avvia a diventare la prima categoria professionale che s’estingue per inconsistenza previdenziale. Ma prima ancora per miopia culturale e strategica. Com’è possibile che una professione deputata a leggere la realtà, che ha passato la sua storia a raccontare come girava il mondo, a predicare a coloro che volevano resistere che il progresso non si può inibire, farsi sorprendere dalla propria innovazione? Sono almeno vent’anni che è diventato evidente e ineludibile il processo di automatizzazione delle produzioni giornalistiche.
Già nel passaggio fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, con il passaggio dal caldo al freddo, e l’arrivo dei computer in redazione si doveva capire. Allora ce la cavammo scaricando tutto il peso della semplificazione sui tipografi che furono decimati dalla digitalizzazione della composizione e messa in stampa. Poi progressivamente, con l’inesorabile incremento delle tecnologie intelligenti, venivano prima automatizzate le funzioni di collegamento e trasmissione, poi le forme di raccolta e distribuzione delle fonti, infine la selezione dei testi e ora la loro elaborazione e pubblicazione. Ma come ci spiega Tim Berners-Lee, il padre del web, Internet è un’innovazione sociale prima che tecnologica. E noi giornalisti abbiamo bucato proprio la lettura sociale. Non siamo dinanzi a una scoperta che cambia il modo di fare il giornale, siamo circondati da una sollevazione antropologica di ogni individuo che pretende di essere al tempo stesso utente e produttore dei propri flussi informativi.
Un fenomeno questo che viene da lontano. Tutto il progresso sociale è storia di disintermediazione. Dai primi sacerdoti stregoni, agli ultimi scienziati biologici, tutti i titolari di saperi (religione, scienza, politica, economia, filosofia) sono prima insediati come principi, poi contestati come usurpatori.
Già nel 1937, Walter Benjamin, nella seconda stesura del suo saggio “L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica”, analizzando le prime forme di intervento dei lettori nei giornali attraverso le lettere al direttore scriveva:
La stampa quotidiana iniziò ad aprire ai lettori la propria cassetta delle lettere, e così che oggi non c’è un europeo inserito nel processo lavorativo che, in linea di massima, non possa trovare l’opportunità per la pubblicazione di un’esperienza lavorativa, di un reclamo, di un reportage o cose simili. Con ciò la distinzione fra autore e pubblico è sul punto di perdere il suo carattere fondamentale. Il lettore è ognora pronto a divenire uno scrittore.
Siamo nell’antidiluviano 1937, da allora quante lettere sono arrivate ai giornali, e quanti post, e ora quanti video? E soprattutto quante piattaforme, veicolando questi flussi si sono sovrapposte ai media diventando esse stesse media e dunque spostando il fulcro della mediazione dall’artigianalità professionale alla potenza tecnologica? Questi due fenomeni – algoritmi e condivisione – stanno sgretolando il modello di business, e prima ancora, il perimetro culturale del giornalismo. Sfaldandone ogni economia di scala e rendendo una professione inconsistente dal punto di vista economico.
Come si può intervenire? Certamente, intanto, comprendendone la drammaticità. Cosa che, per una sorta di esorcismo pciscologico, la categoria ancora non riesce a fare. Nei giorni scorsi si è tenuto il congresso della Fnsi, il sindacato unitario dei giornalisti, la sede della massima consapevolezza dello stato di salute di quel segemento vitale che è l’informazione. Incredibilmente la parola algoritmo è apparsa solo nel titolo del congresso e in maniera del tutto fuorviante. L’informazione non è un algoritmo. Uno strillo alla luna. Basterebbe che ognuno desse uno sguardo al proprio desk, alla propria stanza, alla propria vita, per comprendere che tutto è un algoritmo. E che sicuramente tutti gli algoritmi sono informazione e dunque non possiamo non porci il problema di come estendere il presidio professionale e sindacale a quel mondo.
Come si fa giornalismo nell’epoca della riproducibilità del pensiero?, si chiederebbe Benjamin. Come s’interferisce con l’automatizzazione delle redazioni? Come s’interviene alla Città di Salerno, a Reuters, alla Mondadori, dove con i licenziamenti non si riducono le produzioni ma si modificano e automatizzano?
Questo è il tema. Che ci porta a un altro passaggio: l’informazione oggi è calcolo, ossia intelligenza artificiale, come già Claude Shannon scriveva nel 1938 a Vannevar Bush, giocando proprio sul sinonimo in inglese di intelligence che indica, indifferentemente, informazione e intelligenza. Oggi questo gioco di parole diventa un destino. Se non ci poniamo il tema di rileggere il mondo in questa logica considerando giornalismo tutte le attività che spostano l’informazione – ancora Shannon lo spiegava – da un punto all’altro, e non solo le interpretazioni letterarie di questo spostamento, ci troveremo soli a rimpiangere l’unicità della scrittura.
L’emendamento che è in discussione in parlamento che sposta all’Inpgi figure professionali come i comunicatori e gli informatici non deve essere solo una furbizia contabile, ma una vera rivoluzione culturale, che renda giornalismo qualsiasi organizzazione di informazioni, articolando il contratto per figure diverse di uno stesso mestiere. In caso contrario si para dinanzi a noi la più selvaggia delle trasformazioni: da cani da guardia del potere a impiegati delle amministrazioni statali. Sperando che, con benevolenza, ci salvino l’Inpgi. Ma non è detto.

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